17/12/12

Racconto di Natale. Lo zio Eugenio che regalava libri

Da quando era morto lo zio Eugenio il Natale in casa nostra aveva perso un notevole tocco di eccentricità. A parte le circostanze straordinarie di matrimoni e funerali, la ricorrenza natalizia costituiva l’unica occasione in cui egli si concedeva ai parenti. Alle 20,20 giungeva puntualissimo per la cena della vigilia a casa della nonna. Ancora sul pianerottolo, con artefatta bonomia ripeteva: bon Noel… joyeux Noel (i francesismi erano una sua fissa); percorreva il corridoio perfettamente sincrono con gli scricchiolii del parquet, sbottonava il casentino arancio come un vescovo sgancia il piviale e andava dritto all’albero a deporre i suoi pacchetti verso i quali noi ragazzi mostravamo fin da subito un rassegnato disinteresse. Perché zio Eugenio regalava a tutti soltanto libri. Con i libri – diceva – tu non doni un oggetto, ma un mondo intero. Aveva inoltre teorizzato che soprattutto certi classici della letteratura andassero letti a rotazione ogni dieci anni, poiché il tempo e la vita delle persone avrebbero aggiunto a quelle pagine nuovi significati, nuove rivelazioni. Ecco, dunque, i suoi libri-regalo dentro incarti, al pari di lui, squadrati e simmetrici. Perfette geometrie a sorreggere i deformi fagotti di maglioni, guanti, attrezzi da bricolage, cesti di roba mangereccia. Ma la cosa non finiva lì. Appena seduti a tavola, zio Eugenio, nel preciso momento in cui posava sul piatto il primo crostino, avvertiva: “questo Natale abbiamo tra noi ospiti illustri”. L’allusione era ai personaggi dei libri ancora da scartare. Un gioco a indovinello per esibire la sua cultura letteraria, della quale poco interessava ai convitati comprensibilmente concentrati sul traffico e relativo parcheggio dei vassoi. L’anno che a me aveva regalato Guerra e pace chiese alla nonna se potevano essere aggiunte due sedie per Pierre Bezukhov e Natasa Rostova, ma nessuno dei presenti prese in considerazione la coppia venuta dal freddo. Andò diversamente la volta che l’ospite era Ferdinand Bardamu, ovvero quando mio fratello, poco più che adolescente, fu il destinatario di Viaggio al termine della notte di Céline. Nostra madre, che aveva il suo rispettabile background di letture, non gradì affatto che un libro così “cinico e nichilista” finisse nelle mani di un ragazzo nemmeno maggiorenne. E il signor Bardamu, ma soprattutto chi l’aveva invitato, rischiò quasi di essere messo alla porta. Nessuno aveva capito che attraverso quel gioco zio Eugenio intendeva condividere qualcosa di sé. Lui era tutti i personaggi che gli piaceva evocare. Ci fu chiaro al primo ritrovo natalizio che lo vide definitivamente assente. Allorché la nonna, che aveva regalato ai più piccoli il dickensiano Canto di Natale, mise in tavola il primo vassoio di antipasti annunciando con malcelata commozione: “stasera è nostro ospite Ebenezer Scrooge, colui che ha dimostrato come in fondo al cuore degli uomini sia riposta sempre e comunque la buona volontà”. Apparve evidente che il vero ospite di quel Natale fosse lo zio Eugenio. Tutti ci stringemmo per fargli posto.

10/12/12

A proposito di denaro. Chi crede ancora alla Volpe e al Gatto

“Pecunia non olet”, si diceva nell’antica Roma. Se il denaro non aveva odore a quei tempi, figuriamoci oggi che i soldi sono sempre più intangibili, sganciati dalla realtà. Tanto che basta un clic per spostare capitali da una parte all’altra del mondo. Soldi, dunque, sempre più virtuali e sempre meno virtuosi, non finalizzati all’economia ma alla speculazione. Moneta che non tintinna, ma che nella sua silenziosa impalpabilità si fa padrona del mondo, compra vite, è la mediatrice (il simbolo) che stabilisce chi e che cosa valga. Coloro che avessero letto il romanzo Resistere non serve a niente di Walter Siti (Rizzoli, 2012) avranno trovato la rappresentazione lucida e feroce di questa distorsione su scala globale, alimentata da un pullulare di maestranze: broker-pirati, mafiosi con la cravatta, banchieri con il maglione, politici corrotti, giovani finanzieri tutti nervi e scienza. Incredibile (ma anche no) il personaggio Tommaso, ex ciccione ed ex matematico prodigio, ora prestigiatore in Borsa, completamente schizofrenico tra certi residuati di bontà e il cinismo necessario per frequentare un universo in cui il denaro (e il possederlo) comanda e deforma l’esistenza. E’ la contemporaneità, asserirà qualcuno. Però a ben pensarci il problema nasce almeno un paio di secoli fa, se addirittura un poeta come Leopardi si accorse che il mondo stava guadagnando in progresso a discapito della civiltà, “quasi che gli uomini, discordando in tutte le altre opinioni, non convergano che nella stima della moneta: o quasi che i denari in sostanza sieno l’uomo: e non altro che i danari […]. Analisi lucidissima, quella del sor Giacomo, fino a concludere che se l’uomo viene identificato con il denaro si arriverà a ciò che altri avrebbero poi chiamato la prevalenza dell’avere sull’essere (ormai uno slogan, inflazionato anch’esso), ovvero la mercificazione dell’uomo disposto a vendersi in corpo ed anima. E, sempre sul tema, quale incredibile attualità ha il Faust di Goethe – opera che notoriamente racchiude un giudizio morale sulla ‘modernità’ – allorché Mefistofele consiglia Faust, a sua volta consigliere dell’imperatore, su come fronteggiare la crisi economica del regno. Ecco la mefistofelica ricetta: sostituire la moneta d’oro con quella di carta, così che quando sulle terre del regno si fosse trovato l’oro (oro che al momento era solo immaginario) quella carta avrebbe luccicato di chissà quale valore e nell’illusione di tale prospettiva il popolo se ne sarebbe stato calmo nel pantano di una devastante inflazione. Per tornare ai giorni nostri. Viene da chiedersi quale demonio si sia impossessato del globo, ammorbando con lo zolfo degli affari facili quell’economia reale che per lo meno puzzava di sudore umano. E’ forse arrivata l’ora di rovesciare il tavolo, a cui, peraltro, siedono giocatori che non rischiano soldi loro. O vogliamo credere alla volpe e al gatto: “E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dài retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?”.

02/12/12

Parole e fatti. Sinistra vuol dire che...

Qualcuno ne fa una questione grammaticale: sinistra è un sostantivo o un aggettivo? A giudicare dal fervore che riscontriamo in questi giorni di elezioni primarie, potrebbe essere anche un verbo. Nel senso dell’agire, del movimentare, del mantenere vivi pensieri e coscienze. Indubbiamente una bella testimonianza, quella che si ricava dagli oltre 3 milioni di cittadini che hanno partecipato alle primarie del centrosinistra. Persone non arrese dinanzi al disimpegno, allo spettacolo indecente delle (s)partitocrazie, alla rabbia che monta quando i destini comuni appaiano tanto ingiusti quanto irrevocabili. Donne e uomini attrezzati idealmente e culturalmente per fronteggiare un frangente storico contraddittorio, inedito, di cui, talvolta, mancano anche i giusti strumenti di analisi. Evaporate le ideologie, anestetizzate le spinte riformiste, frastornati dai processi di individualizzazione e della globalizzazione, dovrà pur esserci una visione di sinistra della società, un discrimine che – come diceva Norberto Bobbio – nel segno dell’uguaglianza tracci la linea di distinzione dalla destra. Ovvero uguaglianza di opportunità tra individui, gruppi, sessi, popoli, generazioni. A meno che non si intenda cedere alle logiche aggressive di economia, finanza, impresa, mercato, come se questi fossero una sorta di ‘legge naturale’ in nome della quale smantellare welfare, istruzione, diritti sociali, poiché ritenuti non valori ma costi. Le aggregazioni politiche che si richiamino ad una idea di sinistra non possono dunque prescindere dall’affermazione di tali principi, dal pronunciare certe parole, dal denunciare le subdole prepotenze dei poteri (che a volte alla stessa sinistra fanno l’occhiolino). Dovrà pur esserci una presenza critica e riconoscibile all’interno di una società indotta alla frammentazione, all’illegalità, a confondere democrazia con populismo; una cultura e un agire che controbilancino – pur con le inevitabili mediazioni – l’arroganza dell’economia sui diritti, la dittatura del mercato sugli Stati, lo svilimento del pubblico a beneficio del privato. Perché fa davvero paura la teorizzazione di un egoismo secondo cui sarebbe normale avere pochi ricchi e molti poveri. Illuminante, a questo proposito, è quanto sostiene Gianni Vattimo, laddove evidenzia che una distinzione tra destra e sinistra si connota «nell’opposizione tra chi prende le differenze (di ricchezza, di salute, di forza, di capacità) come differenze ‘naturali’, e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze di ‘natura’». Per quanto complesse siano le sfide del tempo presente, la sinistra ha ancora una sua ragione d’essere nell’affermare una cultura contro l’atomizzazione di individui e di interessi contrapposti, per una società formata giustappunto da ‘soci’: che non è un bisticcio di parole, ma una concezione solidale del vivere, una visione del mondo. Di sinistra?