28/01/13

Sulla punta della lingua. Mi si è glocalizzato l’italiano

Allarme rientrato. Secondo i dati Istat più recenti non è vero che in Italia i dialetti siano in estinzione. Magari subiscono processi di italianizzazione, ma, a loro modo, perdurano – eccome – nella quotidianità delle famiglie e della vita sociale. E così vanno pure affrancandosi da quello status che li relegava a lingua ‘altra’ e di basso ceto. Poiché alternare dialetto a italiano è ormai un vezzo interclassista, ironico, cine-televisivo, persino scic; non di meno un esibito richiamo ad origini e affetti. Ecco, allora, il consolidarsi di una lingua italiana grosso modo ‘regionalizzata’, che di anno in anno, come testimoniano gli aggiornamenti dei dizionari, fornisce parole alla lingua ‘ufficiale’. Del resto – fanno notare gli studiosi – l’italiano altro non che un dialetto (il fiorentino) che si è potuto permettere di andare all’università grazie alle risorse del babbo (in tal caso i padri sono stati tre, e si chiamavano Dante, Petrarca, Boccaccio). In ragione di ciò, i toscani hanno potuto alimentare, nel tempo, una sorta di boria linguistica, ma non la gelosa ‘alterità’ racchiusa dentro un dialetto. Al punto da dover ripiegare – per guadagnarsi una lingua propria – in un vernacolo fatto di parole tronche, elisioni, insistiti pronomi, ghiotti bocconi di consonanti. Per cui, anche quando il popolo abbia inteso esprimersi con una ‘sua’ letteratura (stiamo parlando di poesia e canzone popolare) altro non ha potuto fare che ‘il verso’ a forme e linguaggi colti. Una contaminazione, però che ha visto anche l’inverso indirizzo, allorché alla cultura alta è piaciuto assai attingere ad espressioni e modi popolari. Basti pensare agli esuberi di lingua garfagnina nei Poemetti di Giovanni Pascoli o alla compiaciute raccolte di canti popolari toscani redatte da Niccolò Tommaseo, Giuseppe Tigri, Giovanni Giannini, che trascrivevano – magari con qualche abbellimento di troppo – quanto andavano ascoltando per bocca di popolo. A voler dimostrare come tra la gente tosca anche gli ignoranti non potessero essere ignoranti. Ma per tornare a considerazioni generali sulla letteratura dialettale, resta indiscutibile il fatto che poche grandi culture, al pari di quella italiana, hanno una lingua visceralmente legata ai dialetti. Tanto che risulta impossibile, in una storia della letteratura italiana, prescindere da autori quali Ruzante, Porta, Belli, Pascarella, Di Giacomo, Marin, Loi; i versi in friulano di Pasolini e quelli in trevigiano di Zanzotto. Fino alla lingua ‘inventata’ da Andrea Camilleri, frutto di una miscidazione, giocosa ma coltissima, tra italiano e siculo, che è, poi, il processo di contaminazione di cui parlavamo all’inizio e che caratterizza la sopravvivenza dei dialetti attraverso una glocalizzazione della lingua patria. Ecco, perché i dialetti, sono parte vitale della cultura letteraria italiana, inteso che – come scriveva Carlo Porta – le parole di una lingua sono “ hin ona tavolozza de color, / che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell / segond la maestria del pittor”.

21/01/13

Bravi, anzi bravissimi. Lasciate che i talenti vengano a noi

L’anno scorso ManpowerGroup promosse una campagna a sostegno del Talento. Come dire: cercasi disperatamente persone con una marcia in più. Perché, a fronte della persistente crisi economica, ci troviamo dentro una realtà bloccata, priva di ricambio, che avrebbe bisogno di riforme, ma, non meno, di soggetti talentuosi. Ovvero energie intellettuali e creative tali da imprimere accelerazione allo sviluppo della società. Nel manifesto di sostegno alla campagna si leggeva, tra l’altro, che, se non viene consentito al talento (al potere della sua diversità e al valore della sua condivisione) di esprimersi, non può generarsi l’efficienza del sistema-Paese e la sua crescita. Tutto questo trova sintesi nel termine ‘meritocrazia’; che di per sé è cosa buona e giusta, almeno fino a quando – se perseguita con fanatismo – non rimuova princìpi di eguaglianza e di democrazia. Dunque, ben venga il merito: per un’alternanza della classe dirigente, per una mobilità tra classi sociali, per ridefinire valori etici, politici, culturali. Dinanzi a questa esigenza, vediamo, però, che lo scoramento, l’impotenza, la rassegnazione delle nuove generazioni, ha reso loro come invisibili, afasiche, prive di manifeste ambizioni. Al di là dei casi singoli che sappiamo esistere (giovani fortemente motivati, con brillanti curricula, notevoli capacità), ciò che li mostra e rappresenta nelle proprie aspirazioni (purtroppo esiste solo quanto ha visibilità) sembrano essere solo i talent show. Intendiamoci, ambizioni più che legittime quelle legate a espressioni artistiche. Basti pensare che l’Università Cattolica ha addirittura istituito “La Fabbrica del Talento”, un progetto nato allo scopo di coniugare la formazione con l’arte, attraverso l’uso e l’integrazioni dei linguaggi espressivi. Del resto l’arte aiuta e stimola la creatività in tutti i settori della vita sociale. Il problema nasce, piuttosto, nel momento in cui il desiderio di realizzare se stessi, mettere a frutto i propri talenti, va a degenerare nella “sindrome del successo”, scorciatoia – quasi sempre cosparsa di crudeli frustrazioni – per raggiungere soldi e notorietà. Insomma, le ambizioni sono necessarie per noi stessi e per gli altri, sono ragione di senso delle nostre esistenze. Tuttavia ci sono anche quelle che per Alberto Moravia erano “sbagliate”. A voler riflettere sui meccanismi psicologici del successo a ogni costo, esiste una terna di romanzi davvero illuminanti. Oltre al libro moraviano appena citato, ricordiamo Il rosso e il nero di Stendhal e il meno noto La preda di Irene Nemirovsky. Proprio in quest’ultimo, il protagonista, gran predatore all’inseguimento del successo, si accorge a un certo punto di essere divenuto lui la preda. Giungerà così alla conclusione che “Il successo, quando è lontano, ha la bellezza del sogno, ma non appena si trasferisce su un piano di realtà appare sordido e meschino”. A questo proposito potrebbe soccorrerci anche l’etimologia del verbo ambire: andare attorno. Ma a fare che?