25/01/10

Anna Frank. Diario intimo di un dramma universale


Partiamo dalla cronaca. E’ recentemente deceduta in Olanda, all’età di 100 anni, Miep Gies, la donna che scoprì e conservò i diari di Anna Frank fino a quando ebbe modo di consegnarli al padre della ragazza. L’anziana signora era l’ultimo superstite del gruppo che tra il 1942 e il 1944 aveva aiutato a nascondere la famiglia Frank nella famosa casa di Amsterdam, poi divenuta museo. E’ di qualche giorno fa anche la notizia che un parlamentare leghista ha chiesto al ministro competente che venga scoraggiata nelle scuole la lettura della versione integrale del Diario di Anna Frank (gli alunni rischierebbero di averne turbamento) dove in una pagina l’adolescente Anna descrive il suo divenire donna. Se la prima notizia ci ha commosso, la seconda ci ha lasciati tantomeno disorientati per gli argomenti con cui possa sollevarsi una tale questione che bene ha interpretato Massimo Gramellini su La Stampa, rilevando come – non i bambini, ma alcuni adulti – siano così “incapaci di cogliere il senso complessivo di un evento o di un’opera, arrestandosi davanti al particolare ‘scabroso’ o semplicemente irrituale”. Insomma: o c’è malafede (e certi rigurgiti razzisti non costituiscono dei bei segnali) o si è davvero ottusi, arroccati in esistenze che non vogliono essere disturbate da ciò che “diversamente” andrebbe a interpellarle di brutto.
Se il Diario di Anna Frank inquieta non è, infatti, per le tenere scoperte che una ragazzina fa del proprio corpo, quanto per il dramma che, ingiustamente (perché a lei?), in quell’esserino andò ad annidarsi, ne invase sogni, coscienza, slanci. Le infamie della storia quali la Shoah, sono immani per la somma delle vittime, ma non di meno per come abbiano devastato ogni singola, piccola vita che vi si è trovata coinvolta. Leggiamo nel Talmud (splendida raccolta di dottrina e sapienza ebraica) che salvare un essere umano è salvare tutto il mondo (ricorderete questa frase che Spielberg pose in epigrafe al suo film Schindler's list). Per la stessa toccante ragione, chi annienta una persona distrugge l’intera umanità.
Quello scricciolo di donna che rispondeva al nome di Anna Frank, reclusa nell’asfittico universo di un nascondiglio, percepiva in lei “il mondo mutarsi lentamente in un deserto”, ascoltava impaurita “l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure”. Ciò nonostante guardava il cielo perché “tutto volgerà nuovamente al bene”. E in tale speranza voleva conservare intatti i suoi ideali per “un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”. Ebbene sì, meglio non turbare i bambini con queste parole sempre più disattese.

18/01/10

Libri e gastronomia. Una biblioteca servita à la carte


Il catalogo dei libri dedicati alla gastronomia è ormai vasto e… ghiotto. Altri tempi, insomma, da quando (era il 1891) Pellegrino Artusi cercava un editore che pubblicasse la sua raccolta di 790 ricette intitolata La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. Vani furono i tentativi di voler procacciare alla sua opera la dignità di un marchio editoriale, cosicché il grande chef di Forlimpopoli decise di stampare il manuale a suo spese. Il ricettario artusiano conquistò un crescente successo che a quel punto non sfuggì all’editore Bemporad, il quale, a seguire, ne pubblicherà molteplici edizioni.
Nel corso del tempo, cucina, letteratura e letterati hanno avuto infinite occasioni di incontro: giocose, libertine, colte, eleganti, popolari. Dal rinomato Pranzo di Babette (Karen Blixen) a quello di nozze descritto da Gustave Flaubert in Madame Bovary. Senza dimenticare gli asparagi e i gelati di Marcel Proust, la polenta di Carlo Goldoni, i piatti forti tanto graditi a Giacomo Casanova; e ancora il grande amore di D’Annunzio per il culatello di Parma, fino all’ode dedicata da Giuseppe Prezzolini alla bistecca alla fiorentina. Quanto allo stracotto, alla pasta con l’acciugata e alla pappa col pomodoro leggasi Il giornalino di Giamburrasca (Vamba). Addirittura attraverso le pagine inquiete di Federigo Tozzi (Con gli occhi chiusi) è possibile apprendere nei dettagli la primitiva ricetta dell’acquacotta. E’ invece dei giorni nostri il libro Afrodita. Racconti, ricette e altri afrodisiaci di Isabel Allende, con il quale (ma non è certo una novità) si intende gettare un ponte tra gola e lussuria.
Per non dire, inoltre, di tutta quella letteratura che del cibo ha approfondito gli aspetti sociali ed etno-antropologici. Gli studi di Mary Douglas sulle massaie inglesi e i loro piatti rispondenti a precise logiche culturali. Claude Lévi-Strauss che analizzando certi miti amerindiani ci ha rivelato le categorie universali del crudo, del cotto e del putrido. Le dinamiche sociali legate al cibo analizzate da Michel Foucault. Oppure Jack Goody che ha focalizzato la sua attenzione sui gusti e i saperi culinari quali mezzi attraverso cui rivendicare identità etniche e sociali.
Siamo sinceri. Oggi tutto il grande interesse riservato a cibo e gastronomia non prescinde da certe bulimie consumistiche e tic modaioli. Ma tant’è. Del resto proprio qualche tempo fa David Remnick, direttore del New Yorker, spiegando perché la rivista si occupi sistematicamente di arte culinaria, diceva: “Noi viaggiamo non soltanto con la nostra testa ma anche con lo stomaco”.

11/01/10

Cuori in viaggio. I sentimenti usano i mezzi pubblici


Tra le nostre letture giovanili non sarà certo mancato Carlo Cassola. Scrittore poco amato dalla critica che su di lui pronunciò giudizi piuttosto caustici, arrivando a definirlo (come fece Giorgio Bassani) una sorta di “Liala”: narratore, quindi, per parrucchiere e casalinghe piccolo borghesi. Fu detto romanziere la cui poetica risulta chiusa, minimale e volutamente a-storica, poiché anche laddove le vicende narrate si intreccino con le vicende collettive (è il caso de La ragazza di Bube) a prevalere sono sempre i destini individuali, l’elegia, la memoria. Non a caso Manlio Cancogni coniò per l’amico Cassola l’espressione “poetica del subliminare”. Così come altri hanno parlato di “metafisica del quotidiano”, alludendo al fatto che i personaggi cassoliani (gente comune e insignificante) agiscono e parlano (con parole modeste) nei ristretti spazi che solo un amaro destino li consente. Se bagliori di felicità si manifestano sono, appunto, fugaci. Se la vita esce dalla routine è per misurare solitudine, dolore, sorde disperazioni.
In siffatte pagine, contrassegnate da una “elementarità feriale”, emerge l’insistito racconto della realtà di provincia tutta compresa in un raggio di pochi chilometri (appena più lungo dello sbadiglio di una levataccia) quotidianamente percorso da treni e corriere (un romanzo porta il titolo di Ferrovia locale), usurati anch’essi dalla ripetitività della vita, rassegnati ad un tragitto tanto rassicurante quanto immodificabile. E’ insomma – si passi l’espressione – il “sentimento” del pendolarismo. Quella esperienza, cioè, che a quanti viaggiano con i mezzi di trasporto pubblico fa fisicamente sperimentare la condivisione di un vissuto spicciolo, di una “ovvietà” giornaliera e perfino di una con/passione verso la propria e altrui esistenza. Treni e corriere, dunque, con il loro carico di umanità, di taciute afflizioni, di ironie, di confidenze. Un “viaggiar lento” (talvolta disagiato) che rivisita di continuo paesaggi, storia e storie, epoche e trasformazioni sociali; che costeggia case e domestici squallori.
Ebbene, per tornare alle voraci letture di gioventù, confesso che quel microcosmo descritto da Cassola, odoroso di binari e di postali, non fu estraneo alla mia educazione sentimentale. Fui invaghito di Mara, e la ricordo perfettamente – epilogo di una storia – con lo sguardo fisso oltre il finestrino, mentre il pullman attraversava una brumosa Val d’Elsa. Appresi così che torpedoni e vagoni ferroviari trasportano con apparente distacco anche le pene della vita.