31/12/13
Racconti bonsai. Falso capodanno a Norbella Marittima
A Norbella Marittima il mare non c’era, ma lassù dalle colline, nei giorni d’aria limpida, lo si vedeva luccicare fin dentro l’ultimo cielo. E di guardare lontano tutti avevano bisogno in quel paese in cui la sala da ballo si chiamava Piccolo Mondo e che della sua Rocca teneva così vanto, da avervi rinchiuso, insieme alle memorie, pure il tempo presente.
A Norbella viveva la famiglia Pavanti, proprietari, da generazioni, della storica orologeria che sulla piazza affacciava la porta in noce con maniglione d’ottone tirato a lucido. Dietro il banco la signora Bianca, nata Marcelli, apprezzata per i modi cortesi e i generosi décolleté. Nel retrobottega il signor Tarcisio, figura elegante, vestito di impeccabili gessati, catena d’oro e orologio da tasca appartenuto al nonno. Sempre chino sul tavolinetto da lavoro, con il monocolo a scrutare le minuscole meccaniche segnatempo, il signor Tarcisio pareva partecipe di un grande mistero: quello del tempo, giustappunto.
Tanto erano connaturali i coniugi Pavanti al paesaggio umano del paese, quanto insignificante risultava la presenza del loro figlio Ludovico. Un ragazzo reso invisibile dalla sua timidezza, bravissimo nello studio, però – badava a dire la gente con rattenuta sentenza – troppo, troppo strano. Si era laureato a pieni voti in Filosofia con una tesi sull’idea di tempo in Henri Bergson. Colui che aveva scritto: “Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi”. Quasi una colta dissociazione, quella di Ludovico, dall’attività di famiglia, impegnata da oltre un secolo a fornire orologi, illusori strumenti di calcolo del tempo che – Bergson docet – non è affatto misurabile, poiché disomogenea è la sua durata interiore. Il tempo della scienza non è lo stesso della coscienza.
Di questa verità il giovane Pavanti si era convinto già da bambino, allorché, per ore e ore solo in casa, aveva notato come certe giornate fossero interminabili, altre precipitosamente consegnate alla notte. Ma soprattutto da quella prima volta che con il naso schiacciato alla finestra di camera, si mise a fissare l’orologio della torre civica mormorando: fermati, fermati, ho detto fermati. E si accorse che le brunite lance restarono davvero immobili fino a suo nuovo comando.
Ormai da vent’anni e ogni giorno, soprattutto nei momenti di inspiegabile contentezza, Ludovico praticava tale gioco in modalità e tempi variabili. Il prodigio non si limitava, peraltro, all’orologio della piazza. Perché quando lui voleva, una specie di bolla magnetica avvolgeva l’intero paese e tutti gli orologi si fermavano. Così che il tempo di Norbella era, a insaputa degli abitanti, molto indietro rispetto al resto del mondo. Le incongruenze tra calendario, meteorologia, cadenza delle stagioni si pensavano dovute alle indubbie peculiarità del luogo.
Ad accorgersi che qualcosa non andava fu il maestro Germani, lui sì uomo di mondo (aveva insegnato a Pordenone, Vibo Valentia, Sulmona) che la sera di capodanno del 1955 ricevette una chiamata al posto telefonico pubblico da parte di un ex collega abruzzese, intenzionato a venirlo a trovare “per le imminenti vacanze di pasqua”. Fu chiaro, allora, che mentre in tutta Italia fervevano i preparativi per le processioni del Gesù-morto, a Norbella sballavano i fuochi d’artificio e ammaiavano la sala del Piccolo Mondo per la festa di fine d’anno.
Boh… – andava rimuginando Germani mentre risaliva verso casa – e se mai fosse, di quale pasqua stiamo parlando? Dell’anno che a Norbella sta per finire o di quello venturo? Ma per l’amor di Dio, lasciamo perdere. Qua si vive bene così. Non solleviamo questioni che potrebbero rompere il sonnacchioso equilibrio di una comunità dove le dosi giuste (e a lento rilascio) di schiettezza, ipocrisia, bontà e perfidia fanno di questo posto l’accorta profilassi del mal di vivere. E poi – sobbalzò il maestro allungando il passo e volgendo i pensieri al suo privato – non scherziamo: è con il nuovo anno che la vedova Arrighi, in ragione di un luttuoso (scellerato) fioretto, avrebbe sciolto il suo voto di seconda verginità. Dunque, e a maggior ragione, meglio evitare problemi di calendarizzazione rispetto ai quali la fregola non avrebbe saputo darsi ulteriori proroghe. Sicuro delle proprie argomentazioni rincasò e cominciò anche lui a prepararsi per il veglione di fine d’anno.
Quando il maestro Germani varcò la soglia del Piccolo Mondo la prima sensazione fu di una struggente compassione. Tutti sembravano felici o si impegnavano goffamente ad esserlo. L’orchestrina ci dava dentro. Si ballava, rideva, pomiciava. Si dicevano le scemenze di circostanza. Sorrideva persino Ludovico, il vero organizzatore del bislacco e diacronico capodanno. A lui era dovuta quella felicità quasi perfetta. Era lui il baro che sottraeva il tempo ai ricchi per darlo ai poveri.
Qualche minuto prima della mezzanotte venne chiesto silenzio, così da poter sentire il primo battito dell’orologio di piazza, da sempre massima autorità a decretare che ora realmente fosse sotto il cielo di Norbella. Giunsero i rintocchi e saltarono i tappi dello spumante. Auguri auguri, braccia intrecciate nei brindisi, trattenuta commozione (chi non ha in cuor suo rimpianti?) allorché il valzer delle candele ci mise del suo.
La festa proseguì sino a sfilacciarsi in sonno e noia. Sulla pista da ballo resistevano pochi ostinati. All’uscita la famiglia Pavanti incontrò il maestro Germani e percorsero un tratto di strada insieme. Giunti in piazza, nuovo scambio di auguri. “Che ora fai?” chiese il maestro a Ludovico. L’orologio della torre batté le 3. Com’era esatto il tempo a Norbella Marittima!
23/12/13
Al giorno d’oggi. No middle class no festa
Altri tempi quando il Natale era la gran festa del ceto medio. Con le tredicesime immolate sull’altare dei consumi, l’intima soddisfazione di potersi comportare da simil-ricchi (ignorando il fatto che i ricchi – in tal caso come i poveri – non sopportano le feste). Gli ingressi dei palazzi condominiali che profumavano (?) di capitone e gobbi in umido. Le villette a schiera che nelle notti dicembrine si accendevano e spegnevano, quasi a far marameo al mutuo-casa, quello sì, sempre acceso. E il presepe che andava fatto a prescindere. Se non altro per ricordare a se stessi che il Nazareno era un po’ uno di noi. Di condizioni modeste (babbo artigiano, mamma casalinga) aveva studiato, fatto carriera, dimostrato di essere un buon investitore (basti pensare alla moltiplicazione dei pani e dei pesci). Un tipo tosto il self-made man nato avventurosamente a Betlemme. Intelligente, attivissimo, bello-da-dio. Insomma, se lui ce l’aveva fatta, potevamo farcela pure noi.
Altri tempi davvero. E ora che la classe media si è trovata a propria insaputa dissolta (perché dissolte sono le motivazioni economiche, politiche e sociali che le avevano dato ragion d’essere), sembra non avere più senso nemmeno il Natale. Svuotato il presepe dei piccoli borghesi, infoltito quello dei poveri (che però non hanno i mezzi per allestirlo), riposto quello dei ricchi (probabilmente in una banca svizzera). Su qualche portone continuano a lampeggiare tristi stelle comete, pur sapendo che i re magi marciano, ma in altre direzioni.
Eh già: no middle class, no festa. Però la cosa è seria. Lo dice anche la televisione. Sere fa in uno degli ennesimi servizi giornalistici sulla crisi, si intervistavano gli abitanti di un condominio del ricco Nord. Dodici appartamenti, dodici famiglie. Nessuno di quei nuclei famigliari che fosse rimasto immune da licenziamenti, cassa integrazione, onerose mobilità. Si intravedevano gli interni di belle case, infissi di buona qualità che, ormai, non riescono a parare gli spifferi della depressione economica e psichica. Veniva in mente un romanzo di Piero Jahier (primi del Novecento) intitolato La famiglia povera, dove una madre rimasta sola con i figli lotta quotidianamente per mantenere il decoro borghese di un tempo. Ma la povertà ferisce socialmente, incrina gli affetti, vanifica i credi.
Oggi gli ottimisti insistono a dire auguri. I realisti – quelli che pensavano alle feste come alla certificazione di un conquistato status – sostengono che anche il Natale era sovrastimato. E nelle case, nei centri commerciali si trasmette una cover che canta, anzi sospira, “quanta questa povertà”.
20/12/13
Racconti bonsai. La brutta notte di Babbo Natale
Sera del 24 dicembre. La mezzanotte era abbondantemente passata. Dentro le case il sonno aveva ormai giustiziato la frenesia dei bambini, riversi su divani e tappeti come in una strage degli innocenti allestita all’Ikea. Gli adulti stavano prosciugando l’aria di festa a suon di sbadigli. Resisteva tuttavia un’inquietudine, prima taciuta, poi sempre più manifesta, perché giunti a quell’ora nessuno e da alcuna parte aveva visto Babbo Natale. Scrutato dalle terrazze, chiesto ai metronotte, compulsato il web che, figuriamoci, rende noti i fatti prima ancora che accadano. Nulla.
Cominciava a diffondersi nervosismo, ansia, delusione, rabbia. Insomma, tutti quei sentimenti che disturbano l’egoismo umano ogni qualvolta circostanze esterne gli sciupino la festa. Persino le luci degli addobbi rimandavano ombre torve. Aghi d’abete cadevano precoci, quasi a prefigurare la mestizia che con l’epifania tutte le feste porta via.
Ad accorgersi per prima che certi balenii erano altra cosa dalle luminarie natalizie fu la donnina abitante al pianoterra del civico 147 di via Dalmazia, che appostata dietro la persiana del tinello non aspettava Babbo Natale, ma che, come ogni notte, voleva vedere la vicina scendere dalla macchina del ganzo. Le volanti della Polizia correvano verso Nord a sirene spente. E di lì a poco la notizia guizzò altrettanto veloce. Sulla provinciale della Quercia alcuni malviventi, con un furgone messo di traverso, avevano bloccato e rapinato Babbo Natale. Tristissima la scena che si presentò alle forze dell’ordine. La slitta vuota e rovesciata sulla neve, le renne strette l’una all’altra in uno scampanellio disordinato e lugubre. Del vecchio, però, nessuna traccia. Ucciso e nascosto il corpo nel bosco circostante? Sequestrato? Bella gatta da pelare per il Procuratore che già aveva prenotato il Capodanno in montagna. “Confido in lei e nella sua pervicacia” disse rivolgendosi al commissario di polizia. Il quale non mancò per lo meno di buon senso, organizzando subito un sopralluogo a casa della vittima. La luce di cucina era accesa. Babbo Natale, completamente fatto di sambuca, ronfava sulla poltrona con il televisore a tutto volume. Sopra il tavolo una lettera scritta di suo pugno e indirizzata a sé medesimo. Da Babbo Natale a Babbo Natale. Una lettera che svelava come la rapina fosse stata una ingenua messinscena da lui architettata non trovando il coraggio di ammettere la propria impossibilità a soddisfare le tante richieste che gli si facevano. Costretto a dare le dimissioni da se stesso e da una favola, supplicava perdono. Mai avrebbe pensato che non dover credere più a Babbo Natale comportasse un dolore così disperante.
09/12/13
Racconti bonsai. Storia di guerra e d’amore
Lei si chiamava Elisabeth Barrett, come la poetessa di cui aveva quasi ricalcato la vita. Anch’ella finita a Firenze per amore, sposando, però, un italiano che era stato giovane, ricco, e – in tal caso per tutta la vita – intelligente e ironico. Il conte Lorenzo Niccolucci Del Rio, che con quel titolo nobiliare ormai stinto dai dissesti finanziari di famiglia, quando si ruppe una spalla cadendo da cavallo, ai medici che premurosi gli chiedevano “conte, cos’è successo?”, aveva risposto: “conte … decaduto”. Fu un non-fascista della prima ora e un convinto antifascista della seconda. Pianse lacrime di sdegno e rabbia per il suo amico David Orefice, insigne biologo, che a causa delle leggi razziali dovette fuggire in America.
Una bella coppia, si diceva di loro due. A Elisabeth piaceva passeggiare, spesso fino al Cimitero degli Inglesi per portare un fiore sulla tomba della sua omonima e della quale mandava a memoria i versi. Un gesto romantico che si interruppe solo con l’estate del 1940, allorché con il putiferio della guerra, lei e il marito videro bene di lasciare Firenze per trasferirsi nella casa di campagna. Da lì a qualche mese la sorella Fanny sarebbe morta nel devastante bombardamento di Coventry. Il fratello Henry entrerà a far parte del gruppo di crittografi che a Bletchley decodificavano i messaggi di Enigma.
La vita di campagna aveva cadenze larghe, piacevolmente monotone, se non fosse stato per le notizie che si ascoltavano alla radio e che i due commentavano, l’una con l’orgoglio di avere il proprio paese dalla parte giusta, l’altro avvilito per un Italia succube a i’bbischero (così Lorenzo chiamò sempre Mussolini).
Tre anni erano incredibilmente passati dentro un tempo sospeso, estraniante, che dava ai fatti del mondo distanza, assurdità, talvolta compassione. Finché la sera dell’8 settembre 1943, anche in quelle stanze risuonò la voce di Badoglio annunciante la capitolazione. Lorenzo scese in cantina a prendere un vino d’annata. Cenarono con redivivo brio e con la fregola di due ragazzi che non vedevano l’ora di finire a letto. Nella arrendevolezza del dopo amore, Lorenzo sfiorò una guancia di Elisabeth sibilandole in un orecchio: “Dio stramaledica le inglesi”. “Conte – replicò Elisabeth – si dia un contegno e non si faccia trovare in queste condizioni dalle truppe alleate”. Di buon mattino un raffazzonato mazzo di fiori di campo fu posto sulla toletta di my lady. Era accompagnato da alcuni versi di Elisabeth Barrett Browning: “Quando forti e diritte le nostre anime si stringono in silenzio … quale amaro torto può farci la terra per impedirci d’essere a lungo felici?”.
02/12/13
Burattini noi. Quella favola della metamorfosi
La cosa è nota. Quando al Collodi fu chiesto il perché di quel finale così moraleggiante di Pinocchio (“… e come ora sono contento di essere diventato un ragazzino per bene!”) egli disse che, sinceramente, non ricordava d’aver chiuso così il suo racconto. Pare, infatti, che il sentenzioso e apocrifo epilogo sia stato opera di Guido Biagi, anch’esso collaboratore del “Giornale per i bambini”, sulle cui pagine era uscita a puntate la Storia di un burattino. Perché la fantasiosa – per certi aspetti trasgressiva – favola non “poteva” terminare diversamente, in considerazione del fatto che a pubblicarla in volume era stata la Libreria Editrice Felice Paggi, “editore di libri tutti con la morale”.
Dunque, Pinocchio apologo del bene e del male? Ma non solo. A 130 anni esatti dalla sua prima stampa sappiamo quante variegate esegesi siano state fatte del libro che, insieme a Bibbia e Corano, vanta il più alto numero di traduzioni nel mondo. Opera comunque complessa, che offre una pluralità di codici interpretativi, poiché, come ebbe a scrivere Benedetto Croce, “il legno, in cui è intagliato Pinocchio, è l’umanità, ed egli si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato; fantoccio: ma tutto spirituale”.
Oggi l’interpretazione del capolavoro collodiano che più sembrerebbe rappresentare il nostro tempo – tempo della fluidità, del transitorio, della instabilità – potrebbe essere quella che vede in Pinocchio l’emblema della metamorfosi. Legname inerte, burattino, cane da guardia, ciuco, cibo per pescecani, bestia da soma, infine bambino. Insomma, un personaggio mutevole, provvisorio, interinale. Anche le sue figure di riferimento (Geppetto, la Fata, il Grillo) sono presenze alterne, appaiono e scompaiono.
Quel ceppo d’albero – che tale non è più – ha (avrebbe) un’anima. Una coscienza inespressa, in divenire. Un’identità che si costruisce di fuga in fuga, ad ogni trasformazione somatica, ma soprattutto a ogni consapevolezza di sé. Lui è continuamente ‘altro’ da ciò che era. Quante peripezie, paradossi, drammi, spensieratezze per raggiungere un’identità! Per arrivare ad essere un umano a tutti gli effetti. E qui, di solito, si apre il dibattito. Allorché alcuni sostengono che Pinocchio muoia proprio nel momento in cui viene ‘normalizzato’, ascritto al consorzio degli umani.
Del resto anche per noi non risulta affatto chiaro quando la nostra condizione di “burattini”, di esseri in divenire, pervenga (per scelta) al grado umano, ad una qualità morale, al riconoscimento di regole condivise. Per dirci pure noi contenti di essere diventati persone: per bene.
25/11/13
Oggi per domani. La necessaria “metànoia”
Siena capitale europea della cultura. Un progetto, un auspicio, una competizione. Una sfida che la città ha avviato soprattutto con se stessa, non più – o, almeno, non solo – per compiacersi (è il vezzo che da sempre le viene facile) ma per mettersi finalmente in discussione. Sembrerebbe finito il tempo della manutenzione ordinaria del passato, a tutto vantaggio di una prospettiva, lungo la quale si intenderebbe re-intrerpretare la città, le peculiarità che le sono proprie. Rifornendola, perciò, di idee, motivazioni, risorse economiche e intellettuali, di fiato lungo e non dopato. Se la comunità senese ambisce a proporsi come capitale della cultura, il primo atto che le viene richiesto è proprio quello di attuare un’operazione culturale su se stessa. Ovvero di cambiamento di mentalità, di metànoia dicevano gli antichi greci per definire una radicale trasformazione nel modo di pensare e di vedere le cose. La parola piacque a tal punto al cristianesimo da farne sinonimo di “conversione”. Ebbene, sono auspicabili certe conversioni anche nella “città degli uomini”, nella res publica. Non esiste, però, mutamento che possa prescindere da un processo culturale. Allorché le menti vanno a (in)formarsi – si mettono in rete, per usare un termine consueto – con quanto sia loro diverso e affine, noto e sconosciuto, logoro e immutabile, particolare e universale. Tale è l’auspicabile conversione a fronte di un patrimonio condiviso (materiale e immateriale) da porre, oggi per domani, nella disponibilità delle generazioni future. D’altra parte, come ebbe a dire Franco Fortini in una lezione magistrale tenuta all’Università per Stranieri quasi 25 anni fa, “il discorso sulla immagine convenzionale di Siena si è mutato in quello, assai temibile, della eredità”. A questo proposito il grande intellettuale si chiedeva in quale modo i più giovani vedessero (e vivessero) la città, in considerazione del fatto che una sua rappresentazione possa – debba, ci mancherebbe! – conservarsi, “ma come un documento o un cimelio; non crederla vera”. Analisi acuta e, volendo, trasformabile in programma di governo. Evitando, magari, la solita solfa di quel “buon governo” che è, certo, un capolavoro dell’arte, ma anche uno sfacciato manifesto di demagogia. Un governo, dunque, senza aggettivi. Di soli sostantivi, anzi di sostanza. Nel frattempo si avvertano i diretti interessati che i cadreghini del potere (o presunto tale) sono tarlati, i forzieri svuotati, gli dèi adirati. E si dica alle scolte che ogni notte montano guardia alle antiche mura che oggi le disfide si vincono lasciando le porte aperte.
18/11/13
Corsaro e luterano. Il poeta che oppose l’arte al degrado
“La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Lo affermò Pier Paolo Pasolini. Lui che incompreso risultò ai molti, frainteso da diversi, e, quando compreso, a maggior ragione ignorato. Poiché il suo pensiero rifiutava le semplificazioni, il suo modo di confrontarsi (e scontrarsi) era diretto, frontale. Fu troppo comunista per essere poeta e troppo poeta per essere comunista. Mistico blasfemo, asceta lussurioso, veggente snobbato. Un reazionario di sinistra (così lo definì Enzo Siciliano), angosciato dall’omologazione, dal “genocidio” culturale in atto nella società e perpetrato da un potere che andava espropriando i comportamenti e le esistenze di tutti. Il poeta venuto dalla friulana Casarsa della Delizia (un vecchio borgo “intronato dal suono senza tempo della campana”), provò, così, a contrapporre l’arte al degrado, a conficcare il punteruolo della poesia nella scorza della realtà. Invano, ovviamente. Il degrado sarebbe stato trasfigurato (ottimizzato) in modello sociale. Il popolo – termine, già allora, un po’ fané per significato e significante – sarebbe diventato “la gente” o, per meglio dire, “il pubblico”, quello della televisione naturalmente. La mutazione antropologica avrebbe ammorbato ogni espressione della vita individuale e sociale: famiglie, scuola, politica.
Ora che quel degrado è a sua volta degradato in qualcosa di più sfuggente, si torna ancora a farci la domanda retorica: cosa direbbe Pasolini se fosse sempre vivo. Ma forse avrebbe maggiore senso interrogarsi per quali ragioni lo scrittore “corsaro” potrebbe avere da ri-dire. A fronte delle nuove volgarità, ipocrisie, corruzioni, ingiustizie, povertà. Dinanzi a tutti gli Alì dagli occhi azzurri che approdano (quando approdano) a Lampedusa dalle “barche varate nei Regni della Fame” (pure in questo fu profeta). E chissà come concepirebbe, oggi, l’episodio de La ricotta, a quale tipo di “poraccio” assegnerebbe il ruolo del ladrone buono, morto in croce, vittima sacrificale del mondo all’epoca detto borghese, che paga il prezzo della vita perché “morire era l’unico modo che aveva per fare la rivoluzione”. Giudicherebbe, dunque, questo nostro tempo al vaglio della sua speranza, disperazione, ironia. O forse si limiterebbe a guardare con lo stesso sguardo tragico, sconvolto e beffardo che Anna Magnani, sul finale di Mamma Roma, rivolge ai palazzi in costruzione della nuova città in cui aveva sognato di abitare. Un sogno ormai riposto e negato. Alberto Moravia disse che di artisti come Pasolini ne nascono uno ogni cento anni. Non mancherebbe molto. Speriamo.
11/11/13
Scritti… a macchina. Con il rombo delle parole
In questi appuntamenti domenicali è capitato di ricordarlo altre volte: è sempre il racconto (e la sua reiterazione) a creare il mito. Ancorché si tratti di miti sorti in àmbiti che sembrerebbero oltremodo distanti dalla supponenza della letteratura. Pensiamo, ad esempio, ad una officina dove si riparano automobili. Luogo apparentemente agli antipodi della letterarietà. E invece risulterà meno innaturale di quanto si creda assimilare quelle chiazze di morchia al nero degli inchiostri che, guarda caso, di macchine e dei loro piloti hanno scritto leggende.
Nella vasta aneddotica riferita a Gabriele D’Annunzio – a cui, notoriamente, piaceva il rombo dei motori – si dà pure notizia di un incontro tra il Vate e Tazio Nuvolari, avvenuto nel 1932 a Gardone Riviera. Sette ore di conversazione, un pranzo insieme, una tartarughina d’oro che D’Annunzio regalò a Tazio accompagnandola con queste parole: “All’uomo più veloce del mondo, l’animale più lento”. Perché Nuvolari – “il mantovano volante”, colui al quale Enzo Ferrari attribuì l’invenzione della “sbandata controllata”, l’uomo provato dalle vicende della vita e, in ragione di ciò, pronto a sfidare la vita stessa – aveva affascinato tutti. Orio Vergani, che ne fu amico, tracciò di lui un vero affresco poetico, ricordando una scarrozzata notturna che parve come “salire verso la luna”, a testimonianza che Tazio avesse con gli astri un intimo legame.
La letteratura non ha dimenticato nemmeno un altro mito dell’automobilismo: Juan Manuel Fangio. Bello ed essenziale il ritratto che ne fa Osvaldo Soriano nel libro Pirati, fantasmi e dinosauri. Parla di un “idolo tranquillo”, consapevole della propria grandezza, ma che non andava in giro a proclamarla. Insomma – dice Soriano – non certo paragonabile a un esaltato come Maradona. Fangio “era un uomo di campagna, un meccanico di Balcarce che avrebbe voluto diventar giocatore di pallone ed era stato il campione di tutti i circuiti”.
Incredibile. Il fascino delle Mille miglia coinvolge persino un poeta appartato come Vittorio Sereni, che in un testo datato Brescia 1955, così comincia: “Per fare il bacio che oggi era nell’aria / quelli non bastano di tutta una vita. / Voci del dopocorsa, di furore / sul danno e sulla sorte”.
Inoltre, agli amanti dei sentimenti che corrono su quattro ruote, rammentiamo almeno altri tre titoli. Il racconto di Giuseppe Berto dall’inequivocabile titolo di Pistone (due ragazzi si imbucano avventurosamente nella corsa delle Mille miglia), il romanzo Il cielo non ha preferenze (drammatica storia di macchine e d’amore) di Erich Maria Remarque e Dopo corsa, che si trova in Gente di Dublino di Joyce (“Le automobili filavano veloci verso Dublino, parevano proiettili nel solco della Naas Road”). Tutto ciò per dire come l’automobilismo raccontato abbia decisamente… una marcia in più.
04/11/13
In tema di Shoah - Meditate che questo è stato
Nel romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, c’è una pagina indimenticabile. Siamo nel 1938, l’anno dell’emanazione delle leggi razziali. Tutta la famiglia è festosamente riunita a tavola per la celebrazione della pasqua ebraica. Si sta cantando uno di quei canti che il rito, scandito da una sorta di pedagogia dottrinale, dedica ai bambini; e che in cuore agli adulti risuona come lo struggimento di una nostalgia atavica. Improvvisamente squilla il telefono, qualcuno va a rispondere, ma nessuna voce è all’altro capo. Una, due volte. Non c’è interlocutore. Solo un mutismo minaccioso, vigliacco. Da quel subdolo avvertimento che oltraggia la festa, i sentimenti, l’intimità della casa si giungerà fino all’orribile epilogo: cinque anni dopo i Finzi-Contini saranno deportati nei campi di concentramento nazisti, a morire dentro il più inenarrabile paradosso della storia.
La scena descritta da Bassani colpisce per come l’enormità (ma anche l’astrattezza) di un numero (6 milioni saranno gli ebrei sterminati) vada a rimpicciolirsi – e di nuovo a ingigantirsi – nei giorni, nelle stanze, negli affetti di una famiglia. Proprio questa rappresentazione ‘minima’ risulta sconvolgente, poiché induce il pensiero verso ciascuna di quelle persone che andarono a costituire l’atroce somma. Immaginiamo, così, storie famigliari che, al pari delle nostre, intrecciavano amore, vincoli, memorie, progetti. E che – non per fatalità, ma per malvagio disegno – vennero infranti.
Tale è la riflessione e il turbamento che ogni volta attanaglia passando dinanzi alla Sinagoga di Siena, sulla cui facciata è posta una pietra. Lo scalpello, temprato a sdegno e pietà, vi ha scalfito queste parole: “Furono pur veri i campi di spietato annientamento, incredibili strumenti di disumana prepotenza. Con sei milioni di ebrei vi scomparvero i deportati da Siena, figli di una dottrina di giustizia e di amore. Con carità e benedizione siano i loro nomi ricordati”. Seguono 14 nomi e la loro età. Inevitabile non notare che Marcella Nissim aveva 20 anni, Gabriella Nissim 14, Morosina Valech 24, suo fratello Ferruccio 13. Di Ferruccio esiste una foto che lo mostra serio, con due occhioni tristi. Lo sguardo che sembra penetrare la cortina del presagio. Il 14 novembre 1943, giorno del suo tredicesimo compleanno, fu fatto entrare nella camera a gas di Auschwitz. Lo tenevano per mano il babbo e lo zio. La sua giovane vita fu spintonata nell’abisso dove tutt’oggi gorgoglia una domanda: “Ma perché?”.
A scemenze, malafede, ignoranza, provocazioni che supportano il cosiddetto negazionismo, non si replica con una legge (che, per assurdo, potrebbe addirittura alimentarlo) ma con un impegno civile e culturale. Anche in tal caso valga il binomio di conoscenza e coscienza. Da qui la perentoria ammonizione di Primo Levi in apertura al libro Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”.
28/10/13
Attracchi e naufragi. Se tutti siamo spaesati migranti
Ogni giorno le cronache del mondo ci chiedono una sintesi tra ragione, sentimenti, giudizio politico. Una tormentata operazione intellettuale (verrebbe da dire persino ‘spirituale’, se questo termine non si prestasse a equivoci) rispetto ad una realtà in continua trasformazione e troppo più avanti alle nostre capacità di adattamento e comprensione. Geografie, culture, persone si muovono su scala globale: si compenetrano, si ‘mescolano’, si incontrano e scontrano. E’ l’epoca del meticciato che mette in crisi identità etniche credute fino a ieri immutabili. E c’è, poi, il movimento veloce della comunicazione, della conoscenza in tempo reale di quanto ad altri e ovunque accada. Connessi sempre con l’universo mondo, ne percepiamo la simultaneità alla nostra esistenza. Il ‘qui’ (almeno virtualmente) è ormai il ‘dappertutto’, così che viviamo l’ambigua condizione (forse il privilegio) di essere cittadini ‘glocali’.
Folgorante era stata l’intuizione di Paul Valéry, che già nel 1928, sull’imminenza di uno sconquasso epocale, metteva in discussione certe nozioni di Europa, civiltà, storia, tecnica, politica, libertà, progresso. Nei suoi Regards sur le monde actuel (l’edizione italiana, “Sguardi sul mondo attuale”, a cura di Felice Cirto Papparo, è pubblicata nella Biblioteca Adelphi) lo scrittore francese avvertiva su come “i fenomeni politici della nostra epoca [quella di allora] sono accompagnati e resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti, o piuttosto da un mutamento nell’ordine delle cose”. A suo giudizio, infatti, “il mondo al quale cominciamo ad appartenere [si noti la finezza linguistica e concettuale di questo “cominciamo ad appartenere”] è soltanto una controfigura del mondo che ci era familiare”. Secondo Paul Valery (spesso i poeti sono profeti) “il sistema delle cause che governa il destino di ciascuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto: non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto”.
Mi sono tornati in mente questi pensieri del poeta francese nei recenti giorni della tragedia di Lampedusa, non potendo, peraltro, dimenticare che allo stesso autore appartengono i versi di Cimetière marin (“Le vent se lève … il faut tenter de vivre”). Eh già… “si alza il vento, dobbiamo cercare di vivere”.
Noi sappiamo che in quel mare Mediterraneo dove zattere di speranza trasportano esseri umani, fluttua pure un nuovo mondo a cui “cominciamo ad appartenere”. E in ragione del quale – ecco tornare quanto mai attuale la lezione gandhiana – ogni cultura non può bastarsi, ha bisogno di incontrarne altre. Ne va della loro vitalità, che necessita, nel tempo, il confronto con quanto sia altro-da-sé. Poiché non esistono culture che non abbiano limiti, zavorre di pregiudizi, carenze e omissioni di verità; ciò che Maurice Merleau-Ponty chiamava “regioni selvagge”. Regioni sulle cui coste, oggi, sciaborda un mare di attracchi e naufragi che ci fa tutti, proprio tutti, clandestini. Spaesati migranti.
17/06/13
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29/04/13
Ricordi digitali Vite a misura di gigabyte

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08/04/13
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11/03/13
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04/03/13
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25/02/13
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18/02/13
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11/02/13
Onda su onda. Il medium che educa alla lontananza
Tra gli strumenti che hanno contribuito alla mia educazione sentimentale devo senz’altro ascrivere la radio. E’ stato il mezzo che mi ha formato al senso della ‘lontananza’. Cioè alla percezione di quello spazio della mente, dell’immaginazione, dell’intimo sentire, che rende prossime le cose remote, colmandone la distanza con pensieri, fantasie, emozioni. Mi rivedo ragazzino girare la manopola delle sintonie, finché, come da una gorgoglio di mari, da una Babele di sintagmi e di gente, sarebbero emersi chiaramente suoni, voci, racconti. Anche la notizia più rassicurante acquistava pathos, allertava il cuore. Fu in queste fascinose escursioni che ascoltai per la prima volta l’allegretto della Pastorale eseguita dai filarmonici di Berlino: la banalità di un arpeggio trasformarsi in sublime invenzione. Di quello stesso genio, “diventato sordo e scontroso” – mi aveva raccontato la mamma – era anche la sigla con cui, in tempo di guerra, si aprivano le trasmissioni di Radio Londra, ascoltata clandestinamente nella penombra dei coprifuoco e delle tende tirate. Notiziari la cui voce aveva la ferma pacatezza della speranza, contrapposta all’enfasi della propaganda fascista. I bollettini del mitico colonnello Harold Stevens venivano giustappunto annunciati (tam-tam-tam-tam) con l’inizio della Quinta di Beethoven. Perché quelle prime note così scandite, se decodificate con l’alfabeto Morse, trascrivevano la “V” di “Victory”. Per me che, fortunatamente, la guerra l’avrei vista, dopo, soltanto al cinema, ancora più avvincente fu sapere dei messaggi criptati che per mezzo di Radio Londra gli alleati trasmettevano alle unità della resistenza italiana.
Non nego che tali suggestioni – l’idea di clandestinità, la trasgressione, l’andare-contro per una causa giusta – mi sarebbero tornate in mente negli anni Sessanta-Settanta con il proliferare di quelle che furono chiamate “radio pirata”, poi divenute “radio libere”, ora “private”. Era il tempo in cui Eugenio Finardi cantava: “Amo la radio perché arriva dalla gente / entra nelle case e ci parla direttamente / se una radio è libera, ma libera veramente / piace ancor di più perché libera la mente”. Erano gli anni in cui un ragazzo siciliano, Peppino Impastato, attraverso gli artigianali microfoni di Radio Aut, intendeva combattere la mafia. Perciò fu assassinato.
Qualche decennio fa si disse anche che la radiofonia sarebbe stata fagocitata da televisione, web e da come questi due strumenti andassero interagendo. Ma la radio ha resistito ricollocandosi nel contesto massmediale, ed oggi vanta grandi ascolti. Probabilmente in virtù di quanto ebbe a evidenziare un signore che di queste cose se ne intendeva, Marshall McLuhan, il quale sosteneva che: “La radio … è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare corde remote e dimenticate”. Ma non solo. A differenza della televisione, che illuminando il reale allo stesso tempo ce lo sottrae, la radio restituisce la lontananza necessaria alla nostra immaginazione, la notte che fa ingrandire i pensieri.
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