31/12/13

Racconti bonsai. Falso capodanno a Norbella Marittima

A Norbella Marittima il mare non c’era, ma lassù dalle colline, nei giorni d’aria limpida, lo si vedeva luccicare fin dentro l’ultimo cielo. E di guardare lontano tutti avevano bisogno in quel paese in cui la sala da ballo si chiamava Piccolo Mondo e che della sua Rocca teneva così vanto, da avervi rinchiuso, insieme alle memorie, pure il tempo presente. A Norbella viveva la famiglia Pavanti, proprietari, da generazioni, della storica orologeria che sulla piazza affacciava la porta in noce con maniglione d’ottone tirato a lucido. Dietro il banco la signora Bianca, nata Marcelli, apprezzata per i modi cortesi e i generosi décolleté. Nel retrobottega il signor Tarcisio, figura elegante, vestito di impeccabili gessati, catena d’oro e orologio da tasca appartenuto al nonno. Sempre chino sul tavolinetto da lavoro, con il monocolo a scrutare le minuscole meccaniche segnatempo, il signor Tarcisio pareva partecipe di un grande mistero: quello del tempo, giustappunto. Tanto erano connaturali i coniugi Pavanti al paesaggio umano del paese, quanto insignificante risultava la presenza del loro figlio Ludovico. Un ragazzo reso invisibile dalla sua timidezza, bravissimo nello studio, però – badava a dire la gente con rattenuta sentenza – troppo, troppo strano. Si era laureato a pieni voti in Filosofia con una tesi sull’idea di tempo in Henri Bergson. Colui che aveva scritto: “Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi”. Quasi una colta dissociazione, quella di Ludovico, dall’attività di famiglia, impegnata da oltre un secolo a fornire orologi, illusori strumenti di calcolo del tempo che – Bergson docet – non è affatto misurabile, poiché disomogenea è la sua durata interiore. Il tempo della scienza non è lo stesso della coscienza. Di questa verità il giovane Pavanti si era convinto già da bambino, allorché, per ore e ore solo in casa, aveva notato come certe giornate fossero interminabili, altre precipitosamente consegnate alla notte. Ma soprattutto da quella prima volta che con il naso schiacciato alla finestra di camera, si mise a fissare l’orologio della torre civica mormorando: fermati, fermati, ho detto fermati. E si accorse che le brunite lance restarono davvero immobili fino a suo nuovo comando. Ormai da vent’anni e ogni giorno, soprattutto nei momenti di inspiegabile contentezza, Ludovico praticava tale gioco in modalità e tempi variabili. Il prodigio non si limitava, peraltro, all’orologio della piazza. Perché quando lui voleva, una specie di bolla magnetica avvolgeva l’intero paese e tutti gli orologi si fermavano. Così che il tempo di Norbella era, a insaputa degli abitanti, molto indietro rispetto al resto del mondo. Le incongruenze tra calendario, meteorologia, cadenza delle stagioni si pensavano dovute alle indubbie peculiarità del luogo. Ad accorgersi che qualcosa non andava fu il maestro Germani, lui sì uomo di mondo (aveva insegnato a Pordenone, Vibo Valentia, Sulmona) che la sera di capodanno del 1955 ricevette una chiamata al posto telefonico pubblico da parte di un ex collega abruzzese, intenzionato a venirlo a trovare “per le imminenti vacanze di pasqua”. Fu chiaro, allora, che mentre in tutta Italia fervevano i preparativi per le processioni del Gesù-morto, a Norbella sballavano i fuochi d’artificio e ammaiavano la sala del Piccolo Mondo per la festa di fine d’anno. Boh… – andava rimuginando Germani mentre risaliva verso casa – e se mai fosse, di quale pasqua stiamo parlando? Dell’anno che a Norbella sta per finire o di quello venturo? Ma per l’amor di Dio, lasciamo perdere. Qua si vive bene così. Non solleviamo questioni che potrebbero rompere il sonnacchioso equilibrio di una comunità dove le dosi giuste (e a lento rilascio) di schiettezza, ipocrisia, bontà e perfidia fanno di questo posto l’accorta profilassi del mal di vivere. E poi – sobbalzò il maestro allungando il passo e volgendo i pensieri al suo privato – non scherziamo: è con il nuovo anno che la vedova Arrighi, in ragione di un luttuoso (scellerato) fioretto, avrebbe sciolto il suo voto di seconda verginità. Dunque, e a maggior ragione, meglio evitare problemi di calendarizzazione rispetto ai quali la fregola non avrebbe saputo darsi ulteriori proroghe. Sicuro delle proprie argomentazioni rincasò e cominciò anche lui a prepararsi per il veglione di fine d’anno. Quando il maestro Germani varcò la soglia del Piccolo Mondo la prima sensazione fu di una struggente compassione. Tutti sembravano felici o si impegnavano goffamente ad esserlo. L’orchestrina ci dava dentro. Si ballava, rideva, pomiciava. Si dicevano le scemenze di circostanza. Sorrideva persino Ludovico, il vero organizzatore del bislacco e diacronico capodanno. A lui era dovuta quella felicità quasi perfetta. Era lui il baro che sottraeva il tempo ai ricchi per darlo ai poveri. Qualche minuto prima della mezzanotte venne chiesto silenzio, così da poter sentire il primo battito dell’orologio di piazza, da sempre massima autorità a decretare che ora realmente fosse sotto il cielo di Norbella. Giunsero i rintocchi e saltarono i tappi dello spumante. Auguri auguri, braccia intrecciate nei brindisi, trattenuta commozione (chi non ha in cuor suo rimpianti?) allorché il valzer delle candele ci mise del suo. La festa proseguì sino a sfilacciarsi in sonno e noia. Sulla pista da ballo resistevano pochi ostinati. All’uscita la famiglia Pavanti incontrò il maestro Germani e percorsero un tratto di strada insieme. Giunti in piazza, nuovo scambio di auguri. “Che ora fai?” chiese il maestro a Ludovico. L’orologio della torre batté le 3. Com’era esatto il tempo a Norbella Marittima!

23/12/13

Al giorno d’oggi. No middle class no festa

Altri tempi quando il Natale era la gran festa del ceto medio. Con le tredicesime immolate sull’altare dei consumi, l’intima soddisfazione di potersi comportare da simil-ricchi (ignorando il fatto che i ricchi – in tal caso come i poveri – non sopportano le feste). Gli ingressi dei palazzi condominiali che profumavano (?) di capitone e gobbi in umido. Le villette a schiera che nelle notti dicembrine si accendevano e spegnevano, quasi a far marameo al mutuo-casa, quello sì, sempre acceso. E il presepe che andava fatto a prescindere. Se non altro per ricordare a se stessi che il Nazareno era un po’ uno di noi. Di condizioni modeste (babbo artigiano, mamma casalinga) aveva studiato, fatto carriera, dimostrato di essere un buon investitore (basti pensare alla moltiplicazione dei pani e dei pesci). Un tipo tosto il self-made man nato avventurosamente a Betlemme. Intelligente, attivissimo, bello-da-dio. Insomma, se lui ce l’aveva fatta, potevamo farcela pure noi. Altri tempi davvero. E ora che la classe media si è trovata a propria insaputa dissolta (perché dissolte sono le motivazioni economiche, politiche e sociali che le avevano dato ragion d’essere), sembra non avere più senso nemmeno il Natale. Svuotato il presepe dei piccoli borghesi, infoltito quello dei poveri (che però non hanno i mezzi per allestirlo), riposto quello dei ricchi (probabilmente in una banca svizzera). Su qualche portone continuano a lampeggiare tristi stelle comete, pur sapendo che i re magi marciano, ma in altre direzioni. Eh già: no middle class, no festa. Però la cosa è seria. Lo dice anche la televisione. Sere fa in uno degli ennesimi servizi giornalistici sulla crisi, si intervistavano gli abitanti di un condominio del ricco Nord. Dodici appartamenti, dodici famiglie. Nessuno di quei nuclei famigliari che fosse rimasto immune da licenziamenti, cassa integrazione, onerose mobilità. Si intravedevano gli interni di belle case, infissi di buona qualità che, ormai, non riescono a parare gli spifferi della depressione economica e psichica. Veniva in mente un romanzo di Piero Jahier (primi del Novecento) intitolato La famiglia povera, dove una madre rimasta sola con i figli lotta quotidianamente per mantenere il decoro borghese di un tempo. Ma la povertà ferisce socialmente, incrina gli affetti, vanifica i credi. Oggi gli ottimisti insistono a dire auguri. I realisti – quelli che pensavano alle feste come alla certificazione di un conquistato status – sostengono che anche il Natale era sovrastimato. E nelle case, nei centri commerciali si trasmette una cover che canta, anzi sospira, “quanta questa povertà”.

20/12/13

Racconti bonsai. La brutta notte di Babbo Natale

Sera del 24 dicembre. La mezzanotte era abbondantemente passata. Dentro le case il sonno aveva ormai giustiziato la frenesia dei bambini, riversi su divani e tappeti come in una strage degli innocenti allestita all’Ikea. Gli adulti stavano prosciugando l’aria di festa a suon di sbadigli. Resisteva tuttavia un’inquietudine, prima taciuta, poi sempre più manifesta, perché giunti a quell’ora nessuno e da alcuna parte aveva visto Babbo Natale. Scrutato dalle terrazze, chiesto ai metronotte, compulsato il web che, figuriamoci, rende noti i fatti prima ancora che accadano. Nulla. Cominciava a diffondersi nervosismo, ansia, delusione, rabbia. Insomma, tutti quei sentimenti che disturbano l’egoismo umano ogni qualvolta circostanze esterne gli sciupino la festa. Persino le luci degli addobbi rimandavano ombre torve. Aghi d’abete cadevano precoci, quasi a prefigurare la mestizia che con l’epifania tutte le feste porta via. Ad accorgersi per prima che certi balenii erano altra cosa dalle luminarie natalizie fu la donnina abitante al pianoterra del civico 147 di via Dalmazia, che appostata dietro la persiana del tinello non aspettava Babbo Natale, ma che, come ogni notte, voleva vedere la vicina scendere dalla macchina del ganzo. Le volanti della Polizia correvano verso Nord a sirene spente. E di lì a poco la notizia guizzò altrettanto veloce. Sulla provinciale della Quercia alcuni malviventi, con un furgone messo di traverso, avevano bloccato e rapinato Babbo Natale. Tristissima la scena che si presentò alle forze dell’ordine. La slitta vuota e rovesciata sulla neve, le renne strette l’una all’altra in uno scampanellio disordinato e lugubre. Del vecchio, però, nessuna traccia. Ucciso e nascosto il corpo nel bosco circostante? Sequestrato? Bella gatta da pelare per il Procuratore che già aveva prenotato il Capodanno in montagna. “Confido in lei e nella sua pervicacia” disse rivolgendosi al commissario di polizia. Il quale non mancò per lo meno di buon senso, organizzando subito un sopralluogo a casa della vittima. La luce di cucina era accesa. Babbo Natale, completamente fatto di sambuca, ronfava sulla poltrona con il televisore a tutto volume. Sopra il tavolo una lettera scritta di suo pugno e indirizzata a sé medesimo. Da Babbo Natale a Babbo Natale. Una lettera che svelava come la rapina fosse stata una ingenua messinscena da lui architettata non trovando il coraggio di ammettere la propria impossibilità a soddisfare le tante richieste che gli si facevano. Costretto a dare le dimissioni da se stesso e da una favola, supplicava perdono. Mai avrebbe pensato che non dover credere più a Babbo Natale comportasse un dolore così disperante.

09/12/13

Racconti bonsai. Storia di guerra e d’amore

Lei si chiamava Elisabeth Barrett, come la poetessa di cui aveva quasi ricalcato la vita. Anch’ella finita a Firenze per amore, sposando, però, un italiano che era stato giovane, ricco, e – in tal caso per tutta la vita – intelligente e ironico. Il conte Lorenzo Niccolucci Del Rio, che con quel titolo nobiliare ormai stinto dai dissesti finanziari di famiglia, quando si ruppe una spalla cadendo da cavallo, ai medici che premurosi gli chiedevano “conte, cos’è successo?”, aveva risposto: “conte … decaduto”. Fu un non-fascista della prima ora e un convinto antifascista della seconda. Pianse lacrime di sdegno e rabbia per il suo amico David Orefice, insigne biologo, che a causa delle leggi razziali dovette fuggire in America. Una bella coppia, si diceva di loro due. A Elisabeth piaceva passeggiare, spesso fino al Cimitero degli Inglesi per portare un fiore sulla tomba della sua omonima e della quale mandava a memoria i versi. Un gesto romantico che si interruppe solo con l’estate del 1940, allorché con il putiferio della guerra, lei e il marito videro bene di lasciare Firenze per trasferirsi nella casa di campagna. Da lì a qualche mese la sorella Fanny sarebbe morta nel devastante bombardamento di Coventry. Il fratello Henry entrerà a far parte del gruppo di crittografi che a Bletchley decodificavano i messaggi di Enigma. La vita di campagna aveva cadenze larghe, piacevolmente monotone, se non fosse stato per le notizie che si ascoltavano alla radio e che i due commentavano, l’una con l’orgoglio di avere il proprio paese dalla parte giusta, l’altro avvilito per un Italia succube a i’bbischero (così Lorenzo chiamò sempre Mussolini). Tre anni erano incredibilmente passati dentro un tempo sospeso, estraniante, che dava ai fatti del mondo distanza, assurdità, talvolta compassione. Finché la sera dell’8 settembre 1943, anche in quelle stanze risuonò la voce di Badoglio annunciante la capitolazione. Lorenzo scese in cantina a prendere un vino d’annata. Cenarono con redivivo brio e con la fregola di due ragazzi che non vedevano l’ora di finire a letto. Nella arrendevolezza del dopo amore, Lorenzo sfiorò una guancia di Elisabeth sibilandole in un orecchio: “Dio stramaledica le inglesi”. “Conte – replicò Elisabeth – si dia un contegno e non si faccia trovare in queste condizioni dalle truppe alleate”. Di buon mattino un raffazzonato mazzo di fiori di campo fu posto sulla toletta di my lady. Era accompagnato da alcuni versi di Elisabeth Barrett Browning: “Quando forti e diritte le nostre anime si stringono in silenzio … quale amaro torto può farci la terra per impedirci d’essere a lungo felici?”.

02/12/13

Burattini noi. Quella favola della metamorfosi

La cosa è nota. Quando al Collodi fu chiesto il perché di quel finale così moraleggiante di Pinocchio (“… e come ora sono contento di essere diventato un ragazzino per bene!”) egli disse che, sinceramente, non ricordava d’aver chiuso così il suo racconto. Pare, infatti, che il sentenzioso e apocrifo epilogo sia stato opera di Guido Biagi, anch’esso collaboratore del “Giornale per i bambini”, sulle cui pagine era uscita a puntate la Storia di un burattino. Perché la fantasiosa – per certi aspetti trasgressiva – favola non “poteva” terminare diversamente, in considerazione del fatto che a pubblicarla in volume era stata la Libreria Editrice Felice Paggi, “editore di libri tutti con la morale”. Dunque, Pinocchio apologo del bene e del male? Ma non solo. A 130 anni esatti dalla sua prima stampa sappiamo quante variegate esegesi siano state fatte del libro che, insieme a Bibbia e Corano, vanta il più alto numero di traduzioni nel mondo. Opera comunque complessa, che offre una pluralità di codici interpretativi, poiché, come ebbe a scrivere Benedetto Croce, “il legno, in cui è intagliato Pinocchio, è l’umanità, ed egli si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato; fantoccio: ma tutto spirituale”. Oggi l’interpretazione del capolavoro collodiano che più sembrerebbe rappresentare il nostro tempo – tempo della fluidità, del transitorio, della instabilità – potrebbe essere quella che vede in Pinocchio l’emblema della metamorfosi. Legname inerte, burattino, cane da guardia, ciuco, cibo per pescecani, bestia da soma, infine bambino. Insomma, un personaggio mutevole, provvisorio, interinale. Anche le sue figure di riferimento (Geppetto, la Fata, il Grillo) sono presenze alterne, appaiono e scompaiono. Quel ceppo d’albero – che tale non è più – ha (avrebbe) un’anima. Una coscienza inespressa, in divenire. Un’identità che si costruisce di fuga in fuga, ad ogni trasformazione somatica, ma soprattutto a ogni consapevolezza di sé. Lui è continuamente ‘altro’ da ciò che era. Quante peripezie, paradossi, drammi, spensieratezze per raggiungere un’identità! Per arrivare ad essere un umano a tutti gli effetti. E qui, di solito, si apre il dibattito. Allorché alcuni sostengono che Pinocchio muoia proprio nel momento in cui viene ‘normalizzato’, ascritto al consorzio degli umani. Del resto anche per noi non risulta affatto chiaro quando la nostra condizione di “burattini”, di esseri in divenire, pervenga (per scelta) al grado umano, ad una qualità morale, al riconoscimento di regole condivise. Per dirci pure noi contenti di essere diventati persone: per bene.