26/09/11

Storie di carta. Pagine aperte a seconda vita


Lui abitava al piano nobile vicino a suoi pari. Bell’aspetto nonostante l’età; anzi, proprio dagli anni gli derivavano fascino, autorevolezza, garbo e disponibilità a rapportarsi con il mondo circostante. Lui era un libro. La sua dimora il privilegiato palchetto di una libreria dove risiedeva tra altri simili che qualcuno aveva collocato alla giusta altezza perché interlocutori privilegiati, consiglieri e confidenti. Da là partecipava ad una quotidianità domestica di cui conosceva ogni cadenza. Aveva visto le diverse stagioni di persone, affetti, cose – conviventi e complici – domandandosi spesso se fossero state loro ad avere scritto le sue pagine o se, grazie a lui, quelle stesse persone e cose avevano potuto trovare, di volta in volta, parole, pensieri, ragioni; persino gli spazi bianchi che necessitano tra un capitolo e l’altro…, della vita in tal caso.
Le stanze poi erano divenute sempre più silenziose, abitate soprattutto da assenze, da un ispessito rimpianto. Vi era rimasto solo l’uomo che di libri le aveva stipate. Non si poteva certo dire che quei libri venissero trascurati, oggetto com’erano di carezzevoli riletture, rinnovati incontri dove il tempo portava saggezze e acclarati convincimenti. Ma le premure crescevano con il pacato tormento che prelude gli addii. Se ne accorsero per primi i volumi che del sentimento umano meglio raccontano il groviglio e che erano tornati ad essere sfogliati da dita – come ebbe a dire uno di essi versato nella musica – simili ad arpeggio di tonalità minore. I libri avevano già capito tutto. L’uomo, infatti, prese definitivo congedo in un’alba feriale, ovvia ad ogni pertugio che andava accendendo. Nella casa seguirono giorni alterni di silenzio e di forsennato tramestio, finché anche la biblioteca – ingombrante quanto irrisa eredità – fu svenduta e dispersa.
Dopo il comprensibile spaesamento, a lui (il libro che per una vita aveva abitato al piano nobile vicino a suoi pari) non andò poi male. Si ritrovò tra le mani di un ragazzo dai gesti e dall’intelligenza svegli. Il libro, ormai rassegnato a un’esistenza di riuso, portava scritto in costola Don Chisciotte della Mancia. Determinante per la sua consolazione fu la sera che vide il ragazzo indugiare meravigliato sulle parole introduttive di Borges che dicono: “Chiuso il libro, il testo continua a crescere e a ramificarsi nella coscienza del lettore. Quest’altra vita è la vera vita del libro”. Così anche il libro del piano nobile etc. etc., poté comprendere appieno il senso di quella sua seconda vita.

19/09/11

Andar per sagre. Il revival alla brace


La bistecca cotta al sangue è sacra, ovvero… sagra. Ecco in giocosa sintesi ciò che i linguisti chiamerebbero uno slittamento semantico e che, nel caso specifico, ha portato a chiamare sagra non più, come accadeva verso la metà del Trecento, la festa anniversaria della consacrazione delle chiese (sacra), ma appuntamenti gastronomici, fiere e mercati di natura varia. Si presume comunque (e già in questi termini ne parlava il Boccaccio) che fin da quando sacra era la sagra, venissero ugualmente mescolati i profumi dell’incenso a quelli dell’arrosto, i suoni d’organo a canzoni e balli, l’acquisto della salvezza eterna ad altri mondani baratti.
Dunque la sagra fu, e continua ad essere. Resistono – addirittura prolificano – questi convegni popolari anche nell’epoca del web e del globale. Così che la banda larga sa farsi stretta e chiassosa in ben diverse bande di pifferi e tamburi. L’universo mondo tornare ad essere paese, ed il paese quinta di teatro rizzata alla bisogna.
Fenomeno anch’esso post-moderno? Stai a vedere che la madre di tutte le sagre odierne non sia proprio la fiera postmodernista con i suoi banchi di filosofia spicciola, sincretismo a buon mercato, bricolage di idee e sentimenti. Tra business, turismo, nostalgie, folclore di origine più o meno controllata, abbuffate e rigurgiti a chilometro zero, tale è il modo con cui la società urbana ricerca qualche nesso con la tradizione rurale, con un universo – sia detto – in cui non prevaleva certamente la dimensione ludica e festaiola. Ricordarlo oggi, fosse anche con una semplice zuppa, mette invece allegria: effervescenti e bisunti gli organizzatori attorno ai bracieri, soddisfatto il pubblico che vi partecipa a frotte. Contenti tutti, insomma, nel rivangare un tempo al netto della miseria e della disperazione che lo abitavano.
Capitò una volta a chi qui scrive, di trovarsi a notte fonda in una piazza di paese dove da qualche ora si era conclusa la sagra annuale. Sedie scomposte, tripudio di plastica e vento, rumori come residui passi di mazurke, un cielo basso che faticava a smaltire vapori di salsicce e umanità. Dismesso il revival, abbandonati i suoi travestimenti, partiti gli attori. Mai simile squallore, però, mi era parso tanto gravido di poesia. Esagerai a tal punto da farmi tornare in mente il Leopardi della Sera del dì di festa: “Questo dì fu solenne: or da’ trastulli / prendi riposo; e forse ti rimembra / in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti / piacquero a te…”. Ebbene sì. Finita la sagra, persisteva d’essa un rimpianto, una sua imprevedibile poesia.

11/09/11

Quel giorno che Il futuro crollò sul presente


Correva – o comunque teneva il passo verso la conclusione – l’anno 2001. Garruli e contenti eravamo lì a zompare sul proscenio del terzo millennio come bambini sopra il palco della recita scolastica. Non perché la situazione fosse proprio esaltante, ma in ragione di un moderato ottimismo che quel principio di secolo trasmetteva nonostante-tutto. La corte suprema degli Stati Uniti aveva dichiarato George W. Bush vincitore delle elezioni presidenziali, una non-personalità di spicco, incerto nell’eloquio, dalle poche idee ma confuse. Il prodotto interno degli Usa veniva sorpassato di due punti da quello europeo. Si era dovuto assistere allo scempio, per mano talebana, dei Buddha giganti di Bamiyan, colpevoli di essere nati troppo prima dell’Islam. Un papa tremante, accartocciato sulla propria sofferenza aveva chiuso i battenti della Porta Santa, già santo pure lui. L’Italia era alle prese con la mucca pazza e con il secondo governo Berlusconi.
La mattina di martedì 11 settembre il bandierone stelle e strisce issato sulla Liberty Island stava facendo il suo onesto lavoro (sventolare a gloria degli stati uniti d’America), fino al fatidico momento in cui, incredulo, vide collassarsi vetri, cemento e cielo, ed egli stesso mortificato dentro un’enormità di polvere. Comincerà così il reiterato racconto per il quale ogni aggettivo parve inadeguato; ma soprattutto sembrò impraticabile qualsiasi narrazione del reale. L’atroce e spettacolare accadimento mise in crisi coscienze, certezze residue, pallide idee di futuro; ed anche la scrittura dovette fare i conti con la sua connaturale ambiguità tra verità e finzione, per ridefinire le modalità di ciò che, da allora in poi, si potesse raccontare come vero o falso o virtuale. Perché il crollo delle Torri Gemelle è un’immagine in cui il reale ha imitato il virtuale. Sappiamo bene che al cospetto dei 2753 morti del giorno in cui vedemmo le “rovine del futuro” (l’espressione è di DeLillo), dinanzi allo sconquasso provocato nel comune sentire, il problema non è certo letterario. E infatti non lo è in quanto tale, ma come specchio della nostra coscienza storica. Ininterrottamente linkati con il mondo ne abbiamo la visione in tempo reale ma non la cognizione realistica. Qualcosa del genere accadde anche l’11 settembre 2001. Pertanto all’odierno esercizio emotivo di raccontare ciò che noi stavamo facendo quando crollarono le Twin Towers, proviamo ad aggiungere una variante: a quale mondo pensavamo in quel momento. E soprattutto a quale mondo stiamo pensando ora.

06/09/11

Ebraismo. Una lettura del mondo


Chi abbia avuto l’opportunità di assistere alla celebrazione di un matrimonio ebraico, sarà rimasto affascinato da una liturgia così arcaica che ancora va a inscriversi nella vita di due persone e in un tempo – il nostro oggi confuso e interlocutorio – distanti millenni da ciò che quel rito evoca. Lui e lei sotto la huppà, baldacchino-casa così solenne e precario; il corteo che incede verso i rotoli della Torah mentre una voce (più che voce, singulto di memoria) cantilla versetti che parlano di mogli come vite feconde e di figli come germogli di ulivo; lo scialle del rabbino, benedizione carezzevole sulla testa degli sposi; e infine la rottura di un bicchiere, perché non può esserci festa se venisse dimenticato il dolore provocato dalla distruzione del tempio di Gerusalemme («Si paralizzi la mia destra se ti dimentico Gerusalemme», proclama il maschio).
Proprio in ragione di tali suggestioni, ci spingiamo a dire che quella cerimonia sponsale apparentemente anacronistica e che va a suggellare una relazione di corpi, di storie e di sentimenti, potrebbe benissimo essere presa ad allegoria del rapporto tra ebraismo e modernità, farsi cioè chiave interpretativa per capire quanto Sergio Quinzio (si legga il suo libro Radici ebraiche del moderno, Adelphi, 1990) chiamava «il senso ebraico della radicale contingenza del mondo». Ovvero stare dentro le cose della vita con l’adattabilità di un nomade sempre pronto a partire; con la consapevolezza che la realtà non solo “è” ma “diviene”; ridere e piangere a seconda degli accadimenti, senza mai distogliere lo sguardo dai frantumi di quel bicchiere nuziale e quindi con l’idea di mettersi a servizio della ricomposizione di ciò che si è rotto.
Esiste, insomma, una visione ebraica della storia da prendere come possibile chiave di lettura del tempo che stiamo attraversando. Visione, ben inteso, piuttosto complessa che nella letteratura contemporanea, ad esempio, viene spesso rappresentata dallo scrittore Abraham Yehoshua. Egli nei suoi romanzi racconta, anche con una certa crudezza, tormentate vicende di relazioni umane entro contesti storici i più diversi; narra di pregiudizi e intolleranze, di culture e religioni differenti, di incontri e scontri generazionali, di sentimenti e risentimenti.
Ecco. Nella contingenza di un presente che pare aver perso tutti i verbi coniugabili al futuro, risulterebbe utile confrontarsi sull’attualità di questa cultura. Avvertiti dalla sapienza del Talmud che, pur trovandoci in mano agli stolti, «il mondo non si mantiene che per il fiato dei bambini».