04/03/13
L’inverno della Repubblica. Ecco il populismo senza il popolo
La Seconda Repubblica è stata tumulata sotto il gelo dell’inverno, inconsueta stagione per celebrare riti elettorali. Come accade in simili circostanze, il commiato ha risuonato di luoghi comuni. E’ il modo con cui i sopravvissuti si danno conferma di essere tali. Parole, appunto: a tentare di definire ciò che per molti risulta ancora incomprensibile. Del resto, nella storia, capita sempre così. La consapevolezza dei cambiamenti avviene quando essi sono, da tempo, reali e se ne stanno già preparando altri. Figuriamoci, poi, quando a prendere coscienza delle trasformazioni dovrebbe essere una politica totalmente incarognita nell’autoreferenzialità e, quindi, alienata rispetto a quanto succede nella vita vera delle persone.
Pertanto abbiamo appreso che gli sconfitti delle recenti elezioni risultano quanti non hanno saputo parlare “alla pancia della gente”, perché è quello il ricettacolo (antropologia e fisiologia divengono interdisciplinari) in cui convivono viscere, risentimenti, egoismi. Si sappia, dunque, che la maggioranza degli italiani soffre di irritazione al colon. Patologia che qualcuno aveva preteso di curare con tristi diete (il professor Monti era un luminare in materia). Ma quanti soffrono di siffatti disturbi hanno imparato a conviverci, salvo, periodicamente, consultare il medico-clown di fiducia.
Ecco, allora, che a voler continuare questo gioco che procede per contiguità di luoghi comuni, giungiamo alla parola più adoperata negli ultimi giorni: “populismo”. Qui le discipline chiamate in causa sarebbero, per ovvie ragioni, quelle delle scienze politiche e letterarie. Sono esse, infatti, che fino adesso ci hanno spiegato tale fenomeno storico, che nasce da una idealizzazione del popolo, portatore di valori positivi e integri, in contrapposizione alla classe egemone che, invece, si distingue per negatività e corruzione. E’ il popolo che assurge a ‘modello’ di giustizia universale, come avvenne in Russia tra il 1850 e il 1880 (là nacque il “populismo”). Persino Mussolini, in uno dei suoi farneticanti discorsi, disse che era giunto il momento di “andare verso il popolo”. E vale la pena ricordare quanto, in Italia, un’idea mitizzata e romantica di popolo avesse infervorato prima il Risorgimento, dopo la Resistenza e i primi anni della ripristinata democrazia. Il populismo, quindi, è stato declinato in vario modo: reazionario, nazionalista, borghese, liberale, progressista. Sarebbe interessante andare a rileggersi i romanzi di Elio Vittorini, laddove è il popolo che maggiormente soffre nel mondo e che quindi va liberato. E, ancora, Pavese, Moravia, Pasolini. Proprio Pavese, nel saggio Il comunismo e gli intellettuali, asseriva che “Verso il popolo ci vanno i fascisti. O i signori. […] Non si va ‘verso il popolo’. Si è popolo”.
Piacerebbe porre quelle pagine (indubbiamente anacronistiche) in sinossi con il nostro tempo post-ideologico. Riaprirle sugli scenari squinternati dell’oggi dove un populismo senza popolo cresce tra disperazione e l’ultima chiamata per la speranza.
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