29/03/10

Tra le righe. Leggo dunque sono


Il piacere della lettura è assimilabile per certi aspetti a quello della musica. Se ad esempio ascoltiamo l’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach sussistono almeno due livelli di coinvolgimento. Uno puramente emotivo, per come le note suonino (evochino) in maniera tanto perfetta e sorprendente. L’altro più “consapevole”, poiché magari si riesce a comprendere (per lo meno a intuire) il complesso disegno della partitura che a detta di alcuni sarebbe addirittura riconducibile a principi pitagorici.
Così è di un romanzo. Talvolta la storia in sé è sufficiente ad appagarci. Ma ancor di più resteremo catturati se di quel racconto si intenderà la struttura, gli escamotages narrativi, il lavorio di scrittura che vi sta dietro.
Potrà essere interessante a questo proposito leggere il libro di James Wood (docente di letteratura ad Harvard e firma di spicco del New Yorker) che nella traduzione italiana (Mondadori) si intitola Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori. Uno studio sulle tecniche della narrazione, dalla Bibbia a John Le Carré, da cui ricavare quasi una storia alternativa del romanzo. E non di meno un manuale per smontare e riassemblare la macchina narrativa nei suoi diversi aspetti: intreccio, personaggi, dialoghi, metafore, esaltazione dei dettagli, realtà e realismo, compostezza a-sentimentale, stili e convenzioni letterarie. Sostiene Wood che da giovani non si è ancora letto abbastanza perché la letteratura ci abbia insegnato a leggere davvero la letteratura. In età giovanile si è, infatti, lettori mediocri, colpiscono (e vi cerchiamo approvazione) dettagli, immagini e metafore che magari sono banalissime, a discapito di altre meravigliose.
Anche Italo Calvino (nella foto) era giunto a queste conclusioni, bene argomentate sulle pagine di Perché leggere i classici, pubblicate postume nel 1991, in cui fra le altre cose affermava che le letture di gioventù risultano spesso poco proficue, poiché modelli e valori che possono essere percepiti non trovano ancora del tutto formati i meccanismi interiori dell’individuo, i suoi comportamenti inconsci che, invece, nella maturità consentono una lettura in profondità, fra le righe, attraverso allegorie e metafore.
E’ in ragione di tutto ciò che i libri vanno a formare in noi una visione del mondo. E non a caso – sarà sempre Calvino a dirlo – si chiama classico un libro che lungo il tempo “ci dà conferme” e che si configura come “equivalente dell'universo”. Ecco allora perché il piacere della lettura diviene anche piacere (spiegazione) della vita.

22/03/10

Legal thriller. Onori letterari a Vostro Onore


Ma quale America! Il legal thriller nacque in Grecia ad opera di Antifonte di Ramnunte, oratore di grande dottrina, che già nel V secolo a.C. ideò le Tetralogie, ovvero casi fittizi di omicidi ad uso didattico, in cui al discorso dell’accusa seguiva quello della difesa, quindi la replica dell’accusatore e la controreplica dell’accusato. Tra queste è nota l’orazione Contro la matrigna dove una ragazza accusa la matrigna di avergli ucciso il padre con la complicità di una schiava. In altri casi Antifonte si riferiva a fatti realmente accaduti, come Per l’uccisione di Erode (discolpa di un mitilenese accusato di aver ucciso un compagno di viaggio) o ancora l’orazione Per un coreuta, a difesa di un impresario teatrale, presunto omicida di un giovane corista al quale era stata fatta ingerire una pozione per rendergli la voce più bella.
Se del cosiddetto giallo giudiziario si cercano, però, origini a noi più prossime, basterà percorrere a ritroso poco più di 20 anni e diverse miglia oltre Oceano per trovare l’avvocato-romanziere John Grisham che nel 1987, scrivendo A time to kill (“Il momento di uccidere”) si arrovellava su cosa sarebbe accaduto in tribunale se un padre avesse assassinato gli stupratori della sua figlia bambina. Spostandoci invece dalla Ford County alla Contea di Kindie, incontriamo il vice procuratore Rusty Sabich che viene incaricato di condurre le indagini sull'uccisione di Caroline Polhemus, sua affascinante collega, con la quale aveva avuto un'appassionata relazione extraconiugale. Ma durante le indagini la posizione di Sabich si fa sempre più precaria fino ad essere sospettato di essere lui l’assassino. Stiamo parlando del noto romanzo Presunto innocente, scritto da Scott Turow nel 1987 e dal quale fu poi tratto l’omonimo film per la regia di Pakula.
Questo è dunque il legal thriller: avvocati, giudici, pubblici ministeri sono essi stessi protagonisti del racconto, perché coinvolti nella vicenda al pari e talvolta di più dei loro clienti-imputati (quasi sempre innocenti). Basti leggere i libri di Erle Stanley Gardner (il creatore di Perry Mason), Lisa Scottoline (suoi i romanzi Final appeal e Il momento della verità), Sheldon Siegel, Richard Patterson. Si sappia, però, che anche lo “spaghetti-legal-thriller” (l’espressione è di Marco Bellotto) ricorre brillantemente e sempre più spesso… in appello, con autori/uomini di legge quali lo stesso Bellotto, Domenico Cacopardo, Gianrico Carofiglio o, al di là delle rigide classificazioni di genere, con Giancarlo De Cataldo e Nicola Quatrano. Siano dunque onori (letterari) a Vostro Onore.

15/03/10

Il libro a teatro. Se va in scena la letteratura


In tema di letteratura teatrale la questione teorica è sempre stata quella di stabilire se un testo drammaturgico potesse avere o no autonomia letteraria a prescindere dalla sua rappresentazione scenica. Anche in considerazione del fatto che il teatro ha di per sé una “mobilità” attraverso cui i materiali scritti per essere recitati vanno frequentemente a finire nella letteratura, e viceversa. Il Novecento italiano ne vanta significativi esempi con Pirandello, Viviani, De Filippo, Fo. Tre uomini di scena – come ebbe a dire lo studioso Ferdinando Taviani – che divengono, appunto, anche uomini libro.
Continuiamo a domandarci, comunque, quanto e in che modo un copione teatrale sia da ritenersi “letterario”, tenuto conto, peraltro, di come una eccessiva perfezione stilistica possa costituire addirittura un elemento negativo, almeno secondo una logica meramente drammaturgica.
La querelle, non certo nuova, fu affrontata anche da Pirandello con un intervento apparso il 30 luglio 1918 su “Il Messaggero della Domenica”. In quell’articolo il nostro premio Nobel se la prendeva con gli autori drammatici che volutamente scrivevano “male” perché, a loro dire, i personaggi delle commedie, non essendo letterati, “debbono parlar come si parla, senza letteratura”. Però – osservava Pirandello – così facendo, essi “confondono lo scriver bene con lo scriver bello”. Si sappia invece – proseguiva l’acuta analisi pirandelliana – che quando un autore di teatro sa trovare le parole per rendere bene un determinato personaggio, una scena, un gioco, il suo linguaggio non sarà mai “comune”, e diverrà opera letteraria al pari di un romanzo o di una poesia.
Nel 1967, grosso modo su questa stessa questione, attraverso le pagine del Corriere della Sera ci fu un interessante scambio di opinioni tra Giuseppe Dessì, Carlo Bo e Geno Pampaloni. In quel caso Dessì lamentava come i critici letterari non assolvessero il compito di illustrare la parte teatrale degli scrittori. Ma a parere di Bo l’opera teatrale degli scrittori per la gran parte dei casi (salvava giusto Balzac) non è che un’appendice dell’opera letteraria vera e propria. Da par suo Pampaloni rincalzava che lo scrittore di oggi, sfiduciato nei confronti della letteratura, tende a far prevalere l’interesse per la tecnica dei linguaggi, cosicché quando scrive per il teatro “ingloba una realtà di comunicazione che la semplice parola scritta non avrebbe più”.
Or dunque: primato del libro o del palcoscenico? E non si dica con il dissacrante Baudelaire che “ciò che ho sempre trovato di più bello a teatro è il lampadario”.

08/03/10

Elsa Morante. Una invettiva tenera e imperiosa


Nel 1974 critici letterari e colti lettori mostravano sui loro tavoli da studio un anti-romanzo di Paolo Volponi (Corporale) contraddistinto da arditezze tecnico-narrative, da una forma spiazzante, tanto confusa quanto suggestiva. Altrove, magari negli spazi più defilati delle camere da letto, non potevano però tralasciare la lettura di un corposo feuilleton (così venne definito con sufficienza) di Elsa Morante, intitolato La Storia. I critici lo stroncarono per quanto fosse ottocentesco e popolare, istigante (secondo Italo Calvino) pianto e commozione al pari dei Miserabili, una insistita “vendita di disperazione” (Rossana Rossanda), una Morante che (a detta di Cesare Cases) smentiva con quel libro i suoi precedenti ed apprezzati esiti ottenuti, ad esempio, con Menzogna e sortilegio.
Fummo tra i lettori de La Storia, ma non versammo lacrime. Prevalse in noi, piuttosto, la sintonia con il moto di anarchia (formale e di contenuto) presente in quelle pagine. Come ebbe modo di osservare Cesare Garboli, tale scelta di grande violenza narrativa, così ferma, netta e imperiosa, non poteva che essere compiuta da una donna. Ed è vero. Nel racconto della Morante c’è la disperata tenerezza e la tenacia femminile che di fronte ai drammi sa emergere. C’è il grido e la tenerezza, l’accusa e la pietà, la grinta e lo sconcerto. Tutto ciò lo si percepisce in un timbro di voce, in una fisicità appunto femminile: perché solo la donna, proprio in ragione del suo essere, ha titolo per denunciare il continuo eccidio di innocenti compiuto dalla storia.
Per altri versi la Morante ci aveva già avvertiti (1968) con Il mondo salvato dai ragazzini (un titolo quanto mai esplicito) che gli adulti, ovvero coloro che esercitano qualsiasi tipo di potere, sono percorsi da un vizio degradante che li conduce alla cecità rispetto al mondo reale; e altro non divengono se non fabbricanti di morte.
Anche nel caso de Il mondo salvato dai ragazzini l’autrice usa un linguaggio estremamente comunicativo, “antagonistico”, senza i conforti – dirà sempre Garboli – di quella che il nostro secolo ha legiferato, e consacrato, come “religione della letteratura”. Nasce da qui lo “scandalo letterario” della Morante, di una donna che ha assunto in sé la disperata domanda di un mondo intero, la tragedia di una coscienza collettiva, congedandosi così dalla sua struggente invettiva (sono questi gli ultimi versi de Il mondo salvato dai ragazzini): “E adesso, o voi che avete ascoltato queste canzoni, / perdonatemi se sospiro ripensando / a quanto era stata semplice / la mia vita”.

01/03/10

Alle origini. Lingua del volgo, lingua di Dio


Parlava in aramaico, ma seppe cavarsela piuttosto bene persino con l’antica lingua toscana. Il poliglotta in questione fu Gesù di Nazareth o, per meglio dire, il Vangelo che di lui racconta vita, opinioni e miracoli. La disinvolta premessa allude a una affascinante traduzione delle pagine del “Vangelio de sancto Johanni” in lingua toscana, risalente alla fine del Duecento, con chiari elementi di lingua senese. Il prezioso manoscritto, conservato presso la Biblioteca Vaticana, qualche anno fa è stato edito dalla Società Biblica Britannica per la cura di Marco Cignoni e “grazie a Dio” è ora alla portata di tutti.
Al momento si ritiene che sia la più antica versione italiana del testo giovanneo offertaci nella sua interezza. Una di quelle versioni “sine glossa” (cioè senza addolcimenti) che sapevano parlare al cuore delle persone attraverso, appunto, la lingua volgare e non il latino ecclesiastico. Da un linguaggio diretto e quotidiano emergeva, dunque, la radicalità del messaggio cristiano, così come lo colsero Francesco da Assisi e Valdo da Lione (in questo secondo caso mediato dalla langue d’oc). Ma, come è noto, alla Chiesa cattolica non piacque.
Duplice è, pertanto, il fascino di quelle pagine: per come vi risuoni la pregnante lingua degli illetterati, nonché per come vi si avverta la tensione verso una fede autentica. Gli studiosi, da par loro, pongono una serie di interrogativi sulle origini del manoscritto. Nella nota di presentazione, Lino Leonardi si chiede, ad esempio, se questo testo del codice vaticano sia effettivamente quello del traduttore o già un suo rimaneggiamento. Sempre Leonardi vorrebbe indagare sui rapporti che potrebbe avere quella versione con altre esistenti, proprio per comprenderne meglio origini e diffusione.
Al di là degli aspetti filologici a noi è dato comunque il piacere della lettura e della commozione, fin dallo splendido incipit: “Nello incominciamento era il Figliuolo di Dio, e ‘l Filgliuolo di Dio era appo Dio, et Dio era il Filgliuolo di Dio”. Risuona così una lingua netta, spigolosa, colorita, come quando va a descrivere l’incredulità di Tommaso: “S’io non vederò le mani sue et le fissure dei chiavelli et s’io non mecterò la mano mia nel lato suo, io no ‘l crederò”.
Le suggestioni, insomma, sono molteplici. E viene da chiedersi quali mani si siano passati il minuscolo Vangelo manoscritto (10x5 centimetri), chi fosse davvero in grado di poterlo leggere e chi altro ascoltarlo con tutto il tremore di chi avverta la “novità” di un invito, perché, come lì sta scritto, “il maestro è presente et chiàmati”.