14/06/10

Nuova frontiera. Quando il sogno era americano


Ammettiamolo. Chi di noi non ha fantasticato di trovarsi, a sera, sulla sedia a dondolo in una di quelle verande del vecchio West affacciate sulla prateria. E da lì immaginare la frontiera, o, meglio, il suo mito romantico che nel segnare (e spostare di continuo) un “oltre” e un “al-di-qua”, stabiliva, così, confini identitari, di progresso e persino di felicità. Dunque, dondolarsi nel sogno (“sogno americano”, giustappunto) e, come accade negli sprofondi onirici, trovarsi, sincroni e affannati, in mezzo a mandrie, sceriffi, pellirossa, predicatori completamente bevuti che mentre tu sei alle prese, lacciolo dietro lacciolo, a conquistarti le nudità di una bella fanciulla, loro maledicono ogni forma di goduria con i versetti più tremendi dell’Apocalisse. E poi il treno, a spingere la pianura e il nuovo mondo; i fili del telegrafo a ronzare sull’imminenza di chissà quale notizia; i giornali che trasformano la vita in fatti.
Insomma, può essere capitato a chiunque (se non altro per contrappasso alla propria indole tranquilla e timorosa) di sentirsi un po’ cowboy, magari come Il Virginiano (1902) di Owen Wister. Personaggio di un romanzo (poi film) considerato l’iniziatore di un genere. Lui che sogna un’esistenza serena nella sua terra, insieme alla dolce e tenace Molly. Ma che dovrà fare i conti con persone prepotenti e senza scrupoli. Eh già, la lezione di vita del Virginiano ci piacque assai. Bella prova quella del mandriano che non si lascia incantare dalle mollezze della civilizzazione e resta caparbiamente attaccato alle proprie radici, ad un West che è una sorta di modello morale: rude ma puro. In otto mesi, il romanzo di Wister ebbe quattordici ristampe, a testimonianza che quel filone letterario rispondeva indubbiamente ai gusti del pubblico. Tant’è che sullo stesso modello wisteriano (e westerniano) nasceranno diversi autori. Tra questi un tale Pearl Zane Gray, destinato a diventare il più popolare narratore del genere. I suoi racconti alimentarono l’immaginazione di noi ragazzi fino a farci credere che il Far West fosse in assoluto “l’altrove” in cui rifugiare le nostre fantasie. E prendevamo sonno girati verso Ovest, quasi a propiziarne il suo notturno miraggio. Dalle pagine di Zane Gray (ricorderete Il cavallo selvaggio) imparammo tutta una geografia di terre e di sentimenti compresi in quella valle che tra le montagne e “il verde ondeggiante dell’altipiano immenso pareva pendere da un lato all’altro dell’orizzonte”. Prosa banale, direte. Ma tale è la lingua dei sogni: figuriamoci, poi, se sono americani.

07/06/10

Nel mito di Medea. La paura dell’estraneo


Sere fa, nelle soporifere e inconcludenti ore che condannano alla tele-visione, fui graziato (potremmo dire, doppiamente) dalla Medea cinematografica di Pier Paolo Pasolini (1970). E, dinanzi al magnetismo di Maria Callas, interprete di una Medea pienamente cosciente della sua tragedia, il telecomando non osò altre divagazioni.
Il racconto di Pasolini procede in modo didascalico, ma coglie bene il tema che va a riassumersi nella cupa, feroce, fragile, straziante figura di quella donna. Ovvero l’inconciliabile coesistenza di identità diverse, ma che sarebbero complementari ad un loro reciproco compimento. Dramma di oggi, dunque, quello di Medea: straniera in terra straniera, emblema della alterità/diversità, del confronto/scontro di civiltà. Lei, donna sapiente, disposta a tutto per amore verso il greco Giasone (vanesio e opportunista come tutti i maschi), diverrà vittima della "paura dell'estraneo" e, per vendetta, si trasformerà in accecata carnefice fino all’uccisione dei propri figli.
Il mito di Medea ha visto, nel tempo, svariate versioni letterarie. In epoca moderna è da ricordare quella di Franz Grillparzer (1821), che grazie ad una splendida traduzione in italiano di Claudio Magris (Marsilio, 1994) si mostra a noi in tutta la sua impressionante attualità. Basti citare il passo in cui Medea, infelice e discriminata esule, prevede anche per i figli, un futuro di emarginazione: “Avranno dei fratellastri che li copriranno di scherno, che si faranno beffe di loro e della loro madre, quella selvaggia della Colchide. Si adatteranno a fare i servi, a essere schiavi, oppure la rabbia e il livore roderanno loro il cuore e li renderanno malvagi, facendoli provare orrore di se stessi”.
Tanto è il male perpetrato nei confronti della “straniera”, da ridurla ad “estranea” anche verso se stessa. Sarà sconfitta e umiliata dall’astuta malvagità degli uomini, annientata nei suoi affetti, nella sua natura di madre; e, quindi, trasfigurata in furente omicida. Ma come avrà modo di dire lo stesso Magris, “nessuno è così vittima come chi viene straziato al punto di perdere la sua umanità”. E’ un po’ la tesi che perseguì pure Corrado Alvaro nel sua dramma Lunga notte di Medea (1949) dove la colpevolezza tende a spostarsi sull’estremismo discriminatorio dei Corinzi.
Incredibile è, comunque, come riecheggi dentro i secoli e ancora nei nostri giorni una tragedia tutta declinata al femminile. Un dramma (un atroce sogno) che vorremmo relegato agli àmbiti speculativi della psicoanalisi e dell’antropologia, ma – gli dèi ce ne guardino – non a quelli della storia.