28/10/13
Attracchi e naufragi. Se tutti siamo spaesati migranti
Ogni giorno le cronache del mondo ci chiedono una sintesi tra ragione, sentimenti, giudizio politico. Una tormentata operazione intellettuale (verrebbe da dire persino ‘spirituale’, se questo termine non si prestasse a equivoci) rispetto ad una realtà in continua trasformazione e troppo più avanti alle nostre capacità di adattamento e comprensione. Geografie, culture, persone si muovono su scala globale: si compenetrano, si ‘mescolano’, si incontrano e scontrano. E’ l’epoca del meticciato che mette in crisi identità etniche credute fino a ieri immutabili. E c’è, poi, il movimento veloce della comunicazione, della conoscenza in tempo reale di quanto ad altri e ovunque accada. Connessi sempre con l’universo mondo, ne percepiamo la simultaneità alla nostra esistenza. Il ‘qui’ (almeno virtualmente) è ormai il ‘dappertutto’, così che viviamo l’ambigua condizione (forse il privilegio) di essere cittadini ‘glocali’.
Folgorante era stata l’intuizione di Paul Valéry, che già nel 1928, sull’imminenza di uno sconquasso epocale, metteva in discussione certe nozioni di Europa, civiltà, storia, tecnica, politica, libertà, progresso. Nei suoi Regards sur le monde actuel (l’edizione italiana, “Sguardi sul mondo attuale”, a cura di Felice Cirto Papparo, è pubblicata nella Biblioteca Adelphi) lo scrittore francese avvertiva su come “i fenomeni politici della nostra epoca [quella di allora] sono accompagnati e resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti, o piuttosto da un mutamento nell’ordine delle cose”. A suo giudizio, infatti, “il mondo al quale cominciamo ad appartenere [si noti la finezza linguistica e concettuale di questo “cominciamo ad appartenere”] è soltanto una controfigura del mondo che ci era familiare”. Secondo Paul Valery (spesso i poeti sono profeti) “il sistema delle cause che governa il destino di ciascuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto: non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto”.
Mi sono tornati in mente questi pensieri del poeta francese nei recenti giorni della tragedia di Lampedusa, non potendo, peraltro, dimenticare che allo stesso autore appartengono i versi di Cimetière marin (“Le vent se lève … il faut tenter de vivre”). Eh già… “si alza il vento, dobbiamo cercare di vivere”.
Noi sappiamo che in quel mare Mediterraneo dove zattere di speranza trasportano esseri umani, fluttua pure un nuovo mondo a cui “cominciamo ad appartenere”. E in ragione del quale – ecco tornare quanto mai attuale la lezione gandhiana – ogni cultura non può bastarsi, ha bisogno di incontrarne altre. Ne va della loro vitalità, che necessita, nel tempo, il confronto con quanto sia altro-da-sé. Poiché non esistono culture che non abbiano limiti, zavorre di pregiudizi, carenze e omissioni di verità; ciò che Maurice Merleau-Ponty chiamava “regioni selvagge”. Regioni sulle cui coste, oggi, sciaborda un mare di attracchi e naufragi che ci fa tutti, proprio tutti, clandestini. Spaesati migranti.
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