16/11/09
Tra “gelo” e “siccità”. In scarne parole il dramma della vita
Stile e poetica di Romano Bilenchi hanno a più riprese impegnato la critica, poiché non è stato facile inquadrare quel percorso letterario che, fin dalle prime prove, esprime una narrativa prevalentemente introspettiva, dalla scrittura “semplice” e prosciugata. Una delle definizioni più efficaci si deve a Luigi Baldacci, quando identificò la chiave compositiva di Bilenchi in una “fiaba triste immersa in un quadro lontano di memoria e di mito” e dove è “protagonista assoluta la vita con le sue epifanie, intermittenze, attimi sospesi, stati di grazia”. La vita, appunto, con il prevalere delle cose prima ancora delle parole. E proprio per questo le parole saranno essenziali e controllate, sottoposte a una continua e assillante operazione di pulizia. Da ciò è deducibile anche l’eccentricità di Bilenchi rispetto a certa letteratura del Novecento dove, invece, si assisté a una incontrollata proliferazione linguistica.
Di nuda realtà parla Bilenchi, di drammatiche verità per le quali – annota Massimo Raffaeli – la pagina spoglia non è un vezzo formale, ma costituisce “una divisa morale e civile”. E’ dunque attraverso un dire votato alla povertà espressiva (ma quale lavorio lascia intendere un sì fatto sforzo di “privazioni”!) che si racconta il tormento esistenziale dell’uomo già tutto contenuto e anticipato nell’età adolescenziale. Si legga al proposito il trittico che va sotto il titolo de Gli anni impossibili per apprendere la lezione bilenchiana secondo cui siccità e gelo denudano le piante fino alla corteccia rendendole però più forti ai rigori delle stagioni. Così è per l’uomo, allorché la verde esuberanza degli anni giovanili scolora e rattrappisce nella crudezza della vita adulta. Scena del dramma è spesso la campagna senese e toscana con le sue ruvidezze e docili pieghe, come in Conservatorio di Santa Teresa, laddove il paesaggio va quasi a segnare per il piccolo e introverso protagonista una linea di confine tra costrizione e libertà: “Nei pomeriggi di bel tempo, quando prati e alberi soggiacevano all’immobilità dell’aria e occorreva sforzarsi a raccogliere da una direzione qualsiasi della campagna o dell’orizzonte uno stimolo per fantasticare perché la mente non si assopisse nella calma immensa, gli unici soccorsi venivano dalle crete”. Alla fine, però, la fantasia rimarrà delusa e disincantata. E’ questo il travaglio psicologico narrato insistentemente da Bilenchi: lo scontro dell’io con la realtà. E di tale perenne ostilità fa testo, ma senza isterismi di sorta, quella scrittura così nitida e intensa.
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