20/06/11

Librerie. Le botteghe dei miracoli


Coloro che amano i libri vanno a cercarli in qualsiasi parte del mondo. Da questo punto di vista i bibliofili non soffrono di jet lag. Sbarcano vispi ovunque e si incamminano verso quelle librerie che loro sanno, laddove il profumo di carta stampata è assai più di una fragranza: trattasi, infatti, di uno status symbol. Prendiamo ad esempio la parigina Shakespeare & Co, nel Quartiere Latino: piccola, polverosa e assiepata di libri, vi aleggiano ancora i fantasmi dei poeti beat americani che negli anni ’60 ebbero a frequentarla. O per restare in tema viene in mente la City Lights di San Francisco, in cui nacque proprio la beat generation con Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac e Allen Gisberg. Oppure l’immenso Strand Book Store di New York (18 miglia di scaffali in un edificio sorto nel 1928), vera mecca del libro usato, antico, raro, fuori stampa. Ma quanto a dimensioni (occupa un intero isolato di Portland), è Powell’s a vantare di essere la più grande libreria degli States. Per dare poi un vero sguardo british sul mondo è fondamentale, a Londra, varcare la soglia di The Travel Bookshop. Così come rappresenta un’immersione nell’universo culturale portoghese la Livraria Lello di Porto con il suo arredamento in stile neogotico, lo spettacolare ponte di legno (un ricamo sospeso) che collega uno scaffale all’altro.
In termini di storia e di fascino non sono comunque da meno certe antiche librerie italiane a Firenze, Roma, Milano, Torino. Una su tutte la triestina Libreria Antiquaria Umberto Saba sui cui scaffali d’epoca è possibile trovare le Poesie del grande poeta pubblicate nel 1911 o la prima edizione del Canzoniere stampata nel 1921. Racconta Saba che passando un giorno da via San Nicolò, avesse sbirciato oltre la porta l’allora gestore della libreria, commentando fra sé come fosse triste trascorrere una vita intera in quel buio antro. Il destino – o per meglio dire, la necessità – volle che, nel 1919, la libreria antiquaria venisse rilevata dallo stesso Saba. Il letterato-libraio ebbe a scrivere in seguito: “Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere con tranquilla innocenza il mondo meraviglioso. E, fra le altre cose, la mia oscura bottega di via San Nicolò 30 a Trieste; quella che, quando l’amava e passava volentieri fra le sue pareti le sue ore d’ozio, il mio amico Nello Stock chiamava, non senza qualche buona ragione, ‘la bottega dei miracoli’”.
Potremmo benissimo universalizzare quella ‘buona ragione’ per giungere alla conclusione che qualsiasi libreria contiene in sé lo stupore del mondo, il miracolo della conoscenza.

13/06/11

Fatti ad arte. Se il capolavoro è immortale


Anche l’arte festeggia i compleanni. In questi giorni è la volta della Maestà di Duccio di Buoninsegna. Sono trascorsi 700 anni esatti (9 giugno 1311) da quando la sfavillante ancona uscì dalla bottega del pittore per essere portata sull’altare maggiore del Duomo di Siena con un corteo che fu festa di popolo e di un’intera città. La Maestà è ritenuta a ragione il capolavoro di Duccio e una delle più significative testimonianze della pittura trecentesca. Opera di notevole modernità per il modo con cui seppe evolvere certi modelli figurativi (quali quelli di matrice fiorentina) verso un ulteriore realismo.
Constatare come il capolavoro duccesco continui, dopo sette secoli, a suscitare stupore e commozione, conferma nell’idea che l’arte è grande quando, attraverso il tempo – e pur essendo espressione di un determinato tempo – riesce a parlare (e ad emozionare) in ogni epoca. L’arte sopravvive dunque al suo artefice; testimonia una società, una cultura, una visione del mondo, ma ne va oltre. Certo è che non avrebbe senso, oggi, dipingere alla maniera di Duccio. Perché le forme artistiche si trasformano per rappresentare la società del momento o, in alcuni casi, per indicare come differenziarsi da quella stessa contingenza storica (che è poi un altro modo per rappresentarla). Però ogni qualvolta l’arte resiste alla storia mantenendo intatto nei secoli il suo messaggio emotivo, essa diviene “eterna” (e chiediamo scusa per l’aggettivo tanto solenne quanto logoro).
Perciò se la Nike di Samotracia, ormai fuori dalla società, dalle credenze e dalle forme estetiche del suo tempo lontanissimo, tutt’ora ci incanta, sta a dimostrare che i significati in essa compresi superano una forma non solo artistica ma anche sociale, per collocarsi, appunto, nel divenire del tempo.
E’ ovvio che quando noi definiamo “eterna” un’opera artistica non intendiamo illuderci sulla sua incorruttibilità materiale, ma alludiamo ad una immortalità che appartiene comunque al senso dell’arte. Solo il pensiero che l’Assunta del Tiziano possa andare distrutta turba le nostre sensibilità, pur tuttavia abbiamo la percezione che le “ragioni” che un giorno la crearono troverebbero nel tempo altre forme per manifestarsi come capolavoro. Per lo meno così è accaduto fino adesso.
Qui si fermano le nostre considerazioni rispetto a un tema che sappiamo complesso e molto dibattuto. Quanto poi a stabilire un giudizio di valore sull’arte contemporanea, valga per tutti la risposta dell’arguto e scontroso Gillo Dorfles: “glielo saprò dire domani”.

06/06/11

Paradosso necessario. Il dolore come conoscenza


L’assurdità più drammatica dell’esperienza umana è il dolore. Quel dolore paradossalmente ‘necessario’ per conoscere appieno le cose della vita. Giacomo Leopardi che molto ebbe da riflettere su questo tema, scrisse: “Da principio il mio forte era la fantasia. Non avevo ancora meditato intorno alle cose e della filosofia non avevo che un barlume. La mutazione totale mi inseguì dentro un anno – cioè il 1819 – dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la nuova infelicità in un modo assai più tenebroso. Cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sulle cose, a divenire filosofo di professione, da poeta ch’io era, a sentir l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla”. Ecco svelarsi la sofferenza come chiave di accesso all’apprendimento dell’esistere, alla profondità dell’anima (usiamo pure questo termine generico con cui si è soliti definire quanto dentro di noi avvertiamo – ànemos, ovvero soffio – che giustappunto come il vento è reale ma imprendibile). Eh già…, le cose della vita. Diceva Virgilio: “sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”, sono lacrime delle cose che toccano la mente dei mortali. Che poi non è cosa diversa da quanto affermerà Montale nel celebre “Spesso il male di vivere ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato”.
Se tale è l’esoso prezzo per accedere alla conoscenza, non significa certo che il male, quando possibile, non debba essere combattuto, evitato. curato. Bando, dunque, alle macerazioni romantiche e (altro paradosso che talvolta va ad insinuarsi nelle nostre esistenze) al ‘compiacimento’ del dolore. Dinanzi al male è bene essere razionali o come direbbe qualcuno intellettualmente onesti. Pertanto si sappia che gli analgesici (anche quelli intellettuali) non risolvono il problema ma possono attenuarlo; che ha poco senso creare cordoni sanitari e ghetti illudendosi che il male non entri mai in contatto con i legittimi piaceri; anzi, non conviene emarginare la sofferenza, è meglio che conviva e ‘socializzi’ con la vita normale. In definitiva giunse a queste conclusioni anche lo stesso Leopardi (leggasi La quiete dopo la tempesta) quando ci avverte su come “il duolo / spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto / che per mostro e miracolo talvolta / nasce d'affanno, è gran guadagno”. Insomma, il dolore è connaturale all’esistenza, tuttavia quel nostro piacere che per prodigio e per miracolo dal dolore talvolta nasce, è pur sempre un apprezzabile profitto.