25/07/11
Ah, l'amore. Ditelo con una poesia
“Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona”. Cioè a dire che quando si è amati non si può che riamare. Tant’è che la drammatica vicenda di Paolo e Francesca mise in crisi anche Dante, la sua concezione stilnovistica del sentimento amoroso e ancor di più le sue certezze morali. Alla domanda di Virgilio (Che pense?) il Sommo ha difficoltà a rispondere, si trova inadeguato rispetto ai principi etici di riferimento. Dante non riesce a considerare peccato un amore tanto tragico quanto sublime. Colloca all’Inferno i due amanti più per convenzione dottrinale che per convinzione. Per il Poeta deve essere stato terribile dover ammettere come il sentimento da lui teorizzato nella Vita nova (“Amore e ‘l cor gentil sono una cosa”) potesse precipitare dall’elevazione spirituale alla morte.
Si inaugura così una riflessione letteraria sull’amore che troverà molteplici scritti per dirne grovigli e pene. Un Leopardi nemmeno ventenne e alle prese con Il primo amore capisce subito quale ‘battaglia’ debba affrontare un’anima innamorata (“oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!”) per proseguire affranto “Ahi come mal mi governasti, amore! / Perché seco dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore?”.
E saranno ancora certi libri a notificarci ciò che magari faticheremmo ad ammettere. Ovverosia che la passione amorosa per essere tale deve essere ‘impossibile’, come si premurò di dimostrarci la cultura romantica. Pensiamo all’Ortis di Foscolo dove la forza del sentimento prevale sul calcolo e sulla ragione. O alla sensibilità tardo-romantica del Verga in Una peccatrice e Storia d'una capinera, storie di amori passionali e travolgenti che portano alla disperazione o alla morte. Per non dire delle esasperazioni (in verità fin troppo ‘estetiche’) di D’Annunzio che si ricavano dalle pagine del Trionfo della morte (aridai!), Il piacere, Il fuoco.
A tranquillizzare quanti si ritrovassero a vivere un amore autentico e ‘normale’ sono fortunatamente intervenuti diversi poeti del Novecento. Tra costoro Attilio Bertolucci, che per sua moglie scrisse versi di grande nitore anche formale: “Coglierò per te / l'ultima rosa del giardino, / la rosa bianca che fiorisce / nelle prime nebbie”. / Le avide api l'hanno visitata / sino a ieri, / ma è ancora così dolce / che fa tremare. / E' un ritratto di te a trent'anni, / un po' smemorata, come tu sarai allora”. Ebbene, quel fiore (e quell’amore) può essere davvero alla portata di tutti.
18/07/11
Postmoderno. Un mondo di antieroi
Altri tempi quelli in cui si parlava di letteratura ‘specchio della società’, allorquando sistemi ideali e ideologici fornivano giustappunto interpretazioni letterarie come rispecchiamenti della realtà. Tanto che un romanzo poteva ‘spiegarci’ il presente che stavamo attraversando. O, viceversa, sembrava che i processi sociali in atto fossero delle perfette esemplificazioni di ciò che un autore – guarda caso – aveva pensato e scritto. Era insomma la drammatizzazione della società, giocata tra una sorta di poetica storica e di esegesi sociologica. Ma ovviamente i termini della questione erano più complessi e non sempre i mondi letterari erano il mondo. Finché giunse (certo, non improvvisamente) il postmodernismo che, come qualcuno ha ritenuto di dover precisare, più che un ‘dopo’ cronologico rappresenterebbe il superamento di un modo di porsi rispetto alla modernità: né ‘contro’ né ‘oltre’, piuttosto in maniera… diversa. Diciamo che può dirsi postmoderno quanto oggi risulta sempre più spesso indefinibile, comunque complicato, relativo, con/fuso, sincretico. E a suo modo anche la letteratura (quella che passa il convento) dà conto di questa postmodernità globalizzata e frammentata. Prevalentemente essa narra di antieroi che dalla loro marginalità (quasi sempre dalla loro sconfitta) indicano, rifiutano e implicitamente condannano la società attuale. Il fallimento individuale coincide così con quello collettivo. Intendiamoci, l’idea non è proprio nuova: basti andare a rileggere il Werther di Goethe o il foscoliano Jacopo Ortis per assistere allo scacco di esistenze mortificate dall’universo sociale in cui vivono e che rende loro impossibile qualsiasi tipo di azione o di impresa ‘eroica’. Antieroi, dunque, dentro un mondo che, alla maniera di un disperante ossimoro, si agita continuamente nella più assoluta immobilità. Tale risulta per lo meno il mondo occidentale da qualunque angolo sia guardato (e vissuto). Possono esserci forse differenze di percezione che variano tra una zona e l’altra del globo (zone non solo geografiche ma anche culturali ed esperienziali). Per mitigare il disagio potremmo pure dire che è sempre più comodo osservare (e perché no, irridere) l’universo dagli angoli della sua provincia che dal plumbeo anonimato delle sue città. Magari seduti a un bar della periferia del mondo, dove l’accidia può essere sorseggiata, con un amaro, fino alla soglia della completa inettitudine. O al racconto di essa, che in tal caso opererebbe come provvidenziale salvezza: letteraria?
11/07/11
Di gusto. Mangiarsi tutte le parole
Anche i libri hanno un sapore, e non solo quelli che trattano di cibo. Esistono d’altra parte i gusti letterari e pure in tal caso si può parlare di palati fini. Così come abbiamo persone avide di lettura, romanzi indigeribili e pagine gustosissime; e c’è chi, masticando piuttosto bene il francese, legge Baudelaire in lingua originale. Oppure, per nostro inconsolabile smacco, si possono avere figli che magari stanno molto sui libri ma non assimilano. Ecco, dunque, che le medesime parole vanno a definire il nutrimento del corpo e della mente, quasi a conferma della celebre battuta con cui diverte richiamare i tre perenni interrogativi dell’essere umano: da dove veniamo, dove andiamo, a che ora mangiamo. Figuriamoci poi se i libri presi in pasto discettano di filosofia, la quale, notoriamente, “ipse alimenta sibi”, cioè trae da se stessa il proprio nutrimento, tanto che in antico era raffigurata come un’orsa nell’atto di spolparsi le zampe.
Se volessimo continuare in questo gioco lessicale (ma non soltanto), va aggiunto che ingurgitare smodatamente libri non è nutrimento, ma solo una forma di ingordigia che poi la bocca restituisce in malo modo, ovvero in chiacchiere, le quali non sempre significano cultura. A tavola come in biblioteca esiste dunque un bon ton. La questione si pone per ragioni salutistiche, ma non di meno “estetiche”. Anche se su questo rapporto tra golosità, necessità, appetiti, senso della misura, la storia dell’umanità ha dovuto registrare alle sue origini un episodio assai inquietante, poiché mai ci fu pasto più frugale di quella maledetta mela che (forse questo fu il problema) sarebbe stata fin troppo gustosa (e nutritiva) poiché in grado di fare assaporare tutta intera “la conoscenza”. Del resto gli unici due umani del creato non sapevano di certo a cosa potesse condurre una errata alimentazione. Ma fu davvero un… peccato che tale morso venisse inibito dall’Onnipotente: la morale venne così confusa con la dietetica, creando da allora in poi sottigliezze come quelle che arrivò a formulare Tommaso d’Aquino, cioè a sceverare il legittimo “appetito naturale” dal peccaminoso “appetito sensitivo”. Ingegnosi e cavillosi distinguo che nell’epoca nostra dei relativismi (sorta di diete del pensiero e dell’etica) e di un mondo multiculturale (tale è anche la cucina), risultano incomprensibili. E nell’ambiguità di un linguaggio che dalla bocca fa transitare indifferentemente vivande e discorsi, qualcuno può sempre dire: scusa ma non ho capito…, ti stai mangiando tutte le parole.
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