10/04/12
Morti di camorra. Vittime sacrificali dei giorni nostri
E’ pasqua. Per i cristiani il felice epilogo di un ‘paradosso’ (Dio condannato e messo a morte da uomini, poi risorto) su cui ha trovato fondamento una fede millenaria. Festa anche tragica, dunque, poiché nel suo antefatto c’è una vittima sacrificale, l’«agnus Dei qui tollis peccata mundi» che conobbe la solitudine in cui tutte le vittime si trovano, quando diviene incommensurabile lo spazio frapposto tra la nera notte dell’abbandono e il rosso del sangue.
E sappiamo quante pasque (davvero difficile distinguere se religiose o laiche) continuino a consumarsi nel mondo. Ogni dove l’affermazione di un’idea, di una fede, di un diritto negato, di un principio di giustizia, libertà, bene comune venga assurdamente a coagularsi con sangue di vittime.
Nel nostro Paese l’esempio più eclatante e drammatico continua ad essere quello dei martiri per mafia e camorra. Una malattia degenerativa di certe realtà, una saga del male che va raccontata non certo per alimentarne un distorto mito, ma per educare le coscienze di quanti – magari complici inconsapevoli – ritengono sia ‘normalità’ quella crudele anomalia.
Da questo punto di vista è stato provvidenziale (una svolta, in termini mediatici) anche Gomorra (Mondadori, 2006), il best-seller di Roberto Saviano. Prima volta in cui un racconto di camorra diviene un caso letterario, un film di successo, occasione di dibattiti, di approfondimenti e chiacchiericci televisivi. Peraltro, sempre sul tema, c’erano già state testimonianze letterarie di gran pregio. Ricordiamo Sandokan di Nanni Balestrini (Einaudi, 2004) incentrato sulla figura del capo dei Casalesi, Francesco Schiavone (Sandokan per la sua somiglianza con l’attore indiano Kabir Bedi). In una riedizione del romanzo (DeriveApprodi, 2009) proprio Saviano, nella prefazione, ha parlato di quanto quelle pagine, a suo tempo, fossero state espressione di «una letteratura in grado di aprire come grimaldello le grate della storia» di un determinato territorio, testimoniando che «raccontare finalmente era possibile; e sembrava soprattutto necessario per tentare una qualche forma di resistenza». Mentre forse troppo presto, rispetto ad una diffusa sensibilità e cultura anticamorristica, era arrivato Il camorrista di Giuseppe Marrazzo (Pironti Editore, 1984) da cui Giuseppe Tornatore, due anni dopo, avrebbe tratto l’omonimo film. Nel libro di Marrazzo il criminale al centro della vicenda è o’Prufessòre, cioè Raffaele Cutolo (il Don Raffaè della canzone deandreiana) e la cosiddetta Nco (Nuova Camorra Organizzata).
Proprio per mano armata di quella nuova camorra, fu assassinato pure Peppino Diana, un prete schierato contro il clan dei Casalesi, che, in forza della vocazione che gli era propria, andava dicendo: «per amore del mio popolo non tacerò». Venne ammazzato nella sacrestia della sua chiesa, la mattina presto del 19 marzo 1994. Stava indossando i paramenti per celebrare messa. Il dramma della pasqua giunse per lui con due settimane d’anticipo. A Casal di Principe c’è ancora chi spera in una risurrezione, per lo meno delle idee che lo videro martire.
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