28/03/11

Letteratura "disarmante". Raccontare i conflitti per demistificarli


Si può essere talmente sprovveduti (ideologicamente) rispetto al mondo da ritenere assurda qualsiasi guerra. A questo enclave di ingenui (cui apparteniamo) fu a suo tempo di consolazione la lettura del romanzo-capolavoro di Joseph Roth, La marcia di Radetzky, dove è detto che persino l’eroico generale austriaco amava sì le sfolgoranti e simmetriche parate militari, ma assai meno le guerre, perché sapeva che anche quando pare di vincerle, in realtà “si perdono”; ovvero, troppo alto è il prezzo da pagare, troppo incerte le conseguenze. In uno splendido passaggio del romanzo è scritto: “Allora, prima della Grande Guerra, […] non era ancora indifferente se un uomo viveva o moriva. Se uno era cancellato dalla schiera dei terrestri non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il morto ma, dove quello mancava, restava un vuoto, e i vicini come i lontani testimoni del declino di un mondo ammutolivano ogni qual volta vedevano questo vuoto”.
Tale è dunque il nostro sconforto dinanzi ai guerreggiamenti (qualsiasi essi siano) che quasi ci disturba prendere atto di quali belle pagine letterarie la guerra abbia ispirato, contribuendo, anche senza volerlo, a creare una mistificazione, un’epica del conflitto armato. Ma tant’è. Si comincia con l’Iliade per proseguire, attraverso le molteplici odissee della storia, fin dentro lo sconquasso del Vietnam. Del resto gli scrittori fanno il loro mestiere: raccontare. E non è da escludere che sia questo l’unico modo per “sfatare” veramente la guerra e denunciarne gli orrori.
Tornano a mente, in proposito, i terribili versi di Clemente Rebora nella poesia Viatico, allorché vedere il compagno di trincea agonizzante, ridotto tronco senza gambe, fa supplicare l’affrettarsi della morte per “la pietà di noi rimasti”, e dunque “lasciaci in silenzio / grazie, fratello”. In una analoga situazione, Ungaretti constaterà che “non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Così palpabile è, infatti, il senso di precarietà vissuto al fronte che il poeta scriverà ancora: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. E chi di noi non si commuove nel leggere la ‘ingenua’ poesia di Corrado Alvaro in cui immagina di dover chiedere A un compagno di avvertire la famiglia della sua morte in battaglia: “Di’ loro che la mia fronte / è stata bruciata là dove / mi baciavano, e che fu lieve / il colpo, che mi parve fosse / il bacio di tutte le sere”.
In conclusione. Se le guerre sono davvero ineludibili, resti per lo meno il segno dell’inchiostro ad annotarne il paradosso, il disincanto, un sentimento che da esse ci dissoci.

21/03/11

Ventuno marzo. Il solstizio della poesia


Se fosse vero che le stagioni non sono più quelle di una volta, artisti e poeti verrebbero ad essere privati di una bella risorsa. Speriamo, quindi, che oggi, vigilia (incerta) di inizio primavera, il ricorrente luogo comune venga smentito dai fatti (meteorologici) e che così possano cantare uccellini e verseggiatori. Diversamente dovremo fare appello ai poeti di una volta, anche se non consola quanto, oltre mezzo secolo fa, già lamentava un ecologico Bertolt Brecht: “molto tempo prima / che ci gettassimo su petrolio, ferro e ammoniaca / c’era ogni anno / il tempo degli alberi che verdeggiavano / irresistibili e violenti”. Insomma, concludeva lo stesso Brecht, altri tempi…, con le giornate più lunghe, il cielo più chiaro, la primavera che poteva annunciarsi in un particolare mutamento dell’aria, mentre “ora leggiamo nei libri / di questa celebrata stagione”.
Se poi pensiamo alle primavere ottocentesche di Recanati che brillavano nell’aria ed esultavano nei campi, appare evidente che doveva trattarsi di una roba talmente bella da mandare in bestia, per contrasto, colui (Leopardi) il quale, invece, non trovava in sé grandi motivi di contentezza, al pari d’un passero solitario restio a far combriccola con i suoi simili “per lo libero ciel”.
Il dramma esistenziale di Giacomo non è certo paragonabile a quello ben più universale che altra primavera annunciò nel 1938 e che nei versi di Montale (Primavera hitleriana) assunse questa drammatica descrizione, allorquando Hitler e Mussolini visitarono Firenze: “Folta la nuvola bianca delle falene impazzite / turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette […] Da poco sul corso è passato un messo infernale […]”. Ecco, allora, che la primavera resta intirizzita in un ritorno di gelo, tanto che l’iniziale nube di farfalle precipita come in una nevicata invernale. In tale frangente della storia c’è davvero il sovvertimento delle stagioni, di un’alba che domani si riaffaccerà “bianca ma senz’ali”. E, peggio ancora, è lo sconvolgimento dei valori, del mondo intero.
Che mai più tornino, dunque, quelle non-primavere e gli indignati versi dei poeti a raccontarle. Meglio il pacificato sole ungarettiano che “si semina in diamanti / di gocciole d’acqua / sull’erba flessuosa” o il paesaggio così minimalista di Emily Dickinson, secondo cui per fare un prato sono sufficienti un trifoglio, un’ape e un sogno, ma soprattutto il sogno. Valga pure per noi la lezione della Dickinson, a meno che perfino i sogni non siano più quelli di una volta.

14/03/11

Storie di matti. Maso che sentiva i treni


Tutti lo chiamavano Maso. Uno tra i molti coatti nell’ospedale psichiatrico San Niccolò, vera e ‘altra’ cittadella sorta su un appartato margine della città vecchia. Maso era matto, ma non troppo; così che lui poteva varcare tutti i giorni i saldi cancelli della contenzione e percorrere il tratto di ‘normalità’ che lo portava fino al vicino convento dei Servi dove, vestito di una spolverina giallognola, arrancava in modeste incombenze tra le stanze conventuali e la basilica. Prediligeva fermarsi davanti alla cappella in cui campeggia una inquietante Strage degli innocenti e da lì, con la sua risata sdentata e sublime, far partecipi gli altri di tutte le cose che lui ‘vedeva’. Come quando, in occasione del restauro della chiesa, cavarono da sotto il pavimento diversi mucchietti d’ossa (reperti di pie sepolture) e lui vide ovunque donne morte tutte nude e dettagli anatomici che lo esaltavano in un exultet tanto blasfemo quanto innocente. Maso rideva rideva. E nella sacrale penombra sembrava riproporsi una sorta di risus paschalis, quella antica usanza alemanna, in cui, durante la liturgia pasquale, il celebrante provocava crasse risate dei fedeli dicendo e facendo dall’altare incredibili sconcezze. Rito che, al di là del comprensibile imbarazzo, aveva forse in sé il richiamo ad un divino e originario stato della carne e del piacere.
Maso era il fool, il folle, lo stolto, il diverso con licenza di essere demone e angelo. Colui al quale è concessa libertà di parola e impunità. Stava in piedi con un interrotto dondolio, quasi ad accondiscendere il beccheggio di quella ‘stultifera navis’, bene scrutata da Michel Foucault (si legga il suo fondamentale saggio Storia della follia nell’età classica) sulla quale – deriva di esistenze – venivano imbarcati i reietti, gli esclusi che la società intendeva allontanare.
Certe volte il matto del convento dei Servi badava ripetere: ‘oggi si sente il treno’. Lo diceva con un accento così ispirato da far venire in mente lo stesso treno che nel delirante Sogno di prigione di Dino Campana “[…] si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte […] poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? Io ch’alzo le braccia nella luce!!”.
Un giorno di un’estate esageratamente calda (l’avamposto delle cicale a ridosso della città murata risuonava come un convegno di ossesse) accadde che nessuno vide Maso traccheggiare nel suo consueto viottolo di normalità, dal manicomio al convento. Aveva sentito il treno, e quella volta c’era salito.

07/03/11

Nel segno della mimosa. In amore non ci sono metà


A volte il linguaggio può tradire anche le buone intenzioni. Capita, infatti, di usare compiaciute espressioni attraverso cui traspaiono mentalità, pregiudizi, ambiguità che vanno come a smentire quanto, invece, si intenderebbe far passare di noi per procacciarci le moine dell’altrui approvazione. La lingua usurata della quotidianità ne offre un ampio repertorio. Pensiamo a quello zuccheroso “la mia dolce metà”, per alludere ai nostri partner in amore senza i quali – a detta di ovvietà – ci mancherebbe un buon cinquanta per cento ad essere “interi”. Sù via, ma quale “metà”! Nel rapporto uomo/donna (solitamente a quello facciamo riferimento) non si procede certo per “assemblaggio”, non ci si “acquisisce” al fine di guadagnare una completezza, poiché l’uno e l’altra sono in sé persone differenti e già compiute. Dunque, al di là della smanceria, parlare di “dolce metà” pare rivelare più un’idea di possesso che di reciproca appartenenza, quale è da ritenersi un tenero e maturo rapporto di coppia. L’amore di un uomo e di una donna non è affatto una somma, anche se – bizzarra algebra del sentimento amoroso – quando uno dei due viene a mancare, si avverte, eccome, il computo della sottrazione.
Una sponda letteraria a questi pensieri potrebbe trovarsi nei dolenti versi di Montale (compresi nella raccolta Satura) che cominciano dicendo: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto”. Il poeta ha perduto la moglie e scrive, sgomento: “Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio”. Drusilla Tanzi (nota con il soprannome di Mosca), non era stata per lui l’altra “metà”, ma la consustanziale presenza al suo esistere. Tanto da dichiarare che per il proprio restante viaggio “[…] più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede”. Negli ultimi due enunciati che formano la seconda strofa, Montale confida infine alla moglie (ma soprattutto a se stesso) per quale motivo scendessero le scale tenendosi a braccetto. Non per il timore che essa potesse cadere a causa della sua forte miopia, poiché tra i due, nonostante l’opacità degli occhi, era lei a scorgere la verità: “Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue”.
Toccante dichiarazione d’amore che riconduce il rapporto uomo/donna ad una dimensione di paritaria reciprocità. Versi che – ben inteso, da vivi – vorremmo a dedica dei nostri affetti. Magari nel giorno festoso delle mimose.