30/11/09

Dialetti e politica. La lingua batte dove la secessione duole


Il dibattito su lingua e dialetti sta diventando una battaglia politica, e in quanto tale un bel teatrino (ovviamente dialettale) che dai circoli di paese giungerà a calcare il palcoscenico sanremese dell’Ariston. Infatti, dopo 60 anni, al festival della canzone italiana potranno partecipare interi brani scritti in lingue locali. Come dire: il profumo delle rose di un ormai lontano “Grazie dei fior” incrocerà quello più casereccio di “polenta e osèi”. Sarà dunque il caso di prepararsi al peggio. Amiamo troppo la canzone popolare e dialettale per tollerarne imitazioni (se tali saranno) inevitabilmente kitsch.
Ma per tornare al vero nocciolo della questione, ciò che appare paradossale è fare dei dialetti e della loro indiscutibile ricchezza culturale un’arma secessionista, agitata in nome di una identità di cui a nessuno è chiesta la rinuncia. Una lucida analisi di questi temi apparve mesi fa sulle pagine del Corriere della Sera, laddove Paolo di Stefano portò proficuamente a sintesi il pensiero in proposito dello storico letterario Giulio Ferroni, il quale sostiene che la grande letteratura non può essere campanilista: nemmeno quel filone di poesia dialettale novecentesca che scelse sì il dialetto, ma in quanto “lingua pura per eccellenza, in contrasto con la lingua della comunicazione consumata dai media”. Una sorta di latte di Eva, dice altrimenti Zanzotto, che “non ha niente a che vedere con il dialetto usato oggi in certa narrativa, un colore locale, un idioma banalizzato che ha aspetti di espressionismo soltanto esteriore, un uso superficiale e di maniera”. Già Pasolini, molti anni fa, ci aveva avvertito che il ritorno del dialetto “è una piccola trovata che non ha riscontro nella realtà”. Non lasciatevi ingannare – raccomandava lo scrittore friulano – da cinema, farse e canzonette che sembrerebbero riscoprire il nostro patrimonio folcloristico. Tutto ciò “è un fatto irrilevante: riguarda la sovrastruttura, non la struttura della società. Il dialetto e il mondo che lo esprimeva non esistono più”.
Lasciamo dunque perdere l’insegnamento a scuola dei dialetti. Operazione peraltro impossibile se pensiamo alle molteplici varietà espressive praticate in ogni idioma. I micronazionalismi, anche quelli linguistici, sono fuori dal tempo. Badiamo, piuttosto, a usare bene una lingua condivisa, senza magari dimenticare (praticandolo nei luoghi e nei contesti che ci sono familiari) il parlato dei nonni, che, state certi, domani (con noi e nonostante noi) potrà ancora trasformarsi “contaminandosi”, chissà, con quali altre parole del mondo.

23/11/09

Cannibali di parole. Parliamo ormai la ex-lingua di Dante



Già da tempo stanno suonando allarmi per la lingua italiana. Una lingua – ha detto recentemente Stefano Bartezzaghi – sempre più “scalza e scravattata”, fatta “di neologismi umoristici, di tormentoni e usi informali”. Nel migliore dei casi una lingua “di plastica”, “media”, ovvero mediocre e omogeneizzata, appunto, al linguaggio dei media. La preoccupazione di linguisti e persone di cultura ha trovato sponda anche nell’edizione 2010 del vocabolario Zingarelli, dove, accanto ai 1200 nuovi ingressi che spiegano cosa debba intendersi con termini del tipo “vipperia” o ginnastica “pump”, si segnalano almeno 2800 parole da salvare, poiché cadute in disuso. Insomma abbiamo parole-panda, a rischio di estinzione, come, ad esempio, “rorido”, “intrudere”, “ubbìa”, “armigero”. Il problema dunque – evidenziava tempo fa Paolo Foschini sul Corriere della Sera – è che a minacciare il nostro parlato non è solo la smania anglofona, ma anche una sorta di “cannibalismo interno” che va ad assassinare parole di cui, invece, potremmo avere ancora bisogno. Anche perché – argomentava ancora Giuseppe Antonelli sul domenicale del Sole 24 Ore del 25 ottobre – le parole desuete non si salvano limitandoci a repertoriarle in un dizionario, ma riproponendole in contesti di larga circolazione, fosse pure la canzonetta.
Dunque saremmo arrivati al punto che scriviamo e parliamo ormai la ex-lingua di Dante. A proposito di Dante e di crisi della lingua italiana, quel grande studioso e divulgatore della Commedia che è Vittorio Sermonti apparirebbe più tollerante di altri, sostenendo che gli anglismi (alcuni utili, altri ridicoli) che si praticano attualmente nella nostra lingua sono assai meno dei gallicismi che usa Dante. E a detta dell’insigne dantista la vitalità di una lingua si vede proprio dagli innesti che possono funzionare oppure no e, quindi, nel corso del tempo andare perduti. E’ del resto noto che nella sua sorprendente ricchezza il lessico della Commedia contenga molteplici elementi dialettali, nonché dei veri e propri neologismi creati da Dante. Alcuni di essi hanno avuto una tale fortuna da essere diventati patrimonio del linguaggio comune (fertile, gabbare, mesto, molesto, quisquilia, tetragono); così come espressioni quali “senza infamia e senza lode” o “il ben dell’intelletto”.
Per quanto ci riguarda continuiamo a restare stupiti dalla modernità, dal potere evocante contenuti nella lingua dantesca (indiscutibile sorgente della nostra comunicazione) al cui confronto quella di noi odierni parlanti risulta sì pratica, ma davvero modesta come la plastica.

16/11/09

Tra “gelo” e “siccità”. In scarne parole il dramma della vita


Stile e poetica di Romano Bilenchi hanno a più riprese impegnato la critica, poiché non è stato facile inquadrare quel percorso letterario che, fin dalle prime prove, esprime una narrativa prevalentemente introspettiva, dalla scrittura “semplice” e prosciugata. Una delle definizioni più efficaci si deve a Luigi Baldacci, quando identificò la chiave compositiva di Bilenchi in una “fiaba triste immersa in un quadro lontano di memoria e di mito” e dove è “protagonista assoluta la vita con le sue epifanie, intermittenze, attimi sospesi, stati di grazia”. La vita, appunto, con il prevalere delle cose prima ancora delle parole. E proprio per questo le parole saranno essenziali e controllate, sottoposte a una continua e assillante operazione di pulizia. Da ciò è deducibile anche l’eccentricità di Bilenchi rispetto a certa letteratura del Novecento dove, invece, si assisté a una incontrollata proliferazione linguistica.
Di nuda realtà parla Bilenchi, di drammatiche verità per le quali – annota Massimo Raffaeli – la pagina spoglia non è un vezzo formale, ma costituisce “una divisa morale e civile”. E’ dunque attraverso un dire votato alla povertà espressiva (ma quale lavorio lascia intendere un sì fatto sforzo di “privazioni”!) che si racconta il tormento esistenziale dell’uomo già tutto contenuto e anticipato nell’età adolescenziale. Si legga al proposito il trittico che va sotto il titolo de Gli anni impossibili per apprendere la lezione bilenchiana secondo cui siccità e gelo denudano le piante fino alla corteccia rendendole però più forti ai rigori delle stagioni. Così è per l’uomo, allorché la verde esuberanza degli anni giovanili scolora e rattrappisce nella crudezza della vita adulta. Scena del dramma è spesso la campagna senese e toscana con le sue ruvidezze e docili pieghe, come in Conservatorio di Santa Teresa, laddove il paesaggio va quasi a segnare per il piccolo e introverso protagonista una linea di confine tra costrizione e libertà: “Nei pomeriggi di bel tempo, quando prati e alberi soggiacevano all’immobilità dell’aria e occorreva sforzarsi a raccogliere da una direzione qualsiasi della campagna o dell’orizzonte uno stimolo per fantasticare perché la mente non si assopisse nella calma immensa, gli unici soccorsi venivano dalle crete”. Alla fine, però, la fantasia rimarrà delusa e disincantata. E’ questo il travaglio psicologico narrato insistentemente da Bilenchi: lo scontro dell’io con la realtà. E di tale perenne ostilità fa testo, ma senza isterismi di sorta, quella scrittura così nitida e intensa.

10/11/09

Volare si può. La letteratura che solleva dai fardelli del vivere


Torna la festa del libro per ragazzi (e non solo per loro) con l’evocante titolo di “Leggere è volare”: Ad ammiccare, appunto, che la pagina scritta può sollevarci dai fardelli e dalla fatica (dal male?) di vivere per trasportarci non fuori dal mondo, ma almeno un po’ al di sopra. Perché il linguaggio, il racconto delle cose e dei pensieri – insegnava Italo Calvino a proposito di leggerezza – “aleggia sopra le cose come una nube”. L’autore delle Lezioni americane citando Cervantes, Shakespeare, Cyrano de Bergerac, Leopardi ebbe proprio a evidenziare come autori così diversi avessero comunque nella loro scrittura la magia di una formula quasi sciamanica per la quale la parola si fa leggera e come tale "inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita". Questo è il potere della letteratura: un guizzo di ragione e sentimento per sfuggire l’inerzia e l’opacità del mondo.
Dunque un buon libro può risarcirci di tutte quelle privazioni a cui la pesantezza dell’esistenza ci costringe e offrirci una percezione diversa della vita stessa. Sempre nelle Lezioni americane Calvino scrive: “Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo”. Tra i due opposti – pesantezza e leggerezza – sta quindi la letteratura come mezzo di “levitazione”, ma anche di “puntamento” verso “il tutto”. Sarà ancora Calvino a sottolineare questo ulteriore aspetto con il suo Palomar, personaggio quasi ossessionato dallo scrutare ogni “piccolo” che è contenuto nel “grande”, perché per afferrare l’insieme non si può che partire da un piccolo punto. Ulteriore metafora calviniana per descrivere l’immensa fatica dell’uomo a “sostenere” la realtà.
Insomma leggere è volare e quindi conquistarsi un privilegiato (talvolta magico) “punto di vista” sulla realtà. Da ciò nasce il valore educativo della lettura. Lo aveva capito benissimo Jean-Jacques Rousseau, il quale, in quel capolavoro pedagogico che è l’Emilio, quando si pose il problema di insegnare a leggere al suo allievo immaginario, arguì che la questione prioritaria non era tanto il metodo da adottare, ma, paradossalmente, come far nascere l’amore per la lettura.
La letteratura, peraltro, non rappresenta soltanto il nesso tra pesantezza e levità del vivere. In essa sta lo sforzo di suturare tutti gli opposti del sentimento umano. E per tali ragioni dai libri più che notizie o storie si apprende (si comprende) l’essenza (l’anima) che davvero va a suscitare il racconto delle cose.

03/11/09

Paurose storie. Se stanno nei libri sono fuori da noi


Per non avere paura della paura bisogna farsi paura. E anche in tal caso i libri possono darci un certo aiuto. Se infatti le paure saranno in quelle pagine, significherà che non sono più dentro noi. Proprio in ragione di queste proiezioni psicologiche nacque, nel Settecento, un genere narrativo che approdò a una sua dignità letteraria con il gothic romance. Le paure individuali, ma anche quelle collettive legate all’irruenza dei mutamenti sociali, trovarono così una loro rappresentazione e una forma di simbolizzazione artistica. Eravamo nell’epoca dei Lumi, però (e probabilmente perché andavano sovvertendosi certezze credute fino allora indiscutibili) ci si volle ribaltare nelle cupezze del medioevo (da qui l’aggettivo di “gotico”) e in quelle penombre inscenare storie di amori impossibili, conflitti interiori, inquietanti fenomeni paranormali.
L’iniziatore di ciò che venne detto anche “romanzo pauroso” è considerato Horace Walpole con Il castello di Otranto (1764) e uno degli ultimi titoli del genere si deve invece a Bram Stoker, autore del celebre Dracula (1897). Nell’arco di un secolo – complice anche l’avvento del Romanticismo che non disdegnava affatto mistero, tenebre e sentimentalismi – si ebbe dunque una fiorente produzione “fantastica” che fra le sue opere più significative annovera Il vecchio barone inglese di Clara Reeve, Vathek scritto in francese da William Beckford. I misteri di Udolpho e L’italiano o il confessionale dei penitenti neri pubblicati da Ann Radcliffe, quindi Il monaco di Matthew Lewis. Finché, agli inizi dell’Ottocento, arrivano il Frankenstein di Mary Shelley, Il vampiro di John William Polidori, Melmoth l’errante di Charles Robert Maturin.
Una significativa svolta di questo genere si ebbe a metà Ottocento con Edgar Allan Poe, poiché finalmente si lasciarono perdere le sinistre stanze di castelli e monasteri neogotici o le stranezze di fenomeni sovrannaturali per scandagliare, invece, l’uomo, le profondità dell’io dove annidano paure e angosce. La narrativa anticipò insomma la psicanalisi ed ecco, oltre a Poe, Robert Louis Stevenson con Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde o ancora Arthur Conan Doyle, ritenuto il vero il fondatore del “fantastico”. Da qui scaturiranno in seguito i generi del noir, della fantascienza, dell’horror.
Quindi, poiché la paura è un’emozione che ci appartiene e che sta sospesa dentro di noi tra istinto ed elaborazione culturale, ben venga la lettura di storie paurose. Avvertiva Seneca: se volete non aver paura di nulla, dovete credere che tutto possa farvi paura.