26/01/09

Le pagine della Shoah, raccontare l’inenarrabile perché “questo è stato”


Nella vicenda umana sussiste qualcosa di veramente inenarrabile: la Shoah. Difficile è, infatti, poter descrivere un tale sprofondo della storia, dare un senso alla insensatezza, trovare verbo per dire ciò che appare assurdo, ineffabile. Eppure, ammoniva Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Dunque occorre scongelare le parole dal loro (dal nostro) blocco morale ed emozionale affinché quanto accaduto sia non solo portato a conoscenza dal punto di vista della storia, ma anche fatto “sentire” in tutto il suo terribile, insostenibile impatto di sentimenti.
Il racconto emotivo e “letterario” della Shoah è indubbiamente quello che risulta più difficile e discutibile, poiché sorge inevitabile la domanda di come sia possibile “decorare” di parole tanta crudeltà, fino ad affermare con il filosofo Theodor Adorno che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie…”. Solo successivamente lo stesso Adorno avrebbe corretto la perentorietà della sua affermazione dicendo che non le si poteva attribuire una validità assoluta, ma che, comunque, “dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”.
E’ dunque in ragione di questi tormentati argomenti che anche all’ebreo rumeno Paul Celan – poeta che alla Shoah dedicò ripetuti versi – si arrivò a contestare la “bellezza” di quelle sue poesie nelle quali, per paradosso, poteva esservi sottesa quasi una sorta di “complicità” alle efferatezze compiute nei campi di sterminio. Va ricordato che la madre del poeta venne annientata ad Auschwitz ed a lei sono dedicati i lancinanti versi che dicono: “Madre, madre / Strappata dall’aria / Strappata dalla terra / Giù / Su / Trascinata…”.
Certo è che raccontare l’Olocausto significa confrontarsi con l’indicibilità delle parole estreme. Tuttavia quelle parole vanno trovate: limpide a fronte di chi vorrebbe infangare una dolorosa memoria, nobili contro l’ignobile, inesorabili di più e al di là della vendetta. Perché, come ci ricordava ancora Primo Levi: “Meditate che questo è stato”. Da qui, allora, il suo angosciato imperativo: “Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”. Diversamente “i vostri nati torcano il viso da voi”.

20/01/09

Contro la regressione culturale. Tornare a indignarsi con il coraggio delle “parole importanti”


Nei momenti incerti della storia quali sono quelli attuali – incerti non solo nel benessere economico, ma anche nel progettare un senso di futuro che non sia soltanto scomposta fuga dal presente – si avverte quanto mai il bisogno e il coraggio delle “parole importanti”. Non del chiacchiericcio, dunque, ma di quelle parole (frutto di pensieri pensati) che interpellino e pongano in discussione la realtà del mondo, le sue logiche perverse, i conformismi pilotati, il prevaricare di pochi (altrimenti detto “il potere”) a spese dei molti.
Un tempo chi aveva il dono di tale verbo era detto profeta, poiché tale è colui che riesce non tanto a “indovinare” il futuro, quanto a saper leggere e dire il presente spalancandolo, appunto, nella prospettiva del domani.
Una recente occasione per riflettere su questi temi ce l’ha offerta anche Oliviero Beha con lo spettacolo argutamente (e amaramente) intitolato “Volevo essere Pasolini”. Infatti Pasolini – lo ha scritto recentemente Maria Pace Ottieri su Velvet – seppe a suo modo dare un peso alle parole e alla responsabilità dei comportamenti individuali. Con le sue parole “corsare” egli profetizzò (è proprio il caso di dirlo) ciò che sarebbe accaduto a fronte di una mutazione antropologica provocata dalla società dei consumi, che, dietro un millantato bien-vivre, va, invece, ad essere “il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”.
In Pasolini, allora, la parola (finanche quella poetica) divenne “eresia”, strumento d’arte duro e spigoloso (si pensi alla lingua pasoliniana) per interpretare e denunciare i paradossi, il dolore, la contingenza del tempo. Violenta e insieme struggente, cercò di dire una verità al suo stato primordiale, grezzamente puro, pre-ideologico. E forse può ritenersi consequenziale a tutto questo se, a un certo punto, il regista del Vangelo secondo Matteo sentì di dover consegnare la sua urgenza di dire a quella che non a caso viene definita la Parola, in quanto verbo (annuncio) talmente essenziale da poter “contestare” tutte le parole.
Pasolini torna quindi di attualità nel nostro oggi contraddistinto (per dirla con Oliviero Beha) dal cinismo e da una totale “regressione culturale”. Da qui l’esigenza di recuperare, contro la balbuzie e l’appiattimento dilagante, una parola che, magari a prezzo di una pasoliniana “disperata vitalità”, riprenda a pronunciarsi sulle cose che veramente contano.

12/01/09

“Libertà l'ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato"


La mattina dell’11 gennaio 1999 fuori dalla mia finestra le cose stavano immobili nell’arrendevolezza dell’inverno. Liberi o no di crederci, mi ero svegliato con in testa quel frammento di canzone di Fabrizio De André che dice: “Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”. Appresi poco dopo da un giornale radio che il cantautore era morto durante la notte.
Il necrologio intimo che ciascuno formula quando resti colpito dalle morti altrui, quella volta non fu, almeno nel mio caso, il consueto… con lui scompare… e giù a seguire il rosario di ciò che ormai si avverte perduto anche di se stessi. Mi si scuserà l’artificio retorico, ma non provai il senso di una fine, quanto, piuttosto, l’inizio di una tracimante nostalgia di futuro. Ovvero non fu (e continua a non essere) il rimpianto del “come eravamo”, ma di ciò che, ahimè, non siamo riusciti ad essere.
Evitai, perciò, di repertoriare le cose che in me morivano con De André (molte, per la verità) cogliendo, invece, uno spazio di discrimine tra gli anni della vita che avevano avuto come colonna sonora le stupende canzoni di Fabrizio e un presente faticosissimo, indecifrabile, di necessità pragmatico.
Al di là di quella linea stava la con/fusione di ideali, ideologie, terzomondismi, amori e rivoluzioni (erano gli anni Sessanta e Settanta) dove in ragione di una nuova “percezione” del mondo (diciamo pure di una “condizione emotiva” tutta particolare) riuscivamo a far convergere i più disparati pensieri verso il bene comune. Rabbia, poesia, istanza sociale e teneri sentimenti, insomma, per tutte le bocche di Rosa, i “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, le tante guerre di Piero, per gli ultimi, i diversi, per chi ai margini se ne stava. Ironia e condanna per l’ipocrisia di vecchi professori, di “giudici eletti”, di quanti “sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”.
Al di qua c’era un desertificato oggi e il mio (nostro) spaesamento. Persisteva, però – eccome forte – lo stesso sussulto anarchico di quarant’anni verso una politica mediocre e solo in funzione della propria conservazione, la medesima rabbiosa insofferenza per le troppe ingiustizie, per una televisione beota e asservita.
Questo, la mattina dell’11 gennaio 1999, pensò forte un cinquantenne disperato “se non del tutto giusto / quasi niente sbagliato, / cercando il luogo idoneo / adatto al suo tritolo, / insomma il posto degno / d’un bombarolo”. E fu davvero uno scoppio, sordo ma devastante come è quello della commozione.