11/02/13

Onda su onda. Il medium che educa alla lontananza

Tra gli strumenti che hanno contribuito alla mia educazione sentimentale devo senz’altro ascrivere la radio. E’ stato il mezzo che mi ha formato al senso della ‘lontananza’. Cioè alla percezione di quello spazio della mente, dell’immaginazione, dell’intimo sentire, che rende prossime le cose remote, colmandone la distanza con pensieri, fantasie, emozioni. Mi rivedo ragazzino girare la manopola delle sintonie, finché, come da una gorgoglio di mari, da una Babele di sintagmi e di gente, sarebbero emersi chiaramente suoni, voci, racconti. Anche la notizia più rassicurante acquistava pathos, allertava il cuore. Fu in queste fascinose escursioni che ascoltai per la prima volta l’allegretto della Pastorale eseguita dai filarmonici di Berlino: la banalità di un arpeggio trasformarsi in sublime invenzione. Di quello stesso genio, “diventato sordo e scontroso” – mi aveva raccontato la mamma – era anche la sigla con cui, in tempo di guerra, si aprivano le trasmissioni di Radio Londra, ascoltata clandestinamente nella penombra dei coprifuoco e delle tende tirate. Notiziari la cui voce aveva la ferma pacatezza della speranza, contrapposta all’enfasi della propaganda fascista. I bollettini del mitico colonnello Harold Stevens venivano giustappunto annunciati (tam-tam-tam-tam) con l’inizio della Quinta di Beethoven. Perché quelle prime note così scandite, se decodificate con l’alfabeto Morse, trascrivevano la “V” di “Victory”. Per me che, fortunatamente, la guerra l’avrei vista, dopo, soltanto al cinema, ancora più avvincente fu sapere dei messaggi criptati che per mezzo di Radio Londra gli alleati trasmettevano alle unità della resistenza italiana. Non nego che tali suggestioni – l’idea di clandestinità, la trasgressione, l’andare-contro per una causa giusta – mi sarebbero tornate in mente negli anni Sessanta-Settanta con il proliferare di quelle che furono chiamate “radio pirata”, poi divenute “radio libere”, ora “private”. Era il tempo in cui Eugenio Finardi cantava: “Amo la radio perché arriva dalla gente / entra nelle case e ci parla direttamente / se una radio è libera, ma libera veramente / piace ancor di più perché libera la mente”. Erano gli anni in cui un ragazzo siciliano, Peppino Impastato, attraverso gli artigianali microfoni di Radio Aut, intendeva combattere la mafia. Perciò fu assassinato. Qualche decennio fa si disse anche che la radiofonia sarebbe stata fagocitata da televisione, web e da come questi due strumenti andassero interagendo. Ma la radio ha resistito ricollocandosi nel contesto massmediale, ed oggi vanta grandi ascolti. Probabilmente in virtù di quanto ebbe a evidenziare un signore che di queste cose se ne intendeva, Marshall McLuhan, il quale sosteneva che: “La radio … è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare corde remote e dimenticate”. Ma non solo. A differenza della televisione, che illuminando il reale allo stesso tempo ce lo sottrae, la radio restituisce la lontananza necessaria alla nostra immaginazione, la notte che fa ingrandire i pensieri.

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