26/10/09

Contaminazioni. Come storie create… ad arte


Se volessimo impicciarci dei nessi tra arte e letteratura, il catalogo sarebbe indubbiamente ricco. Prendere un’opera d’arte a “protagonista” (o tantomeno a pretesto) di un romanzo è operazione da sempre praticata e, soprattutto negli ultimi tempi, anche fin troppo abusata. Basti pensare ad alcuni best-seller come “La ragazza con l’orecchino di perla” di Tracy Chevalier, ispirato all’omonimo quadro di Vermeer (altrimenti detto “La ragazza col turbante”) oppure, sempre della medesima autrice, “La dama e l’unicorno”, in tal caso suggerito dagli arazzi che si conservano al Musée du Moyen Age di Parigi. Di questo accattivante gioco la Chevalier ne ha fatto un genere piuttosto redditizio, inventando, appunto, storie di personaggi tratti dalle opere d’arte. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Neri Pozza che non a caso ha ideato una collana intitolata “I narratori delle tavole”. Dalla California sembra farle il verso Susan Vreeland che, intrigandosi sempre con Vermeer, ha invece pubblicato “La ragazza in blu”. Del resto il pittore fiammingo – sarà forse per quelle sue figure così misteriose e potenti – pare incontrare facilmente la fantasia degli scrittori. E’ sempre lui, ad esempio, il protagonista indiretto de “La doppia vita di Vermeer” scritto da Luigi Guarnieri e incentrato sulla turbolenta biografia di Han van Meegeren, grande falsario dello stesso Vermeer.
Procedendo a ritroso nel tempo non può essere dimenticato uno dei romanzi più riusciti di Anna Banti (“Artemisia”, edito nel 1947) che rievoca la vita della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, narrando la vocazione artistica di una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo. Ancora la Vreeland ha ripreso recentemente questa vicenda pubblicando “La passione di Artemisia”.
E figuriamoci, poi, se poteva mancare il metaforico e allucinato Bosch: ci ha pensato l’inglese Gregory Norminton architettando divertenti storie con i personaggi de “La nave dei folli”. Da par suo, in Italia, Marosia Castaldi, attraverso una scrittura decisamente visionaria (si legga “Dava fine alla tremenda notte”) rievoca il pittore Hans Memling e le sue ripetute Madonne col Bambino, dipinte su tele grondanti rosso sangue.
Però, diciamocela tutta, il più bello e inquietante dipinto che incontriamo nella storia della letteratura resta “Il ritratto di Dorian Gray”, poiché su quella tela, infine lacerata da un coltello, è racchiuso il problema se debba essere l’arte a imitare la vita o viceversa. Questione di non poco conto, poiché baloccarsi con l’estetica non può prescindere da un giudizio morale sulla vita e – perché no – sulla (sua) bellezza.

19/10/09

Raccontare gli etruschi. Favola d’ombre e di svelati enigmi


Anche se, almeno negli aspetti fondamentali, la storia degli etruschi non presenta più insondabili oscurità, piace sempre avvolgerla nel mistero. Già il loro nome suscita un ammirato timore non poi così dissimile da chi, nell’antichità, volle descriverne le gesta. Si pensi alle Storie di Erodoto (sua la tesi che gli etruschi fossero emigranti provenienti dall’Asia Minore), alle appassionate tesi di Dioniso di Alicarnasso (che invece ne sosteneva origini autoctone), agli Annali di Livio o alle pagine di Virgilio sulla nascita di Roma. E poi il rebus di quella lingua che secondo la recente opinione di Giovanni Semeraro (Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, Bruno Mondadori, 2006) altro non sarebbe che un incontro tra idiomi mediterranei.
Ciò nonostante il mistero continua a intrigarci. Le sue ombre, ad ogni tramonto, si allungano lungo le coste del Tirreno, negli anfratti delle necropoli, nelle evocanti reliquie riportate alla luce. Gina Lagorio, parlando di una giornata trascorsa a Volterra con Giorgio Caproni ebbe a scrivere: “Furono ore lente, vicino alla necropoli etrusca: un paesaggio dell’anima, dove le parole avevano un suono, e un peso, diversi”. E giusto a Volterra è ambientato il giallo di Valerio Massimo Manfredi intitolato Chimaira, dove un giovane archeologo sta cercando di decifrare una misteriosa anomalia racchiusa nella statuetta etrusca nota come L’ombra della sera (nome che le sarebbe stato attribuito da Gabriele D’Annunzio). Anche in pagine di pura fantasia come quelle di Manfredi, ecco riproporsi tutto un immaginario legato al mito etrusco, al loro culto della morte, poiché – come scrisse Curzio Malaparte – “le vere città degli etruschi sono le necropoli. Le città dei vivi non erano che sobborghi di quelle dei morti”.
Ma la citazione letteraria che forse meglio ci consegna la presunta indole di un popolo è quella di Vincenzo Cardarelli, nato a Carneto Tarquinia. Poeta di grande sensibilità e vena elegiaca, dedica ai suoi luoghi natali queste parole: “Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille, il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa. Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli”. E quella favola continua.

13/10/09

Palio & Misteri. Color terra di Siena tendente al… giallo


Forse disorientato dalla complessità di sentimenti e di intrighi che il Palio di Siena sottende, quel signore che nel luglio del 1891 si aggirava nei pressi di piazza del Campo con pipa e strano cappellino in testa, non pronunciò, almeno in quella circostanza, la sua fatidica frase: “elementare Watson”. Anzi, ebbe a dire che il Palio era “troppo complicato per un forestiero”. Stiamo parlando ovviamente di Scherlock Holmes che, nella finzione del romanzo d’esordio di Luca Martinelli intitolato, appunto, Il Palio di Scherlock Holmes, si trova a Siena mentre è alle prese con un complicato caso di doppio omicidio. Nelle vicende senesi che vedono impegnato il noto investigatore il Palio resta semplicemente sullo sfondo anche se – secondo la migliore tradizione giallistica – non può mancare una quasi sincronia tra lo scoppio del mortaretto e lo sparo di una pistola. Situazione che pure Carlo Lucarelli aveva riproposto nel suo racconto contenuto nel libro collettaneo Visioni di Palio (2004), poiché secondo lui il Palio potrebbe costituire la scena per il delitto perfetto: sparando in contemporanea al botto del mortaretto “e andarsene indisturbato quando la Contrada che ha vinto attraversa le vie della città cantando a squarciagola dietro al palio appena conquistato”.
Non c’è dubbio su come il Palio abbia via via stuzzicato l’immaginazione degli autori di tryller e dintorni. Anni fa Frederick Forsyth, maestro dello spionaggio d'azione, ambientò a Siena uno dei racconti (Il miracolo) compresi nel libro Il veterano e altre storie (2001). Tra luoghi comuni sulla città e descrizioni alquanto bislacche, a un certo punto egli scrive che negli “angusti vicoli, nei rioni più vecchi… non v'era traccia degli abitanti, poiché quello era il giorno del Palio. [...] Quello che giungeva da Piazza del Campo era ormai un urlo ininterrotto”.
Ma a proposito di Palio e letteratura gialla, il migliore libro scritto resta, al momento, Il Palio delle contrade morte di Fruttero & Lucentini (1983), dove attraverso la narrazione di una vicenda sospesa fra il poliziesco e il fantasy, si coglie quell’aura spiritica che sembra percorrere la Festa dei senesi. Concluderanno i protagonisti del romanzo: “Ci hanno voluti qui [...] come testimoni, per non essere i soli viventi ("viventi"?) su questa piazza, su questa terra, a veder correre questo Palio delle loro risuscitate contrade”.
Oggi è la volta di Sherlock Holmes che nel riuscito racconto di Martinelli di fatto non assisté al palio. E di ciò si pentì al punto di affermare che fu “un imperdonabile delitto”.

05/10/09

Imago urbis. La visione della città tra estetica ed etica


Da sempre la città non ha significato soltanto la delimitazione di uno spazio abitato, ma anche un concetto, l’esplicitazione di un’intima visione delle cose e dell’esistere. E’ dunque in ragione di ciò che, nel tempo, ogni città viene “raffigurata” intrecciandone immagine reale e immagine ideale. Questa imago urbis è innanzitutto legata all’esperienza figurativa della pittura e della fotografia che a vario titolo e secondo le diverse esigenze (topografiche, descrittive, ad effetto estetico) mostrano la città ora come realtà d’uso, ora come oggetto di contemplazione. Tuttavia qualunque sia il “punto di vista” del pittore o del fotografo di turno, e anche laddove egli intenda perseguire meri intenti realistici, porterà in quella raffigurazione una sua “idea” di città connessa ai propri riferimenti culturali. E proprio il tramandarsi di questi punti di vista va poi a formare la “leggenda” di determinate città (Siena è ormai fra queste).
Non di meno la letteratura offre visioni e interpretazioni delle città. Si pensi al ribollente scenario di Napoli proposto dalle pagine di Anna Maria Ortese, alla appartata Ferrara di Giorgio Bassani, alla Roma vacua di Alberto Moravia, alla Trieste quando mesta quando ridente di Svevo e Saba, al rifugio di odori e memorie che Dacia Maraini ritrova a Bagheria. O alla Siena di Federigo Tozzi, città che egli amò nei suoi scorci e recessi ma non nei suoi abitanti che ne facevano, secondo lui, una realtà angusta e asfissiante. Insomma un amore/odio tacitamente contraccambiato dai senesi verso il geniale ma troppo scontroso concittadino. Poiché essi, al profilo psicologico della città che emerge dagli scritti tozziani hanno sempre preferito l’immagine “anacronistica”, immaginifica, attraverso cui si è prevalentemente raccontata Siena. Ovvero una dannunziana “città del silenzio” posta dentro al frastornante riverbero della sua memoria. Una raffigurazione di stampo romantico che, probabilmente, continuano a cercare anche i forestieri un po’ cialtroni dei giorni nostri. Gli instancabili pulsanti delle macchinette fotografiche – e quindi gli sguardi che vi stanno dietro – sembrerebbero non voler catturare altro (di Siena e di analoghe città leggendarie) che il brivido del passato, la prodigiosa cartolina. O forse l’insistenza nel voler perpetuare questa visione straniante, è speculare alla confusione delle identità, allo stravolgimento dei paesaggi esteriori e interiori. Per cercare ancora una volta l’immagine di una città (e di se stessi) non solo estetica ma anche etica.