31/10/11
Senza futuro? Ma che storia è questa
Forse per un senso di colpa (se non altro generazionale), quando guardo i giovani studenti che gridano con brufolosa velleità “salviamo la scuola non le banche” e, di contro, la smorfia di sufficienza di certi incanutiti signori, viene spontaneo parteggiare per i primi. Perché, pur nella ingenua semplificazione di quello slogan, hanno ragione i ragazzi ad urlare quanto gli analisti, da tempo, gorgogliano nel loro dire pacato: che, cioè, alcuni fenomeni degenerativi dell’economia e della finanza hanno portato ad una crisi di sistema. Al punto che ora – quasi fosse giaculatoria di penitenti – in molti si appellano alla parola ‘etica’; mentre nel sottofondo non accenna comunque a spegnersi la risatina degli incanutiti di cui sopra, a ricordare come ‘economia etica’ sia una contraddizione di termini e che – Adam Smith docet – “il nostro pranzo non è dovuto alla generosità del macellaio e del fornaio, ma alla valutazione che essi fanno dei loro interessi”. A questi irriducibili ‘realisti’ c’è chi ancora replica facendo notare che, invece, sarà proprio l’etica il vero business dell’economia. In quanto le logiche di mercato non possono più prescindere da criteri morali, anzi valoriali.
Intanto là fuori sfilano le nuove generazioni, indignate (e pure qualcosa di più) a reclamare un domani che offra certezze partendo dalla scuola e dal sacrosanto diritto al ‘sapere’. Non può esserci, infatti, futuro senza una cultura, che è poi ciò che fornisce una visione del mondo, consapevolezza della storia e dei suoi processi, ‘coscienza del tempo’ e quindi una progettualità. Negare ai ragazzi formazione culturale è condannarli a vita alla prigionia di un presente che non diverrà mai storia, costretto com’è dentro la ‘contigenza’ (non solo economica, ma anche ideale). E’ come rinchiuderli nell’acquario della ‘modernità liquida’ (per dirla con Zygmunt Bauman) in cui tutto ha vita breve e dove risulta addirittura autolesionistico legarsi a qualcosa che intenda proiettarsi nella lunga durata. Non è insomma giusto che il pragmatismo di Downing Street assurga a stile di vita, deprivi di progetti e di sogni chi ha il diritto ad averne. Sognare non è un lusso, ma un genere di prima necessità. Quello di cui godemmo noi, padri dei ragazzi di oggi, e che alla domanda su cosa volessimo fare da grandi potemmo rispondere per bocca de Il giovane Holden: “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale”. Da ciò le ragioni odierne di un terribile senso di colpa.
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