19/11/12

Raccontare i luoghi. Se la veduta diventa “visione”

Quando Charles Dickens, verso la metà dell’Ottocento, attraversò le Crete senesi, rimase negativamente colpito da quei luoghi “desolati e selvaggi” che tanto assomigliavano allo “squallore e alla solitudine delle brughiere scozzesi”. Una trentina d’anni prima, in un freddo inverno del 1817, vi era transitato Stendhal e pure lui registrò sul suo taccuino di viaggio la veduta di un “seguito di collinette vulcaniche, coperte di vigne e di bassi olivi” per concludere che mai aveva trovato “niente di più brutto”. Sarebbe, dunque, dovuto passare del tempo e nascere una diversa idea di paesaggio prima che la penna poetica di Mario Luzi (e di altri scrittori) parlasse di quelle stesse lande come di un paesaggio dell’anima. Una terra che, diceva giustappunto Luzi, “eccita ed alimenta la condizione enigmatica dell’uomo; la rappresenta e l’asseconda”. Perché – sempre secondo il poeta – ciascuno di noi “ha dentro sé perplessità dense di mistero che qui trovano un luogo”. Ciò per significare che la veduta di un paesaggio, e soprattutto la sua intima percezione, può cambiare nel tempo. Al pari dell’azione dell’uomo – il quale della terra modifica orografie, colori, vita – anche la cultura, i parametri estetici che essa produce, intervengono a ‘modificare’ un territorio; che, pertanto, non è definibile una volta su tutte, poiché sottoposto a descrizioni mutanti, a stratificazioni di racconti, a un suo continuo divenire. Forse tutto cominciò con il Romanticismo, con il Grand Tour, il cosiddetto viaggio di formazione, allorché al manuale di viaggio semplicemente descrittivo si aggiungerà la proiezione psicologica di stati d’animo e di riflessioni che scaturivano dalla seduzione dei luoghi. Nascerà così il "viaggiatore sentimentale", titolo del libro del britannico Laurence Sterne pubblicato nel 1768 e reso celebre in Italia dalla versione di Ugo Foscolo edita nel 1813. E con un siffatto viaggiatore, ecco generarsi lo scambio fra sentimento e scena paesaggistica. Dalla “vista” di un paesaggio si passa alla sua “visione”. Esso non trova soltanto la descrizione estetica, ma anche estatica. Viene fondata la categoria del “pittoresco”, la degustazione estetizzante, consolatoria e nostalgica di un luogo, il suo racconto emotivo. Non basta più la geografia a dire come “è” un determinato posto, si vuole conoscere quello che “sembra”. A ben pensarci, ancora oggi – pur con il modo frettoloso e consumistico delle nostre escursioni – questa predisposizione sentimentale verso i luoghi perdura. La letteratura ha dato il suo notevole contributo nel creare mito e retorica di certe località e di interi territori. La citazione letteraria (che deborda sovente nelle guide turistiche, nei documentari, nei materiali promozionali, nei resoconti di viaggio) ne perpetua le suggestioni. Gli stessi residenti hanno la consapevolezza estetica ed emozionale del “dove” vivono, alimentano a loro modo la narrazione mitologica del luogo. Insomma: quel paesaggio ha un “senso” e dà senso a chi lo attraversa, a chi lo abita.

12/11/12

Racconti bonsai. Storia di un libro perso e ritrovato

“Incredibile – pensò Giulia – tu guarda dove era andato a infilarsi quel libro comprato anni fa e nemmeno sfogliato. Proprio lì, dietro l’armadio, così prossimo ma nell’oblio”. Lo aveva acquistato che frequentava ancora il liceo, ad una di quelle Fiere del Libro a cui vanno intere scolaresche. Nitido era il ricordo della circostanza. Una giornata di pioggia novembrina, gli ombrellini e gli zaini bagnati, i maschi che zompavano sulle pozzanghere perché chissenefregasepiove. L’incontro con l’autore dentro la tendostruttura, una grande bolla di caldo-umido e di odor di scuola. C’era chi sbadigliava, chi pomiciava, i più zelanti (i soliti) prendevano appunti. Il Vestri, che si alzava alle sei per prendere il treno, dormiva quieto in mezzo a un’epidemia di risolini. Fu parlato dei ‘valori che contano’. Seguirono le domande dei ragazzi, troppo impegnative per non risultare banali, mentre l’insegnante di lettere – make up delle grandi occasioni e sciarpone d’ordinanza – guidava l’assemblea con piglio e devozione da diaconessa. Troppo facile, ora, sbrigliare la nostalgia, magari con il rischio di farsi male. Eccessiva era ormai la distanza da quegli anni, non in termini temporali, quanto piuttosto per le cose successe e, ancor di più, per la consapevolezza che maturando si acquisisce verso ciò che accade. Giulia aprì il libro, un romanzo. Ne compulsò qualche pagina. Però…, bella scrittura, essenziale, prosciugata al punto giusto, con guizzi di grande intensità. Intuì il racconto di una vicenda tormentata. Si mise comoda sul letto e prese a leggerlo dall’inizio. Pagina dopo pagina, niente di inutile sosteneva la trama. Il protagonista chiedeva di continuo la complicità del lettore, la sua compassione, una sponda da coscienza a coscienza. Impossibile negargliele, tanto erano vere le ragioni (non di meno le contraddizioni) ora sussurrate ora conclamate. Che grande libro si stava rivelando! Erano trascorse ore, fuori era già buio, dalle case vicine la romba dei Tg attestava la disperazione del mondo, un tintinnio di stoviglie lasciava immaginare cene svogliate. Giulia tirò di lunga nella lettura, anche perché si era ormai accorta di essere lei la protagonista della storia. Finalmente qualcuno che gliela raccontava giusta, chiara, senza pregiudizi. Ecco Giulia mostrata a se stessa. Provò, allora, come la percezione fisica di questo svelamento. La sensazione sottopelle di come i sentimenti universali avessero trovato in lei modo di abitarvi: con dolore, dolcezza, prepotenza, amore, tenerezza. Giunta al termine aspettò a chiudere il libro, nel caso che qualcosa fosse rimasto ancora da dire… Avvertiva sotto le dita i caratteri a rilievo del titolo che inequivocabilmente sbalzavano la scritta “Storia di Giulia”. Finché la sua mano spinse la copertina a sigillare un’intima contentezza. Quella che si prova quando conosciamo se stessi e noi nella più vasta conoscenza della vita. Inspiegabili restarono le modalità secondo cui il romanzo fosse scivolato dietro l’armadio. Risultò invece evidente cosa si possa perdere per ogni libro non letto.

05/11/12

Sentimenti universali. Quando muore un artista

E’ morto Hans Werner Henze, a detta di molti il più grande compositore del nostro tempo, il maggiore Maestro contemporaneo d’opera, della parola musicata. Di lui, fin dalle prime composizioni, aveva sempre meravigliato la capacità di dominare tutti gli stili musicali, passando dal ‘serialismo’ schöenberghiano al ‘pastiche’ neoclassico, dal jazz al contrappunto tradizionale, come dimostra la sua prima opera Boulevard Solitude (1952). Un compositore eclettico, senza pregiudizi, amante della contaminazione dei linguaggi. Sorprendenti erano il suo immaginario musicale e quel virtuosismo tecnico che riuscivano a produrre intense emozioni. Henze credeva inoltre alla musica che testimonia valori umani. Non a caso le sue più fervide creazioni appaiono quelle dove la musica entra in simbiosi con il testo, per dire qualcosa di importante, per pronunciarsi in termini etici, morali. Vengono in mente opere quali El cimarrón (1969-1970) tratto dal diario di uno schiavo cubano o le “azioni per musica” We come to the River (“Andiamo al fiume”, 1976) ispirate alla guerra del Vietnam. O ancora le musiche per il film Il caso Katharina Blum (1975) di Margarithe von Trotta, atto d’accusa nei confronti di un certo giornalismo senza scrupoli e del clima di caccia alle streghe scatenatosi in Germania alla metà degli anni Settanta. Paola Isotta, sul Corriere della Sera, ha affermato che la morte di Henze rappresenta, per certi aspetti, la morte della Musica stessa. Senza dubbio è stato il compositore che ha significativamente contribuito a cambiare la musica del Novecento, a spalancarla su molteplici prospettive. E’ insomma scomparso un sommo artista e – così accade sempre in tali casi – si avverte ora una sensazione di impoverimento. Bene disse Marcel Proust: “Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”. Da ciò, quando un artista muore, la percezione di perdita e il ritorno del pensiero su quanto poco l’arte sia considerata un bene primario, indispensabile, salvifico. E’ infatti l’artista a fornirci la consapevolezza del bello e della meraviglia, l’espressione giusta per dire l’indicibile, per rivelare l’inespresso che è dentro noi. Nell’arte risiede la coscienza del mondo, la sua spiegazione, il modo di raccontarlo e di farne memoria. Basterebbe l’arte per riconciliare i conflitti, per spiegare le ragioni delle diversità, far comunicare uomini e linguaggi, fornire ‘argomenti’ indiscutibili sulla bontà del vivere in pace. Ecco perché la morte di un artista lascia un senso di orfananza, di lutto individuale e condiviso. Quasi venga a mancare, improvvisamente, l’interprete che per noi sa esprimere le emozioni, mettendoci in relazione con il sentimento universale che il tempo ha elaborato, arricchito, ma mai esplorato fino in fondo. Tanto vitale è tutto questo, che se venisse meno sarebbe come ridurre l’esistenza a mera vita artificiale. Sinfonia incompiuta che nessuno, a quel punto, potrebbe ascoltare, né tanto meno proseguire. Il silenzio del Nulla.