29/04/09

Caterina da Siena. Il fremito della fede diventato letteratura


L’esperienza mistica è di per sé “indicibile”, perciò per essere raccontata non può che servirsi di una lingua letteraria, di una forma, cioè, che si esprima per ellissi, metafore, prepotenti simbolismi. Basti leggere (tre nomi su tutti) gli scritti di Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Caterina da Siena. Personaggi che non a caso sono repertoriati nelle storie della letteratura per la loro abilità retorica, eleganza poetica, vigore descrittivo.
Della santa senese, ad esempio, colpisce l’armonia espressiva con cui, nelle Lettere, sa alternare la verticalità dello slancio spirituale con la “bassezza” del dire quotidiano. Questo doppio pedale della scrittura cateriniana venne evidenziato anche da Giacomo Devoto, il quale colse proprio il pregevole risultato letterario che si otteneva da quel periodare strategicamente alternato fra “alto” e “basso”, con accorti cambi di ritmo, con efficaci inserti di lingua “parlata”.
Si ricorda peraltro che pure quando il beato Raimondo da Capua decise di volgere in latino il Dialogo della Divina Provvidenza dovette precisare che “altissimo è lo stile di questo libro, sì che a mala pena trovasi maniera di parlar latino che possa corrispondere all’altezza di questo stile…”.
Certo è che tale qualità e unitarietà di forma sono dovute anche a quel gruppo di trascrittori, giovani intellettuali di cui Caterina si circondava, quali Jacopo del Pecora, Neri di Landoccio Pagliaresi (il sensibile poeta che alla morte della santa scrisse i versi: “Al cielo è tornata la sposa allo sposo, l’amorosa all’amoroso, e all’amante l’amata), Barduccio Canigiani che raccolse tutto il Dialogo della Divina Provvidenza.
Sorprendente è comunque la personalità di quella scrittura che si contraddistingue per rapidità, stratagemmi allocutori, forza di similitudini come quando nella lettera a Tuldo (il condannato a morte convertito da Caterina) ella scrive: “Volsesi come fa la sposa quando è giunta all’uscio dello sposo suo e volge l’occhio e il capo addietro inchinando chi l’à accompagnata e con l’atto dimostra segni di ringraziamento”. Dall’intensità di questa immagine che porta a sintesi il visibile e una più sfuggente situazione psicologica, scaturisce il fremito di una scrittura che è propria dei poeti e dei mistici. Entrambe (ma sovente sono la stessa persona) sanno portare le parole fino alla regione estrema del dicibile, laddove si giunge per dono di una grazia. Tale è infatti – per dirla ancora con Caterina – “l’attitudine dello scrivere… perocché le mani e la lingua s’accordano col cuore”.

20/04/09

Letteratura per ragazzi. Un mondo fantastico per sopravvivere a quello reale


Le conclusioni a cui era giunto Benedetto Croce non lasciavano margini di discussione: “L’arte per bambini non sarà mai vera arte”. Da ciò si spiega come mai la cosiddetta letteratura per l’infanzia, solo in epoca recente abbia avuto un opportuno recupero critico e dignità di materia universitaria. Oggi si può parlare a ragion veduta di quel genere erroneamente ritenuto “minore” per evidenziarne, invece, tutta la sua autonoma ricchezza, le complessità semantiche e sociologiche in esso contenute.
In Italia la nascita dei libri per ragazzi può essere fatta risalire a un’opera secentesca di Giovambattista Basile intitolata Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenimento de li peccerille, una raccolta di fiabe che, per quanto destinata all’infanzia, ebbe un prevalente pubblico di adulti forse in grado di apprezzare i barocchismi linguistici di cui era farcita. Oltralpe, diversi anni dopo (1699), Charles Perrault avrebbe scritto I racconti di mia madre l’oca, alcuni dei quali (come La bella addormentata) sono diventati famosissimi. Nel Settecento poi si intese passare dai principi azzurri al grigiore dei princìpi morali, facendo sì che anche le fiabe avessero una loro funzione educativa. Ma i ragazzi pure allora non si lasciarono buggerare e preferirono fantasticare sulle pagine di Robinson Crusoe e di Gulliver, due testi originariamente non rivolti all’infanzia, ma che incontrarono subito il gusto dei più piccoli.
Però sarà soprattutto la produzione ottocentesca a dare una svolta di qualità al genere. Avremo, infatti, Le avventure di Pinocchio (Collodi), Alice nel paese delle meraviglie (Carrol), Il libro della Jungla (Kipling). Per giungere alla metà del Novecento con una rinnovata cifra stilistica (meno retorica e più metaforica) quale può essere riscontrata nel magico e poetico Piccolo Principe (1943) di Antoine de Saint-Exupéry o nella trasfigurata (ma mai tradita) avventura che si sviluppa lungo Il sentiero dei nidi di ragno (1947) del giovane Italo Calvino.
In tempi a noi più prossimi giungerà quindi Gianni Rodari (grande apologeta dell’immaginazione) e i contemporanei successi commerciali della serie dei Piccoli brividi di Stine (quando l’horror si insinua fra i peluches) o della saga di Harry Potter dell’abile Bowling, che ha saputo ripassare in una appetitosa salsa certi elementi (fantastici, folclorici e favolistici) tipici dei racconti per l’infanzia.
Fra alterne pagine resiste dunque e fortunatamente un genere capace di raccontare l’esistenza di un mondo possibile e parallelo a quello “vero”: indispensabile l’uno per sopravvivere giustappunto all’altro.

14/04/09

I diari dei pellegrini. Se il viaggio non ha fine ma un intimo fine


Già in precedenza abbiamo accennato alla letteratura di viaggio, tralasciando però di parlare di quei testi che raccontano un particolare modo di “andare” e raggiungere luoghi. Alludiamo cioè al pellegrinaggio, a un muoversi lento e finalizzato, che intende far uscire dal tempo dei giorni ordinari per ricongiungere con il sacro o, tanto meno, con un rinnovato senso dell’esistenza. Del resto è proprio dall’idea dell’incedere che deriva la raffigurazione del cammino umano nell’ordine fisico, psichico, spirituale. C’è infatti una visione dinamica dell’uomo che appartiene alle più diverse correnti di pensieri: lo storicismo, l’evoluzionismo, l’esistenzialismo. Si cammina per “divenire” persone singole e umanità.
Quanto al peregrinus è questo un termine antico derivante dalla locuzione per agros, poiché definisce individui che percorrono, appunto, un territorio esterno alla città. Essi, infatti, sono estranei alle comunità con cui vengono in contatto, dunque stranieri e strani che vengono da lontano e vanno altrove. Ed è a questo loro sguardo “altro” sulle cose e sulle persone incontrate che si devono interessanti diari di viaggio come quelli dei pellegrini alla volta di Santiago di Compostela. Si cominciò nell’anno Mille con il Liber sancti Jacobi per arrivare – attraverso i diari del monaco Hermann Künig (XV secolo), Domenico Laffi (1666), Nicola Albani (1743) – fino alle recenti e fin troppo spiritualiste pagine di Paulo Coelho e Shirley Mac Laine.
Ciò che comunque si percepisce da tali scritti è che la scelta del pellegrinaggio pone il soggetto nella condizione di colui che non si trova ad essere ma a farsi straniero, assumendo di questa condizione tutti i rischi e le fatiche in vista di un vantaggio interiore.
I libri di viaggio dei pellegrini descrivono luoghi, tappe intermedie, una meta (una fine) e soprattutto un fine. Un po’ come in quel poetico Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini in cui Mario Luzi immagina il ritorno del pittore senese da Avignone a Siena. Un pellegrinaggio che ha come approdo una sorta di Siena/Gerusalemme e, dunque, il suo sofferto raggiungimento descritto in versi di grande tensione: “Ti perdo, ti rintraccio, / ti perdo ancora, mio luogo, / non arrivo a te”. Ma il pellegrino ha spirito tenace anche se la meta “vanisce / nel celeste / della sua distanza”, “si ritira nel suo nome, / s’interna nell’idea di sé, si brucia / nella propria essenza / e io con lei in equità, / perduto / alla sua e alla mia storia…”. Per concludere nell’imminenza del ricongiungimento: “Oh unica / suprema purità… Oh beatitudo”.

06/04/09

Letteratura di viaggio. Lontano da noi per trovare se stessi


Un grande viaggiatore quale fu Michel Eyquem de Montagne, a quanti gli domandassero il perché del suo viaggiare era solito rispondere che sapeva bene da quel che fuggiva ma non quello che cercava. Arguta sintesi che a suo modo spiega anche come il mito del viaggio costituisca uno dei nuclei più profondi attorno ai quali la cultura occidentale abbia narrato il senso della vita, la ricerca della verità e della salvezza di sé. Basterà ricordare l’Odissea, la Commedia dantesca, Il Milione di Marco Polo, il Robinson Crusoe di Daniel Defoe dove l’autore pone il problema della solitudine dell’uomo, tema che ritroveremo anche nel Viaggio sentimentale di Laurence Sterne che in Italia ebbe l’autorevole traduzione di Ugo Foscolo. E ancora le colte impressioni di viaggio annotate da Goethe, Byron, Stendhal. O per rifarsi a geografie immaginarie (ancorché verosimili nella loro forza metaforica) le splendide pagine de Le città invisibili di Italo Calvino Così come è da ritenere libro di viaggio l’Ulisse di Joyce che, per quanto circoscritto nell’ambito di una città (Dublino) rappresenta un errare per tutto il cosmo.
Certo è che quando in letteratura si adotta la metafora del viaggio, significa scatenare una contaminatio di sentimenti i più diversi. Distacco, spaesamento, esilio, perdita, solitudine. Ma non di meno, viaggiare significa stupore, divertimento, trasgressione, avventura, conoscenza, prova. E in tutto ciò, ricerca di se stessi, poiché per ritrovarsi è necessario perdersi. Insomma, per dirla con John Steinbeck, non sono le persone a fare i viaggi, ma i viaggi a fare le persone.
Come insegna proprio l’Ulisse di Joyce, costruiamo la nostra identità viaggiando e arricchendola delle diversità con cui entriamo in contatto, senza esserne distrutti ma, anzi, “edificati”. Da qui l’attualità di quel libro che può continuare ad essere preso come una educazione al viaggio e all’interpretazione del mondo. Le diverse personalità che il protagonista joyciano incontra significano, infatti, le culture e le storie dell’umanità. Il monologo interiore del Signor Bloom (drammatico, ironico, sentimentale) raccoglie frammenti di coscienza di noi tutti. Nel suo “flusso di coscienza” troviamo il pensiero umano quasi allo stato nascente, prima ancora, cioè, che subentri qualsiasi forma di pre/giudizio.
Ecco, pertanto, il senso del viaggio che andrebbe stipato in valigia a ogni nostra partenza. Quando siamo a preoccuparci di quale vestiti portarci dietro, dimenticando che gli abiti da scegliere con cura sono quelli che indosserà la mente.