29/10/12

Si fa così per dire. Parole, lingue, linguaggi

Ascoltare i discorsi delle persone vale una laurea in sociolinguistica. In quel teatrino del risaputo c’è, infatti, tutto un tesoretto che bene esemplifica l’uso parlato della lingua, le sue varianti a seconda dell’istruzione, delle geografie, delle estrazioni sociali dei parlanti. Sono, quelle, le parole declinate nella realtà, intercalate nella consuetudine. Quando, cioè, i dialoghi della gente palesano livelli di cultura, gerarchie, sudditanze psicologiche, rapporti interpersonali. Parole che, a differenza di quelle scritte, non richiedono grandi sforzi di progettazione e che – frequentando zone libere da dazi grammaticali e sintattici – possono avvalersi del beneficio di svarione. Parole dette de visu: poche, ripetitive, dimesse. Proprio in riscatto di tale modestia, chiedono al pronunciante lo sforzo della mimica, dell’intonazione, della prossemica, così che questi elementi vadano a costituire significati aggiuntivi alle parole stesse. Tale è, appunto, la ‘lingua viva’, esplicazione delle diverse connessioni tra lingua, società, cultura. In Italia è interessante notare come la lingua italiana, da lingua di pochi sia diventata gradualmente di tutti. Si è dunque assistito ad una standardizzazione dell’italiano, che, però, non ha soppiantato i dialetti (pur declassandoli da lingua primaria a secondaria). Permane, infatti, l’aspetto plurilingue del nostro Paese, con un italiano cosiddetto ‘regionale’, che ha inflessioni e contaminazioni dialettali e che testimonia una dinamica sociolinguistica sviluppatasi nell’arco di mezzo secolo. Sappiamo, poi, come esistano delle enclave linguistiche (e sociali) dove continua a prevalere il dialetto, così come, sempre a proposito di lingua parlata, non possono essere ignorati i gerghi di determinati ambienti (uno su tutti quello giovanile). E’ spesso da questi àmbiti che anche la lingua ‘ufficiale’ acquisisce continuamente neologismi. In ragione di tutto ciò, la lingua parlata ha contagiato anche quella letteraria, quasi facendo propria la lezione del rap (Rhythm And Poetry) che non è soltanto espressione ritmico-musicale, ma pure discorso verbale. Un modo paradossale per “recitar cantando” – ebbe a notare Edoardo Sanguineti – in cui è fondamentale la valenza del testo e il gioco verbale che esso consente. Un esempio, appunto, di impiego poetico del linguaggio quotidiano, una ibridazione che va a rompere con l’aulicità del “poetese”. Niente di scandaloso, dunque, se la scrittura letteraria (già la cultura beat lo aveva efficacemente sperimentato) si appropria di questo tipo di linguaggi che rappresentano la vita reale. Nel tempo in cui le lingue si mescolano, si fecondano, generano altre lingue e lingue ‘altre’, il parlare tra persone è quanto mai – oltre le parole – veicolo di socialità, di accoglienza o esclusione. E’ l’insistito rap (talvolta criptico e recriminatorio) che martella sul racconto di disagi, irrisolte contrapposizioni, orgogli feriti, spaesamenti, pensieri altrimenti indicibili. Allorché le parole sono fatti.

22/10/12

Il gioco delle cose. Ai nostri occhi di ragazzi

C’è chi ricorderà un gioco, probabilmente fatto nella propria infanzia. Quello di guardare fisso cose, persone, situazioni quotidiane; e sorridere per come esse risultassero improvvisamente buffe, fuori posto, assurde. Fa tornare alla mente questo gioco, l’ultimo romanzo (L’incontro) di Michela Murgia, scrittrice di una prosa eccezionalmente sobria ed esatta, nonché bravissima a rappresentare certi micro-universi e quanto in essi vive, ora sopito ora destato da chissà quali eventi. Ad esempio nei piccoli paesi della sua Sardegna, dove, in ragione di un forte senso di appartenenza (che al contempo esclude e include), tutte le azioni, ancorché di singoli, sono coniugate al plurale noi. Dicevamo di tale capacità che la Murgia possiede nel saper cogliere (anche con ironia) e rivelare come nuove le piccole cose. E non a caso, ne L’incontro, affida questo esercizio a dei ragazzini, allo sguardo con cui loro vedono e interpretano la realtà, fino al gioco di bambini-non più bambini con cui si conclude il racconto. La Murgia si è così inserita in quel filone letterario che, giusto utilizzando l’ottica infantile/adolescenziale, guarda il mondo degli adulti per evidenziarne i paradossi, le storture, o per supplire ad una lettura di quello stesso universo che i suoi protagonisti (gli adulti) non riescono a fare. Di recente, diversi scrittori hanno prodotto romanzi sul tema. Ricordiamo Alessandro Baricco con Emmaus; Niccolò Ammaniti con Io non ho paura e Io e te (in questi giorni va nelle sale il film che ne ha tratto Bernardo Bertolucci), ma il genere ha padri nobili. Potremmo cominciare da Il garofano rosso di Vittorini, proseguire con Agostino e La disubbidienza di Moravia, il fondamentale Sentiero dei nidi di ragno e Il barone rampante di Calvino, e ancora Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, L’isola di Arturo della Morante. Quindi giungere al trittico degli Anni difficili di Romano Bilenchi e, con lo scrittore toscano, scandagliare l’età più incompiuta e incerta dell’uomo, l’adolescenza (“il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa”, diceva Proust), che nell’invenzione narrativa del Novecento italiano è un archetipo, una fase simbolica primaria. Basti leggere proprio Bilenchi, per capire come il tormento esistenziale dell’uomo sia già tutto contenuto e anticipato nell’età adolescenziale. Dalla lezione bilenchiana si apprende, infatti, che siccità e gelo
denudano le piante fino alla corteccia, rendendole però più forti ai rigori delle stagioni. Così è per l’uomo, allorché la verde esuberanza degli anni giovanili scolora e rattrappisce nella crudezza della vita adulta. L’adolescenza è crisi, passaggio, incertezza. La condizione umana ha nell’adolescenza il suo vaticinio, il doloroso annuncio; una incompiutezza in cui, però, ogni cosa pre-accade. Peccato che, una volta adulti, si protenda a rimuovere ciò che, da ragazzi, ci ha formato alla vita e informato su di essa. Perché in quella sorta di preveggenza e di educazione sentimentale, tutto era spiegato. Forse tutto si era già compiuto.

15/10/12

Geografie umane. Se provinciale sta per universale

E’ ormai imminente la soppressione/accorpamento delle province. Scimmiottando i cugini francesi erano nate in Italia nel 1859 con il decreto Rattazzi; moriranno, di morte assistita, per decreto (altrimenti detto ‘salva Italia’) del ministro Patroni Griffi. E così sia. Ma le considerazioni da fare non riguardano tanto le ragioni del provvedimento, quanto i criteri ‘tecnici’ (numeri, linee, proporzioni da mera carta geografica) che lo hanno supportato. Quasi da dover dire che ad un governo di tecnici sarebbe opportuno affiancare anche qualche ‘umanista’. Nel caso delle province – giustappunto senza una cognizione ‘umanistica’ – si è praticamente confuso la terra con il territorio, la geografia con i luoghi. Ovvero non si è considerato che un territorio, prima ancora di essere una mappa, è una memoria collettiva, un’identità culturale, un’esperienza di vite. Le persone vivono e si spostano all’interno dei propri luoghi riconoscendovi anche uno spazio affettivo, emozionale, simbolico. Per chi abita un determinato posto, quella terra va ben oltre la sua fisicità: è paesaggio mentale, spirituale, parametro estetico, addirittura valoriale. Si capirà, allora, quanto sia improprio e banalizzante definire tutto ciò ‘campanilismo’. Esiste, infatti, un senso di appartenenza che solo certi mentecatti possono trasformare in chiusura o, peggio, in razzismo. Poiché la consapevolezza di una identità è il migliore passaporto per divenire cittadini del mondo in maniera serena e intelligente. Purtroppo l’attuale vicenda delle province – se non altro dal punto di vista metodologico – ha mostrato il misconoscimento di tali principî riconducibili a una cosiddetta ‘geografia umana’, spesso diversa da quella cartografica. Scriveva Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Probabilmente (ri)leggere un po’ di letteratura aiuterebbe pure a capire che i territori sono formati da secolari sedimenti di culture, di esistenze umane, di un qualcosa che non a caso viene chiamato ‘genius loci’. Si pensi alle Langhe descritte dallo stesso Pavese e da Fenoglio, alla Sardegna ancestrale raccontata da Salvatore Niffoi (ricorrente è il tema della memoria come simbiosi di vivi e di morti). E ancora le Crete senesi di Mario Luzi, dove gli anni “… Cercano / qui più che altrove il loro cibo, chiedono / di noi, di voi murati nella crosta / di questo corpo luminoso…”; o la Ferrara di Giorgio Bassani, reale nelle sue strade e palazzi ma anche simbolica di un modo di ‘essere’ (“Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta tutto per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi cadesse all’istante”). Ecco, non può esistere geografia che prescinda dalla ‘identità’ di un territorio. A meno che non voglia risultare… fuori luogo.

08/10/12

Rock poetry. Quando la poesia si fece elettrica

Quando in occasione del suo recente tour italiano, Patti Smith intonò in piazza del Campo a Siena i versi “Because the night belongs to lovers” (“Perché la notte appartiene agli amanti”), anche le sussiegose facciate dei palazzi sembrarono cedere all’emozione. La poetessa del rock aveva colpito ancora, ricordando l’esistenza di un rock poetry che – se non altro per la sua portata emotiva – risulta essere poesia. Fu, infatti, mezzo secolo fa, nel fervore culturale degli anni Sessanta, allorché il mondo pareva tutto da inventare, che pure la poesia (che con le rivoluzioni ha cose in comune più di quanto si pensi) divenne bandiera enfia di vento, ideali e tremori. Da parola di rango qual era, non disdegnò le parole ordinarie, le coniugazioni più diverse, come quella con la musica rock. Tra gli artisti che ne esaltarono il connubio, uno su tutti, Jim Morrison, colui che vaticinava: “Se la mia poesia cerca di arrivare a qualcosa, è liberare la gente dai modi limitati in cui vede e sente”. Era facile sentirsi in sintonia con lui, profeta trasgressivo, inquieto e fragile. Sdegnosamente ritirati nelle nostre camerette, lo ascoltavamo cantare con i Doors – bel mix di blues, psichedelia, jazz – e mentre mamma in cucina rigirava il ragù, leggevamo Ferlinghetti, Kerouak, Ginsberg, Rimbaud. Così organizzavamo la nostra rivoluzione, ma soprattutto il nostro diritto a sognare. Morrison riteneva la poesia la sua vera vocazione. La critica (quella letteraria) fu di un altro avviso: gradevoli le sue canzoni; modeste le poesie che tracimavano cultura classica, filosofia, esoterismo, suggestioni beat, psicanalisi. Alcune sono state pubblicate in Italia con il titolo di Tempesta elettrica. Di quei testi, Fernanda Pivano apprezzò le ragioni intime; dell’autore colse la “capacità di estasi”, il suo essere “affranto dalle miserie della vita”. In tema di rock poetry non va trascurata nemmeno la testimonianza artistica di David Bowie, il quale, senza vantarne la pretesa, ha talvolta ottenuto esiti che potrebbero dirsi letterari, grazie alla capacità di saper raffigurare il quotidiano mutuandone l’universo verbale. Indicativi i versi tratti da Black tie white noise: “Prendendo la mia realtà da una pubblicità della Benetton, / guardo cogli occhi d’un africano, / illuminato dal bagliore di un fuoco di Los Angeles”. Ma la vera svolta stilistica si ebbe con Morrissey, soprattutto nei testi scritti per gli Smiths, dove le parole non soffrono di eccessiva dipendenza dalla musica. Hand in glove
resta un efficace esempio di poesia che, pur pensata per una linea melodica, ha una autonoma valenza lirica che Morrissey volle, al contempo, “bruciante” e “giubilante”. Se poi qualcuno avesse legittimi dubbi su quanto tutto ciò possa definirsi Poesia, se la veda direttamente con gli autori. Il già citato Morrison sosteneva che “la vera poesia non dice niente, elenca solo delle possibilità, apre tutte le porte, e voi potete passare per quella che preferite”. Affermazione discutibile, ma molto rock.

01/10/12

Che lingua (non) parli. La perdita delle parole e del loro… senso

“Ciao cm va? bnbn tu? tutto bn, k fai? nnt di ke”. Non è la quarta grafia aggiuntasi improvvisamente alla ‘stele di Rosetta’, ma un messaggio odierno, secondo una pratica di scrittura in uso non solo tra ragazzi, ma pure tra manager d’azienda e persino da parte di qualche nonna che, dopo un catecumenato pazientemente condotto dai rampolli di famiglia, è divenuta (raro esempio di una fede che si trasmette dai più giovani agli anziani) correligionaria dell’elettronica e dell’on-line. Così, mentre i telefonini singultano, la Rete cinguetta, i colloquianti live balbettano con poco più di una diecina di parole, altrove si levano i lai di insegnanti, intellettuali, linguisti, che si preoccupano (talvolta si indignano) per come la lingua italiana venga deturpata e progressivamente impoverita. Questo, infatti, sta accadendo, a causa del fatto che si conoscono sempre meno parole e, peraltro, impiegate malissimo. Tempo fa il filologo Cesare Segre denunciava, ad esempio, l’appiattimento dei registri linguistici, evidenziando come nel parlare non ci sia più una differenziazione a seconda delle circostanze, degli interlocutori, dei ruoli. A tavola con gli amici o in un dibattito pubblico, il linguaggio è sempre lo stesso: risaputo, sloganistico, medio-basso. Persino la parolaccia ha perduto la sua efficacia semantica, in quanto adoperata di continuo e a sproposito. E’ il trionfo dell’ovvietà, anche lessicale. Assistiamo a trasmissioni televisive di vario genere in cui il conduttore parla per ore utilizzando un vocabolario limitatissimo, ripetitivo. Dal punto di vista linguistico siamo insomma davanti al cassonetto dell’… indifferenziato. Non manca chi interpreta questo decadimento in chiave socio-politica, deducendo che il clima da basso impero in cui ci troviamo, non può che indurre a parlare ‘basso’, in modo volgare e disadorno. La lingua è svilita perché si è degradato anche il pensiero, i costumi. La repubblica delle banane ha portato pure alla repubblica del banale. Probabilmente bisognerebbe promuovere una campagna di lingua ‘sensoriale’ (termine in auge) per far comprendere quanto sarebbe gratificante percepire (e usare) tutta la gamma espressiva delle parole. Magari con una ‘strategia di mercato’ incentrata sulla sinestesia
(parola in verità piuttosto astrusa) che significa, giustappunto, la contaminazione (fors’anche la goduria) che può trasmettersi da un senso all’altro: come quando solo a guardare l’immagine di un piatto di cacciucco ne avvertiamo anche il profumo. Ebbene, quando la sinestesia diviene linguistica (esiste davvero come figura retorica), si scatena il gioco delle parole ‘sensoriali’. Lo stesso gioco in ragione del quale, per Dante, “’l sol tace” o che per Ungaretti induceva a sentire/vedere un “urlo nero”. Potenza delle parole quando siano conosciute e si sappiano adoperare. Avanti, dunque, con un lessico ‘sensoriale’. Se non altro per riuscire a dire – nel miglior modo possibile – che noi e la lingua che parliamo siamo sempre vivi, che non abbiamo raggiunto la pace… dei sensi.