25/02/13

Correttezza in campo. Che non vinca il peggiore

In attesa che Stefano Benni aggiorni il suo Bar Sport al nuovo secolo (sono trascorsi quasi 40 anni dall’uscita del libro divenuto un classico dell’umorismo) a tutti è dato vedere come quel luogo, un po’ reale un po’ metaforico (finanche metafisico) resista ancora. L’arrendevole squallore delle luci a neon di un tempo, luccica oggi di lampade a led, ma il Bar Sport è vivo e lotta insieme a noi. Interagisce con la piazza virtuale e con le strade (quasi sempre senza sfondo) sulle quali le parole degli uomini fanno jogging: tenace, inconcludente, necessario. Forse la sintesi del binomio sport/società sta proprio lì, persa tra i vapori della macchina da caffè che quotidianamente irrora i prati incommensurabili dell’ovvietà. Ecco, allora, le chiacchiere assurgere esse stesse a pratica sportiva. Hanno le loro olimpiadi, i primatisti, gli sponsor, le sostanze dopanti, i bilanci in rosso, gli allenatori, i gironi di andata e ritorno, gli immancabili ultras. Lo sport della vita – quello sì di massa – trova allora il verso di svolgere il proprio campionato. E anche in tal caso a vincerlo sono sempre i soliti. Per ridare all’universo sportivo una sua ‘ragionevolezza’ converrebbe davvero indire convegni nei bar. Aiuterebbe, se non altro, a liberarlo da quella schizofrenia che lo sdoppia tra retorica, intenti pedagogici, finalità sociali, e una prassi che, ai diversi livelli organizzativi e agonistici, va puntualmente a smentire certi conclamati valori. I problemi in materia sono complessi e talvolta contradditorî. Non è infatti facile gestire, insieme, business, strutture tecniche, risultati agonistici, propositi educativi, coltivazione di talenti, e tutte le dinamiche umane che vi sono connesse. Ciò che avvilisce è, però, assistere a un esercizio dello sport che potremmo definire ‘disperante’: nelle nevrosi, nelle frequenti slealtà e disonestà di chi lo pratica (o lo promuove), nella dissennata (alienante) baraonda di alcuni supporters, nei costi (e non nei benefici) sociali che ne derivano. Scrisse Jean Cocteau che lo sport era da considerarsi uno specchio della vita psicologica del Novecento. A suo modo continua ad esserlo, per come intersechi diversi aspetti dell’esistenza delle persone. Una testimonianza in tal senso ce la offre anche la letteratura che, in forme diverse, ha saputo narrare quell’universo. Già in questa pagina domenicale abbiamo avuto occasione di parlarne, ma merita, appunto, ricordare che proprio l’esperienza letteraria ha spesso descritto i caratteri, i risvolti psicologici, l’epica, i sentimenti derivanti dallo sport. Sarebbe dunque auspicabile che questa rappresentazione artistica potesse continuare a prodursi, quale riprova che il mondo cui essa si ispira è sempre in grado di suscitare pathos, emozioni, gesta eroiche di vittorie e di sconfitte. A detta di Muhammad Ali i campioni non si fanno in palestra, ma con qualcosa che essi hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Ecco di quale sport vorremmo ascoltare tuttora il racconto. Che, dunque, non vinca il peggiore.

18/02/13

Se Pietro abdica. Crisi della Chiesa ma non solo

Nella scultorea bellezza della lingua latina, quella frase ha indubbiamente scalfito le pietre che a fatica vanno fondando il nuovo millennio. “Conscientia mea iterum explorata … ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum”. A pronunciarla era il papa che, dinanzi alla sua coscienza e a Dio, stava giustappunto rassegnando le dimissioni perché la vecchiaia non gli avrebbe consentito l’energia richiesta dal gravoso ministero. E’ così che il tradizionalista Benedetto XVI ha compiuto il gesto più rivoluzionario che un papa potesse compiere e che ciascuno di noi, sulla scorta delle proprie sensibilità, cultura, credenze, ha provato a spiegarsi. Sorprendente, innanzitutto, come all’ineccepibile curriculum ecclesiastico di Joseph Ratzinger debba ora ascriversi una scelta tanto ‘anti-istituzionale’ e che risulta addirittura profetica. Contiene, infatti, il messaggio che il servizio petrino non è un primato di onore e di giurisdizione, ma un primato pastorale. Se ciò viene meno, decade anche la ragion d’essere della chiesa. Da questo punto di vista papa Ratzinger ha dato una lezione che vale un’enciclica, soprattutto in un momento nel quale la chiesa gerarchica è persa in faide curiali, intrallazzi finanziari, terribili scandali. Il cuore di Benedetto XVI (per quanto aiutato da un peacemaker) non regge più lo scempio. Ma si ha anche l’impressione che in quel sofferto scandaglio di una “conscientia iterum explorata”, il papa (la sua intelligenza, capacità intellettuale, fede) abbia rilevato, non di meno, l’abissale distanza che separa il mondo dal cristianesimo e, quindi, l’inadeguatezza della stessa chiesa dinanzi a un siffatto problema. Esiste ormai un’umanità che non può dirsi nemmeno anti-religiosa, ma – culturalmente – post-religiosa. E’ da qualche decennio che l’annuncio del Vangelo non può contare sulla coesione ideologica, politica, culturale e spirituale di un mondo che, comunque, era solo una parte di mondo, quello occidentale. Dinanzi alla crisi della modernità, la chiesa non riesce a trovare le modalità del suo annuncio. Si è inesorabilmente consumata la dissociazione tra cristianesimo e una antropologia che sul cristianesimo era stata plasmata. La vecchiaia e la fragilità di Joseph Ratzinger porta con sé questa consapevolezza e il patimento che ne deriva. E’ la crisi della chiesa, ma, per certi aspetti, pure dell’intero Occidente; di un’epoca, anch’essa invecchiata, che oggi va a rifugiarsi nel cuore affaticato di un ottantaseienne uomo di Dio: fermo nella fede, affranto nel vederla negata dai suoi stessi ministri. Quando egli deporrà le vesti pontificali, quel gesto starà a significare che il “primato di Pietro” non è a servizio della religione, ma della fede. La chiesa non vive in funzione di se stessa e della propria potenza. E’ provvisoria, fragile, persino attraversata dal dubbio. Non è un’istituzione, ma un ‘evento’ che continuamente accade tra la storia e una dimensione ‘altra’.

11/02/13

Onda su onda. Il medium che educa alla lontananza

Tra gli strumenti che hanno contribuito alla mia educazione sentimentale devo senz’altro ascrivere la radio. E’ stato il mezzo che mi ha formato al senso della ‘lontananza’. Cioè alla percezione di quello spazio della mente, dell’immaginazione, dell’intimo sentire, che rende prossime le cose remote, colmandone la distanza con pensieri, fantasie, emozioni. Mi rivedo ragazzino girare la manopola delle sintonie, finché, come da una gorgoglio di mari, da una Babele di sintagmi e di gente, sarebbero emersi chiaramente suoni, voci, racconti. Anche la notizia più rassicurante acquistava pathos, allertava il cuore. Fu in queste fascinose escursioni che ascoltai per la prima volta l’allegretto della Pastorale eseguita dai filarmonici di Berlino: la banalità di un arpeggio trasformarsi in sublime invenzione. Di quello stesso genio, “diventato sordo e scontroso” – mi aveva raccontato la mamma – era anche la sigla con cui, in tempo di guerra, si aprivano le trasmissioni di Radio Londra, ascoltata clandestinamente nella penombra dei coprifuoco e delle tende tirate. Notiziari la cui voce aveva la ferma pacatezza della speranza, contrapposta all’enfasi della propaganda fascista. I bollettini del mitico colonnello Harold Stevens venivano giustappunto annunciati (tam-tam-tam-tam) con l’inizio della Quinta di Beethoven. Perché quelle prime note così scandite, se decodificate con l’alfabeto Morse, trascrivevano la “V” di “Victory”. Per me che, fortunatamente, la guerra l’avrei vista, dopo, soltanto al cinema, ancora più avvincente fu sapere dei messaggi criptati che per mezzo di Radio Londra gli alleati trasmettevano alle unità della resistenza italiana. Non nego che tali suggestioni – l’idea di clandestinità, la trasgressione, l’andare-contro per una causa giusta – mi sarebbero tornate in mente negli anni Sessanta-Settanta con il proliferare di quelle che furono chiamate “radio pirata”, poi divenute “radio libere”, ora “private”. Era il tempo in cui Eugenio Finardi cantava: “Amo la radio perché arriva dalla gente / entra nelle case e ci parla direttamente / se una radio è libera, ma libera veramente / piace ancor di più perché libera la mente”. Erano gli anni in cui un ragazzo siciliano, Peppino Impastato, attraverso gli artigianali microfoni di Radio Aut, intendeva combattere la mafia. Perciò fu assassinato. Qualche decennio fa si disse anche che la radiofonia sarebbe stata fagocitata da televisione, web e da come questi due strumenti andassero interagendo. Ma la radio ha resistito ricollocandosi nel contesto massmediale, ed oggi vanta grandi ascolti. Probabilmente in virtù di quanto ebbe a evidenziare un signore che di queste cose se ne intendeva, Marshall McLuhan, il quale sosteneva che: “La radio … è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare corde remote e dimenticate”. Ma non solo. A differenza della televisione, che illuminando il reale allo stesso tempo ce lo sottrae, la radio restituisce la lontananza necessaria alla nostra immaginazione, la notte che fa ingrandire i pensieri.

04/02/13

Cecità. Avere insieme i libri e la notte

Sono belle a vedersi le parole che sulla pagina bianca compongono architetture di discorsi; e i discorsi che formano conoscenze, e le conoscenze pensieri, e i pensieri sentimenti, che, così scritti, parlano tutte le lingue del mondo. A negare questa esperienza della lettura può essere solo il buio o il pianto, due condizioni in cui le parole ci sono, ma risultano negate all’evidenza. Come se, inibito lo sguardo, anche la parola decadesse. Qualcosa di analogo a quanto Diderot confidava alla sua amata nella Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono: “Scrivo senza vedere. E’ la prima volta che scrivo nelle tenebre … senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà, leggi che ti amo”. Purtroppo, chi – fuori ogni metafora – si trovi nella condizione di cecità, ha accessi molto limitati alla parola scritta. Qualcosa gli è possibile utilizzando sistemi tattili o, più recentemente, grazie all’informatica. Quando osserviamo una persona che legge attraverso il Braille si ha davvero la sensazione di quanto quelle parole trovino quasi una nuova e fabbrile creazione, uno svelamento: lo scrittore ha faticato (sovente sofferto) a sceglierle, costruirle, saggiarne il suono; ed ora chi le decodifica a fior di pelle, sembra esercitare un impegno pari a quello dell’autore. Il cieco conquista in tal modo la parola scritta; altre volte semplicemente ascoltandola. Ma qualunque sia il mezzo dell’appropriazione, egli subito la interiorizza senza disperderla in confusioni di sguardi, come invece può accadere ai vedenti. Forse proprio per queste ragioni mito e letteratura hanno trovato nella cecità il corrispettivo alla visione interiore, alla divinazione, alla veggenza. Basti pensare a quel san Tommaso i cui occhi di lince non avevano, però, svelato alcunché a cuore ed anima. Non manca, certo, letteratura sull’argomento. Dal D’Annunzio di Notturno al Saramago di Cecità, passando per Wells (Il paese dei ciechi), Dürrenmat (Il cieco), Pinter (La stanza), Hull (Il dono oscuro). Così come, a suo modo, è in tema il Joyce dell’Ulisse e di Gente di Dublino. Ma forse lo scrittore che maggiormente ha illuminato con le parole il buio della cecità è Borges. Il testo più toccante del poeta argentino coincide con la sua nomina (era il 1955) a direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, 900.000 volumi che lui, pressoché cieco, non avrebbe mai potuto vedere. Scrisse allora: “Nessuno riduca a lacrima o rimprovero / questa dichiarazione della maestria di / Dio, che con magnifica ironia / mi diede insieme i libri e la notte”. Indubbiamente uno strano destino quello che aveva consegnato una città di libri a “occhi privi di luce, che soltanto / possono leggere nelle biblioteche dei sogni / gli insensati paragrafi che cedono / le albe al loro affanno”. E pensare – dice ancora Borges – che “mi figuravo il Paradiso / sotto la specie d’una biblioteca”. Ebbene, piacerebbe pensare che un simile aldilà potesse davvero esistere, in modo che tutti, proprio tutti, avessero da leggere l’intera biblioteca del visibile e dell’invisibile.