24/09/12

Nello scompaginato universo. Uomo e natura: antagonisti e sodali

L’ultimo libro di Nada Malanima, La grande casa, è un intenso racconto – protagoniste tre donne speciali, tre inattese eroine, dice l’autrice – dove il dolore pare farsi antidoto al dolore stesso; e ancorché devastante, risulta pacato, silente, compenetrato nella natura. Una natura, però, imponderabile, colta spesso nelle sue manifestazioni più violente e ostili agli esseri umani (forse una furiosa ribellione ai soprusi che gli umani verso di essa perpetrano). Ecco, allora, terremoti di inaudita veemenza, piogge che sbriciolano montagne, eventi (in)naturali di una natura che da madre si fa matrigna. Qualcosa che, figurativamente, potrebbe richiamare i quadri del pittore norvegese Johan Christian Claussen Dahl, di cui è nota la predilezione per i potenti fenomeni atmosferici; o in ragione di certe implicazioni psicologiche, il Campo di grano con corvi di Van Gogh (da sempre piace pensare che sia stato l’ultimo dipinto dell’olandese prima del suicidio) nel quale gli impazziti percorsi dei corvi dentro il cielo cupo, annunciano l’inesorabile. Sono rappresentazioni di un universo scompaginato, che Shelley, in Ode al vento occidentale, osserva nelle “foglie morte … trascinate come spettri in fuga”. Oppure squarci (un Lampo, per dirla con il Pascoli) che rivelano la crudezza della realtà: “E cielo e terra si mostrò qual era: // la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto: / bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparì sparì d’un tratto; / come un occhio, che, largo, esterrefatto, / s’aprì si chiuse, nella notte nera”. E’ dunque vero che la natura è madre ambigua, capace di dolcezze e di irosi sussulti, di conforti e di malvagità, prodiga o egoista. Persino sconsiderata nei suoi doni, come quando di sole umilia uomini e cose: “Lassù brucia il sole tutto il giorno e la terra è calcina” – scriveva Pavese in Lavorare stanca – “La vetta è bruciata / e la sola freschezza è il respiro”. Secondo la teoria poetica di Eliot c’è poi la natura dei “correlativi oggettivi”, perché mostra cose che generano emozioni (tale è, appunto, la correlatività oggettiva). Concetto che Montale adottò nei versi degli Ossi di seppia: spoglie rinvenute su una spiaggia assolata ad evocare sensazioni di abbandono, disfacimento, morte. Il Montale che confida quanto spesso abbia “incontrato il male di vivere”, e quel male “era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato”. In questa sorta di antagonismo tra universo e umanità, esistono, tuttavia, alterne tregue. Un patto – è vero, talvolta disatteso – di reciproca comprensione (fors’anche di compassione) che dal punto di vista letterario trova sintesi nella leopardiana Ginestra
(“odorata ginestra, / contenta dei deserti”), cresciuta sugli inceneriti fianchi del Vesuvio. Lassù riesce a sopravvivere in virtù della sua tenacia. Al pari dell’essere umano, che quando della propria condizione è consapevole, diviene sodale dei suoi simili e dell’universo intero.

17/09/12

L’omino di paglia. Essere ciò che non sembra

Mai affrontare con i bambini discorsi filosofici. Troppo superiore, rispetto a noi adulti, è la loro capacità speculativa, l’elaborazione del paradosso. Ne ebbi prova, tempo fa, con una mia sagace nipotina, allorché argomentò che lo spaventapasseri del Mago di Oz possedeva già il cervello, altrimenti non avrebbe potuto dire di desiderarlo. Davvero faticoso fu dirimere la questione, peraltro non tralasciando l’ipotesi che gli spaventapasseri potessero essere persone vere. Ed è ovvio che venni convinto circa la natura umana dei simpatici fantocci. Nondimeno perché di noi uomini fanno le veci. Ficcati in terra a far paura, ma soprattutto a esorcizzare le paure nostre; ad ingraziare la natura, che dinanzi alla bizzarria di siffatti manichini accenni almeno un sorriso. Persino i passeri stanno al gioco. Fingono spavento e poco più in là banchettano giulivi tra le spighe. Vita comunque grama conduce l’uomo di paglia, che già nel 1612 il vocabolario dell’Accademia della Crusca chiamava “spaventacchio” o “spauracchio”, poco più di uno straccio “che si mette ne’ campi sopra una mazza; o in su gli alberi, per ispaventar gli uccelli”. Fin dalla nascita il poveretto dovette soffrire di complessi. Figurarsi, poi, quando apprese che la sua sagoma, messa a presidiare campi ed orti, era andata a sostituire quella del macho Priapo, le cui esagerazioni anatomiche bene si prestavano ad auspicare natura fertile ed abbondanti frutti. L’avvilente condizione dello spaventapasseri non sfuggì a Giovanni Pascoli, il quale al racconto lirico della vita agreste dedicò interi poemetti. Così che il poeta, osservando l’operazione della semina, riporta le sconsolate parole del contadino (“Il più del seme ai passeri lo gitto”) mentre (più per esorcismo che per convinzione sulla reale utilità) traffica a costruire “un uomo d’una cappa e d’un cappello”. Detto fatto. Appena il contadino, zappa in spalla, s’incammina verso il “tramonto dorato”, ecco arrivare i passeri (“Erano cento e cento…”). Poco o niente può fare il “poveruomo” che “ha l’ali, al volo è pronto; ma è confitto, e lo patulla [se ne prende gioco] il vento!”. Quel destino di impotenza e di esistenza cenciosa, quello stare “ritti là in mezzo, sventolando le … maniche vuote” (scrisse Natalia Ginzburg), smuove talvolta un sentimento di pietas, come testimonia anche Carlo Cassola nelle pagine de Il cacciatore: “Guardava lo spaventapasseri strapazzato dalla pioggia: le veniva fatto di compatirlo, come se fosse stato davvero un uomo”. Fino a significare, nel Montale di Satura, qualcosa di metafisico, perché “Il mio sogno non è nell’estate / nevrotica di falsi miraggi e lunazioni / di malaugurio, nel fantoccio nero / dello spaventapasseri…”. Oggi, nel tempo in cui sembrare e più importante che essere, gli spaventapasseri – ironici feticci, giocosi clown, simil-uomini o angeli burloni – sono, invece, ciò che non sembrano: al vento che soffia sulla fatuità dei giorni nostri, sono essi i veri uomini, noi il loro surrogato. Pure gli uccelli dei campi l’hanno inteso.