24/02/14

Fenomenologia di Sanremo. Evasione, costume e tanti violini

Per coloro che amano la canzone, il pop, la musica leggera e quella pesante, quasi fossero, quei generi, kili da bilanciere (beh, oggi, anche l’anima ha da essere palestrata)…, il Festival di Sanremo risulta imperdibile. Magari perché l’infiorata kermesse rappresenta l’opposto della musica che veramente ci piace o, forse, perché stupisce quel dispendio di energie – bravi musicisti, luci e scenografie imponenti, autori grandi firme – finalizzato a così poco. Accade un po’ come quando ai matrimoni qualcuno si premura di informare gli invitati quanto sia costato il vestito della sposa (un’esagerazione!) mentre la poverina incede goffa e inadeguata nel suo tripudio di haute couture, e la mamma piange, e il babbo si rianima inspirando dopobarba. Quanto spreco! Del resto, in oltre sessant’anni, sulla fenomenologia di Sanremo hanno scritto più gli studiosi di costume che i critici musicali. Se andiamo a rileggere la cronaca del Festival stilata (e stilettata) da Umberto Eco per l’Espresso nel 1967 (anno del suicidio di Luigi Tenco) ci rendiamo conto che invariata è rimasta la ricetta di questo piatto nazional-popolare. L’insigne semiologo, quasi cinquant’anni fa, annotava che i fenomeni da segnalare erano due: l’arrivo della canzone di protesta e la vittoria di Claudio Villa. Si era insomma cercato di confezionare un prodotto che “funzionasse per il mercato della pace, senza dispiacere a quello delle rose”. Ironizzava Eco che, praticamente, “erano state messe le mutande di Bob Dylan a Nunzio Filogamo”. Ebbene, su tali ambigui scambi di intimo hanno sempre contato la manifestazione sanremese e i suoi protagonisti, fatto salvo chi ha avuto l’ardore di mostrare le mutande proprie, come fece Anna Oxa nel 1999 (alte le note della canzone, bassa la vita del pantalone, malizioso lo slip che appariva in pregiata passamaneria a decorare il coccige). Quanto alla musica va detto che da Sanremo si è sbozzolata una significativa parte della canzone italiana. A momenti è stato da quel palco che hanno mosso innovazione, qualità, epifanie artistiche. Meno negli ultimi tempi, allorché dal Teatro Ariston si prova – sempre con l’equivoco scambio di brache di cui sopra – a inseguire mode e tendenze musicali che hanno origine altrove. Ma pur con contraddizioni e futilità, il senso (o il non senso) di questo show (ché tale è diventato) fu (e continua a essere) bene sintetizzato da Gianni Borgna, quando intitolò il suo primo libro (1980) dedicato al Festival “La grande evasione. Storia del Festival di San Remo - 30 anni di costume italiano”. Evasione e costume, appunto. E tanti, tanti violini.

17/02/14

Ingannevoli amori. Barbablù fiaba senza fine

Si chiama Barbablù. Ha avuto il singolare privilegio di far designare col suo nome un complesso che, in psicologia, tratta di cattiveria, odio e frustrazioni: il complesso di Barbablù, appunto. Gli è stato dato, pertanto, l’onore del minchione, di un potente impotente, di un personaggio che, rosicato il proprio cervello, si fa predatore di psiche altrui. Sta recluso dentro una fiaba, che è, poi, quella che racconta ogni giorno a se stesso. Sogna di abitare in un castello (il suo immenso ego), di “amare” una donna non per ciò che essa è, ma per come la desidera lui, di “proteggerla” fino a diventare per lei insostituibile. Se, però, la sciocchina non si rende conto della fortuna che le è capitata nel trovare un uomo così forte e generoso, allora sono guai. Diventa nervoso, molto nervoso. Perché, di fatto, Barbablù è un debole, un incapace che vuole confinare la donna entro i propri limiti. Essendo egli de-ficiente di qualcosa, depriva l’altra, le sottrae il necessario che a lui serve per diventare qualcuno. In tal modo prova a sovvertire l’asimmetria che lo vede inferiore. Oggi Barbablù è prevalentemente un nobile decaduto. Non abita manieri (a parte il fortilizio fantasioso e perverso dell’egocentrismo); al massimo può permettersi la villetta, più spesso vive in case di condominio. Ma il problema, come sappiamo, non è legato allo status sociale, quanto psicologico. Il fiabesco ammazzafemmine è un tipo trasversale. Sa – talvolta con la buona fede dell’egoista inconsapevole – non farsi riconoscere. Agli occhi di una donna quella barba d’indaco scuro-scuro ha un indiscutibile fascino. Pure gli sbalzi di umore, certi sguardi sfuggenti, le smancerie che si alternano a manifesto disprezzo invogliano lei a conquistarselo. Se necessario a redimerlo. All’inizio pare persino una storia romantica, d’amore bello e impossibile. Finché le vicende vanno a scorticare corpo e anima. In letteratura c’è, a questo proposito, un esemplare romanzo di Henry James, “Ritratto di signora”, scritto oltre un secolo fa, ma incredibilmente attuale. La protagonista Isabel, da persona libera e anticonvenzionale, cade proprio nella rete da cui aveva voluto sempre sfuggire. Diviene preda docile dell’inganno. Sposa un uomo egocentrico, opportunista, senza scrupoli, che le rovinerà la vita. Quando Isabel appare, “alta e splendida”, vestita di velluto nero, incorniciata dal vano della porta, produce in chi la vede l’effetto di un “magnifico ritratto di signora”. Nessuno conosce quali sofferenze e solitudine nasconda il quadro tanto perfetto. E’ una storia di non-amore che ancora oggi trova replica negli inverni di molte esistenze.

10/02/14

In tema di bellezza. Il valore civile della musica

Un’appendice alle riflessioni che la scorsa settimana qui furono abbozzate in tema di educazione al bello mi è stata suggerita dal rivedere/ascoltare alcuni Dvd delle sinfonie beethoveniane dirette da Claudio Abbado. La regia-video talvolta indugia sugli spartiti dove sono annotate le architetture perfette di Ludwig, e viene da pensare che per quanto un musicista già possa ricavare piacere dalla muta lettura di quelle pagine, ben altra cosa accade quando la musica, dai propri segni, prende corpo sugli strumenti. Perché allora diviene comunicazione, condivisione. Lo sapeva benissimo Claudio Abbado, convinto assertore che “la musica contenga in sé una forza in grado di travalicare i suoi stessi confini” e di come in essa non ci sia soltanto un valore estetico, poiché “dalla sua bellezza intrinseca, in grado di comunicare universalmente, scaturisce un intenso valore etico”. Tale era il convincimento del Maestro da riflettersi anche nel suo modo di essere direttore d’orchestra, con quel gesto rattenuto, più intimo che esteriore, con interpretazioni sorvegliatissime a scanso di facili compiacimenti, con l’impegno del nitore che meglio svela la bellezza. Tutto ciò nella persuasione che il bello debba essere vissuto, trasmesso, rappresentato, e, non di meno, rispettato. Abbado riteneva che la musica fosse necessaria al vivere civile, in quanto basata sul valore imprescindibile dell’ascolto. “Dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo”, diceva Cervantes nel Don Chisciotte. Tanto da far pensare al Maestro che la musica possa davvero cambiare la vita, migliorarla, addirittura salvarla. Come nel caso del “Sistema orchestrale giovanile e infantile” del suo amico Josè Antonio Abreu, che in Venezuela, nell’arco di 35 anni, ha coinvolto oltre 2 milioni di ragazzi sottraendoli a violenza e droga. C’è dunque nell’arte un’insita educazione alla ‘bontà’ che Platone aveva indicato lungo l’asse di tre idee: il Vero, il Bene, il Bello. Tema, questo, ripreso recentemente da François Cheng, studioso di origine cinese, membro dell’Accademia di Francia, considerato il più acuto pensatore e mediatore tra cultura orientale e europea. Cheng invita a riflettere sul fatto che la bellezza richiede un incontro fra i suoi elementi costitutivi. Una relazione che riguarda più il modo di essere che l’apparenza. Non è così nella nostra società – lamenta l’accademico di Francia – dove la bellezza viene degradata a merce di scambio. Le meraviglie, ridotte alla dimensione del possesso, dell’inganno, dell’adulazione smarriscono il loro splendore, si sottraggono al nostro mondo. Orribile mondo, a quel momento.

03/02/14

Tempi moderni. Requiem per la bellezza

Il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino (La grande bellezza) è una cosiddetta antifrasi, allorché le parole vogliano far intendere il contrario di quanto affermino. Così grande bellezza sta per grande bruttezza, quella di un vuoto esistenziale, di personaggi negativi, di luoghi e situazioni desolanti. E la grande bruttezza fa tali anche le cose belle (nel caso specifico la città di Roma) o tantomeno le rende ‘invisibili’, irrilevanti. Tra le molte suggestioni della pellicola di Sorrentino – impietosa, talvolta sarcastica rappresentazione della società attuale – si coglie proprio questo nesso tra etica e estetica che nei nostri sconclusionati giorni procedono di pari passo verso lo sprofondo. Del resto la bellezza è diventata un lusso impraticabile pure dai ricchi, perché la sua frequentazione rischierebbe di affinare le sensibilità, i caratteri; di fornire un’educazione emotiva, sentimentale. Meno male che il pensiero prevalente, i bla-bla televisivi, i social network dissolvono nel loro nascere ogni parvenza di grazia, di significati estetici, di interiorità. Svolgono la loro giuliva mission per il degrado e la superficialità: di contenuti, linguaggi, modelli, forme, comportamenti. Provvidenzialmente vengono offerti stereotipi che nulla hanno a vedere con la sfera emozionale delle nostre storie personali e collettive. Vige peraltro l’assioma che con la cultura non si mangia. Pertanto per il bene dei nostri figli cerchiamo di tenerli alla larga da tutto ciò che potrebbe tentarli ad acquisire conoscenze, elaborazione critica, comportamenti attivi, un uso della lingua oltre gli standard reperibili a buon mercato. Rendiamoli immuni dal cogliere il senso vero degli esseri e delle cose. Resta il problema relativo al bello che già esiste: città, paesaggi, opere d’arte, letteratura, musica. Ovvero di come fare affinché certe magnificenze non siano percepite per ciò che sono. Quelle più deteriorabili stanno andando fortunatamente in rovina, quindi basterà non fare nulla. Per quelle che resistono ci stiamo organizzando in maniera tale che non prevarichino troppo il beato imbarbarimento. Venezia, ad esempio, va benissimo così, allestita come una disneyana scena per navi da crociera. Mentre per le bellezze più immateriali sarà sufficiente ignorarle, non trasmetterne memoria, non metterle in contatto (in rotta di collisione) con l’immaginario delle nuove generazioni. Facciamoli credere che questo banalissimo mondo è cominciato e finirà con loro. Priviamoli del bello, cosi che non abbiano la consapevolezza del brutto. Anzi, illudiamoli che questa sia la grande bellezza.