28/05/12

Contro le mafie. Chi ha paura muore ogni giorno

In un’intervista a Raitre, Giovanni Falcone ebbe a dire che “la mafia non è invincibile. E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e quindi una fine”. Aggiunse che si tratta di un fenomeno molto serio al quale si risponde impegnando le istituzioni. A proposito del coraggio in questo impegno, il suo amico e collega Paolo Borsellino si spinse ad affermare che “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Purtroppo la seconda ipotesi accomunò entrambe in un tragico destino. La mafia è dunque un fatto umano. Aberrante e complesso, fitto di intrecci e collusioni. Il suo racconto ha contribuito, talvolta, a farne un mito sbagliato che trova radici nella visione romantica, aureolata del mafioso. Dal punto di vista letterario tutto cominciò nel 1863 con la commedia I mafiosi de le Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Eccovi tracciato il paradigma letterario della mafia: anti-borbonica, disposta a venire a patti con la classe dirigente; associazione criminale ‘a fin di bene’, perché essa è contro il potere e dalla parte del popolo. Ammicca a questa idea persino Luigi Pirandello con La lega, novella il cui protagonista impone una tassa ai proprietari terrieri per integrare la misera paga dei contadini. Una associazione segreta, nata a difesa dei deboli e della giustizia appare inoltre nel romanzo d’appendice I Beati Paoli, pubblicato a puntate tra il 1909 e il 1910 sul “Giornale di Sicilia” e dovuto alla penna di William Galte (pseudonimo di Luigi Natoli). Mafiosi, insomma, a guisa di provvidenziali Robin Hood. Si produsse in tale filone anche Giovanni Alfredo Cesareo, autore nel 1921 della commedia La mafia, che con efficacia drammaturgica e introspezione psicologica rappresentò, appunto, tutti gli stereotipi di una mafia erogatrice di giustizia. Nella vicenda di Cesareo trionfa la violenza ‘giusta’ di un avvocato mafioso sulle ‘ingiuste’ tesi di un aristocratico che sosteneva la legalità dello Stato. Ed è ancora da ascrivere a questo genere il romanzo Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore, edito nel 1952 (il titolo allude ai sette giorni e mezzo (16-22 settembre 1866) che videro Palermo teatro di sollevazioni popolari. In epoca più recente è noto l’impegno anti-mafia di Leonardo Sciascia, che al tema dedicò diversi romanzi. Eppure in certe sue pagine (si prenda Il giorno della civetta
) anche lo scrittore siciliano ha qualche cedimento di ‘ammirazione’ verso il personaggio mafioso, come quando fa dire al capitano Bellodi che il padrino don Mariano Arena è nonostante tutto ‘un uomo’, quindi al primo posto di quella graduatoria che vede in testa “gli uomini, poi i mezzuomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaracquà”. D’altra parte – avvertì in proposito Andrea Camilleri – il romanziere fantastica, travisa, si invaghisce dei propri personaggi. Meglio che a raccontare la mafia (le sue trasformazioni, le sue atrocità) siano gli storici e i sociologi. Affinché si sappia che i mafiosi sono dei criminali senza attenuanti. Oggi, peraltro, sanno leggere e scrivere. E delle parole hanno paura.

21/05/12

Di che sperare. Se i giovani crescono a pane e cultura

L’ultimo Salone del Libro di Torino si è chiuso con un bilancio positivo. Un 5 per cento in più di visitatori, vendite di libri in aumento, un pienone di giovani (e non si parla delle solite scolaresche in libera uscita). Soprattutto quest’ultimo dato offre di che sperare. Numerosi ragazzi hanno sostato negli stand del Lingotto, sfogliato, annusato e acquistato libri di carta, naturalmente privilegiando le edizioni economiche. Hanno tralasciato quasi del tutto il luccichio degli e-reader che per loro, abituati a vivere le giornate in perenne touche screen, non rappresentano niente di eccezionale (la fregola del libro digitale la lasciano ai genitori). Lo scrittore e magistrato Gianfranco Carofiglio definisce questi ragazzi ‘lettori consapevoli’, li ha trovati preparati, curiosi, perfettamente ‘sulla palla’ (tanto per usare una metafora calcistica). Dunque le nuove generazioni leggono. E ne dà conferma anche Tullio De Mauro, che bada a ricordare quanto molto più ignoranti siano i genitori e i nonni di quegli stessi ragazzi. Visti i tempi, c’è insomma da essere soddisfatti se è vero che sta crescendo una generazione di persone che ritiene la cultura un genere di prima necessità. Pensava diversamente l’ex ministro Giulio Tremonti (persona simpaticissima ai più) quando ironizzò suggerendo di provare a mozzicare un inconsistente panino imbottito di cultura. Ma noi non siamo del suo partito (in tutti i sensi). Ci siamo lasciati suggestionare da quel fessacchiotto di Aristotele e dalle sue balzane considerazioni, del tipo che “gli uomini colti sono superiori agli incolti nella stessa misura in cui i vivi sono superiori ai morti”. O peggio ancora – per il rubicondo ghignetto dell’ex ministro Giulio e per quanti condividono le sue opinioni – fummo abbindolati da personaggi equivoci della risma di Antonio Gramsci (bene fecero a metterlo in galera) che considerava la cultura una disciplina del proprio io interiore, una presa di possesso della propria personalità, la conquista di una coscienza per rendersi consapevoli della storia, dell’impegno nella società, dei diritti e dei doveri di ciascuno. Prescindendo dalle ottuse teste di certi ragionieri di Stato, avere giovani – domani adulti, classe dirigente – di sana e robusta cultura (che ovviamente non consiste soltanto nel leggere libri) sarebbe un investimento di non poco conto: per rifondare la politica, la società, un’economia e un vivere (avremmo detto un tempo) a misura d’uomo. Al punto in cui siamo arrivati c’è veramente da rielaborare una visione del mondo, ripristinare ragioni di senso, ritrovare sentimenti e capacità per esprimerli. Ebbene, sembrerà strano, ma per dirsi persone concrete (di una concretezza lungimirante, a servizio del progresso e del bene comune) è necessario ‘informare’ scelte e progetti al sapere della storia e dell’esperienza umana. Occorre conoscere nel profondo la condizione dell’uomo, le molte narrazioni che ne hanno scandagliato drammi, fasti, incongruenze, bellezza e fatuità. A questo servono i panini imbottiti di cultura.

14/05/12

La stagione del digitale. Primavera o autunno?

I dati sulla vendita dei libri nel primo trimestre 2012 sono preoccupanti. Si calcola, complessivamente, un calo del 10 per cento di copie con dei picchi negativi come il 17 per cento nella saggistica. Un po’ meglio la fiction che registra soltanto un meno 7. I cosiddetti lettori forti (quelli che leggono almeno un libro al mese) nel giro di un anno sono calati dal 15,1 al 13,8. A fronte di questi numeri che rendono mesti i conti degli editori e dei librai, fa invece clamore, su scala globale, la cifra che può vantare Amazon – la libreria on line nata nel 1995, leader dell’e-commerce e pioniera dell’editoria digitale – il cui titolo in borsa è cresciuto del 397 per cento, tanto da far stare il suo fondatore, Jeff Bezos, tra i 30 uomini più ricchi del mondo. Ecco la sintesi di una crisi e la foto utile per interrogarsi sul futuro del libro. Non a caso la venticinquesima edizione del Salone del Libro di Torino ha posto al centro dei dibattiti il tema della “Primavera digitale”, che non significa soltanto il trasferimento della parola scritta dalla carta al web (con il temuto dominio di quest’ultimo) ma capire, in termini culturali e sociali, quale valore aggiunto possa fornire il digitale, quali nuove opportunità offra ad autori e editori. Non sono cose di poco conto e il dibattito è quanto mai vivace. Lo hanno dimostrato due figure di spicco dell’editoria europea: Stuart Proffit, direttore editoriale della britannica Penguin ed Èric Vigne, direttore della saggistica della mitica casa francese Gallimard. Due prestigiosi marchi editoriali, due culture di notevole tradizione, due visioni antagoniste. Da un lato la Penguin che, in ragione del business e di una mentalità economica liberista, ammicca positivamente alle trasformazioni in atto. Sul fronte opposto la stizza dei francesi gallimardiani che ritengono come le logiche emergenti vadano a discapito della qualità dei libri. Eric Vigne si domanda, ad esempio, come la grande letteratura e i testi ‘di pensiero’ potranno essere adattati ai formati delle nuove tecnologie. Ed arriva a ironizzare su quando la Recherche sarà ridotta a una sorta di tweet di Marcel Proust, del tipo: “Questa sera sono andato a letto tardi”. Cambierà, dunque, l’oggetto-libro diventando ipertesto, strumento multimediale? Qualcuno cita in proposito la profezia di Italo Calvino che aveva prefigurato un’opera che si sarebbe prodotta al contatto dell’occhio che legge. Insomma: cibernetica e fantasmi. Altri si stanno chiedendo quanto il web stia modificando proprio la parola, il nostro modo di relazionarsi con la lingua, sempre più contenuta in forma brevi, veloci, sommarie. O in che modo la rete stia cambiando le nostre menti, la memoria, l’idea di privacy, la visione della vera realtà continuamente confusa con realtà fasulle. E’ appunto la primavera digitale che sta impollinando l’universo mondo con l’esuberanza delle sue fioriture. Stagione affascinante perché foriera di novità. Comunque problematica, soprattutto per chi soffra di allergie.

07/05/12

In forme umane. Quando la realtà “prende corpo”

Lo scultore Antony Gormley ha idee suggestive sul corpo umano e su come esso si rapporti con lo spazio in generale. L’artista inglese fa continui calchi del proprio corpo, ne ricava dei ‘vuoti’, così che – egli dice – riesce a “scolpire dall’interno, da una posizione radicale di alterità, per considerare non il corpo che fa qualcosa ma che è qualcosa”. E così ottenere non più la rappresentazione del corpo umano, ma la sua ‘riflessività’. Niente di nuovo – qualcuno potrà obbiettare – anche perché la rappresentazione (esteriore e interiore) del corpo ha da sempre trovato nelle arti le più diverse modalità espressive, rendendo dell’entità corporea le concezioni ideologiche, la sua portata dualistica (parliamo del pensiero occidentale) materiale e spirituale. Questo è accaduto anche in letteratura che, rispetto alla scultura, non può utilizzare la rappresentazione plastica della materia, ma affidare solo alla parola il movimento del corpo, le sue reazioni interiori. Un atto fisico diventa così pensiero, scandaglio intimo. In letteratura, infatti, non esiste descrizione del corpo che non sia pure un’idea. E in proposito, variegate e plausibili sono le tesi. Da Friedrich Schiller che, nel pieno dell’ubriacatura romantica, badava a dire che è lo spirito a costruire il corpo, all’anticonvenzionale Frank Wedeking il quale ribatteva sostenendo come sia la carne ad avere uno spirito, a Samuel Beckett che intese ricomporre il diverbio con approccio esistenzialista: il corpo ha il suo magazzino, lo spirito i suoi tesori. Comunque sia, in letteratura, dietro a un corpo c’è sempre l’affermazione di una visione della vita. Si pensi all’idea di forza naturale e di bellezza contenuta nell’antica letteratura greca che andava a impersonarsi nella figura dell’eroe (uomo e quasi-dio), nell’esaltazione mitica del corpo, sia esso trionfante (Achille), abbattuto (Ettore), razionale (Ulisse). Oppure a quanto la parola letteraria abbia indugiato sul corpo quale luogo del piacere e dell’erotismo: dall'Antologia Palatina a Ovidio alla poesia amorosa dell'età umanistica, dall'Aretino ai libertini e a Casanova, da Lawrence a Miller a Bataille. E ancora l’oltranza di De Sade, l’esercizio retorico-immaginifico del nostro D’Annunzio, l’allegra pornografia di Apollinaire o le sconcezze di Bukowski. E’ chiaro che con il Novecento (con la psicoanalisi, i saperi scientifici) la nozione di corpo andrà ad assumere un nuovo carattere culturale, concettuale, simbolico. Anche il corpo ‘letterario’ acquisterà una sempre maggiore soggettività. Viene in mente il testo poetico di Andrea Zanzotto Esistere psichicamente
(1956), splendidamente giocato in una compenetrazione di corpo e psiche, di parola e di fisicità: “Da questa artificiosa terra-carne / esili acuminati sensi / e sussulti e silenzi, / da questa bava di vicende […] da tutto questo che non è nulla / ed è tutto ciò ch’io sono […]”. Potremmo dunque concludere che, almeno in letteratura, il corpo è diventato l’uomo stesso, fisicamente presente come portatore di idee, come ‘corpo’ della realtà. La fisicità si è fatta parola, e viceversa.