09/08/10

Approdi: nel miraggio di Itaca


C’è quella di Odisseo, del tesoro, di Robinson Crusoe, di Arturo, del giorno prima, c’è quella che… non c’è. Tutto ciò in ragione di un mito alimentatosi attorno all’idea di isola che la tradizione letteraria occidentale ha, di volta in volta, eletto a “luogo” in cui risiede il sacro, l’utopia, il sogno; esperienza di prigionia o di liberante avventura; salvezza di naufraghi o studiato approdo per chi fosse in sdegnosa fuga dalla terraferma.
Qualche anno fa venne scoperto (?) quale potesse essere stata l’isola dove nel 1704 avrebbe riparato il marinaio scozzese Alexander Selkirk, alla cui vicenda si ispirò De Foe per il suo Robinson, inaugurando, a detta di alcuni critici, il romanzo d’avventura, se non, addirittura, il romanzo moderno in generale. Il naufrago Selkirk sarebbe dunque approdato su un atollo compreso nell’arcipelago Juan Fernandez che porta il nome di Agua Buena. Là furono rinvenuti oggetti (tra cui una coppia di compassi nautici) e resti di un fortunoso accampamento allestito da un europeo. La notizia non ci entusiasmò. L’isola descritta da De Foe è talmente “esatta” che ogni sua evidenza geografica risulterebbe… inverosimile. Si sappia, infatti, che le isole debbono essere necessariamente “cosa altra” da ciò che appaiono. Ma non solo. Come svela Umberto Eco con l’arguto gioco narrativo de L’isola del giorno prima – tra le isole e il nostro “stare” intercorre comunque un meridiano, e quindi una sfasatura temporale che ci rende diacronici rispetto ad esse. Al di qua o al di là dell’invisibile linea c’è, appunto, il giorno prima (la memoria) o il giorno dopo (l’utopia, la speranza). E ci siamo noi alle prese con tale difficile attracco.
Bello è, però, vivere proiettati verso un’isola. Del resto, ammoniva il poeta Kostantin Kavafis, “se per Itaca volgi il tuo viaggio / fa voti che ti sia lunga la via”; nel senso che il raggiungimento di quelle coste non può essere frettoloso, bensì preparato da vicende e conoscenze, da scali intermedi, fin quando non si diventi davvero “navigati”. Importante – suggerisce ancora il poeta greco – è che Itaca sia sempre nelle nostra mente (“La tua sorte ti segna a quell’approdo”). Vi giungeremo, così, ricchi di quanto abbiamo guadagnato in vita, senza aspettarsi che sia lei a darci ricchezze. Poiché “Itaca t’ha donato il bel viaggio. / Senza di lei non ti mettevi in via. / Nulla ha da darti più”. Sarà, allora, un approdo la cui sola beatitudine consisterà nel renderci consapevoli che abbiamo vissuto. E a quel momento risulterà chiaro cosa voglia dire “avere un’Itaca”.

02/08/10

Periferie: essere al mondo fuori dal mondo


Strana epoca la nostra, che ci fa vivere in un mondo fatto megalopoli, con il web a simulacro di illusoria democrazia, con/fusi in spazi fisici e mentali dove crescono smisurate periferie (in senso urbanistico e sociale) obbligandoci a ricercare di continuo un ipotetico “centro”. Perché come dice Marc Augé – antropologo e studioso di tutti i non-luoghi – parliamo di “periferie urbane” poiché “in questo modo si designa tutto il tessuto urbano, come se la circonferenza fosse ovunque e il centro da nessuna parte”.
Eh già…, la periferia. Che certamente non corrisponde più alle descrizioni che ne faceva Pasolini, ma che delle analisi di quelle pagine esprime ancora oggi una riaggiornata verità: “i nuovi valori sono quelli del superfluo, cosa che rende superflue, e dunque disperate, le vite”.
Mezzo secolo dopo sembra fare eco all’autore di Ragazzi di vita, un giovane ed emergente scrittore giapponese, Shimada Masahiko, il quale sostiene che la periferia è “un posto dove la storia cessa e il tempo e lo spazio perdono il loro significato”. Per uscirne, a detta di Masahico, esistono solo due strade: o il suicidio o la scrittura.
Conviene senz’altro la seconda ipotesi. Tant’è che le diverse periferie (le marginalità) del mondo, quel gran formicolio di gente che c’è ma non “esiste”, hanno ispirato anche una notevole letteratura. Come dimenticare, ad esempio, lo struggente romanzo di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, in cui centro e periferia, i luoghi interni ed esterni ad un universo di anti-protagonisti vanno a lambirsi. Non si fatica più di tanto a immaginare Eugenia, la bambina cieca della Ortese, camminare attraverso chissà quale periferia odierna fino a raggiungere un ottico del Centro, comperarsi gli agognati occhiali e “scoprire così la bellezza del mondo” che, invece, non le si rivelerà affatto come tale. Ma, anzi, desolante nei suoi rifiuti, orribile nelle rassegnate miserie degli uomini. Meglio, dunque, la miopia che genera immaginazione, desiderio, sogno, anziché vedere l’evidenza della disperazione.
Il problema della piccola Eugenia sussiste tutt’oggi, deborda in quell’enorme spazio in cui è ormai difficile definire il dentro e il fuori, i margini e il centro, la distanza e la prossimità, l’esclusione e l’appartenenza, l’identità e l’anonimato. A parafrasi di ciò che scriveva Pasolini verrebbe da domandarsi se esista e come, nelle periferie del mondo, “un’ansia di riscatto”, una “silenziosa volontà di rivoluzione”. Perché non si potrà, troppo a lungo, pensare che milioni di esseri umani siano al mondo restando fuori dal mondo.