18/03/13
Una storia di dolore. La tragedia mineraria di Ribolla
Tra gli appunti destinati a un libro sulla Maremma ho ritrovato la trascrizione del racconto di uno dei fatti più drammatici accaduti lo scorso secolo in quella terra. La tragedia della miniera di Ribolla, avvenuta il 4 maggio 1954. Ne ascoltai la testimonianza, alcuni decenni fa, da un anziano – Sestilio era il suo nome – originario del paesino maremmano, ma da tempo trasferitosi a Follonica. Tutte le sere, al tramonto, faceva una passeggiata sulla spiaggia. Era il suo modo per ritrovare i pensieri, per “mentovare” i morti, a cui, fin dall’epoca degli etruschi, piaceva che lo sciabordio del mar Tirreno potesse ninnare il loro sonno. Nei ricordi abbrunati di Sestilio vivevano anche “i morti di Ribolla”, quando un’esplosione di grisù nella miniera di lignite provocò la morte di 43 persone, quasi l’intera “gita della mattina”. Una tragedia “che nemmeno la guerra c’aveva riservato … ma tanto si sapeva che prima o poi sarebbe successa”. Niente misure di sicurezza, gallerie male ventilate, fiamme che si accendevano per autocombustione. Così “accadette” il peggio. Erano le 8,40 di una giornata primaverile. L’aria, che tratteneva ancora i suoni festosi del 1 maggio, si gonfiò improvvisamente di un boato. Per un momento, nelle case, i gesti della quotidianità parvero anchilosarsi, gli oggetti posati nel tremore del presentimento. Poi un gran correre verso la miniera, e subito le voci raggiunsero il registro alto della disperazione. Impossibili i primi soccorsi, mancavano le maschere antigas, i cunicoli erano inagibili. Solo verso le cinque del pomeriggio furono portati in superficie i primi morti. Corpi anch’essi fatti carbone. Sembianze devastate, irriconoscibili. A Ribolla c’era un “cinemino”, alla sua costruzione avevano contribuito gli stessi minatori devolvendo la paga di una giornata di lavoro. Quella specie di ‘Nuovo Cinema Paradiso’ abbassò le luci per trasformarsi in camera ardente. Là dentro anche una giovane donna, incinta al terzo mese, piangeva la perdita del suo sposo. Si torceva le mani sul ventre, annientata dal fatto che fosse toccato proprio a lei dover incarnare la lacerante contraddizione che spesso assimila vita e morte. Il giorno dei funerali, a presidiare il dolore (o, piuttosto, una temuta sommossa) giunsero centinaia di celerini. Alle esequie parteciparono personaggi quali Pajetta e Di Vittorio. Ma soprattutto migliaia di persone giunte da ogni parte. “Lo strascichio dei piedi della gente faceva paura, sembrava la marcia d’una rivoluzione”. Prevalse, però, la pena che rende stracchi il cuore, le gambe, la rabbia. Persino le preghiere risultarono inappropriate alla circostanza (le forze degli inferi avevano prevalso sulla celeste misericordia).
Nel riorganizzare, oggi, il racconto fattomi da Sestilio, rivedo il suo profilo scolpito contro il tramonto, come un vecchio aedo che mandi a memoria storie di un’epica dolorosa. Lo rivedo col bastone tracciare segni sulla battigia, forse un’epigrafe, perché – mi disse – “morire di lavoro non è cosa…, se lo figura uno che per campare deve morire?”.
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