31/08/09

Cultura di sinistra, sinistra di cultura

Dagli sbrecciati muri entro cui, un tempo, si generavano idee politiche, giunge tutt’oggi qualche eco che va a smorzarsi poi nel risaputo quesito se la cultura sia necessariamente di sinistra. Alla domanda così mal posta non saprei dare risposte certe, ma non ho dubbi circa il fatto che esista una sinistra che ha prodotto e continua ad esprimere una grande cultura sulla quale si è formata una visione della storia e del mondo, una coscienza altruista, un’allertata intelligenza tesa a cogliere quanto nel presente costituisca premessa di futuro. Analoga ricchezza culturale si ritrova solo nel cristianesimo, e non a caso, lungo il tempo, questi due universi si sono spesso incrociati.
Di tutto ciò esiste, peraltro, una vasta raccolta di libri che ne testimoniano pensieri e sentimenti. Ultimo in ordine di tempo è, a suo modo, il romanzo Noi di Walter Veltroni che fin dal titolo allude alla pluralità, ai destini comuni, a come le vicende dei singoli trovino un senso all’interno della storia di tutti. Nella piccola saga famigliare descritta da Veltroni c’è, infatti, il respiro (le parole, gli oggetti, i gesti) di un microcosmo domestico che dilata, però, alle attese e alle speranze condivise dai molti. I ricordi personali vanno ad alimentare e trasmettere una memoria collettiva da cui ogni ipotesi di futuro non può prescindere; pena il rischio di sprofondare nelle sabbie mobili del contingente, come se, ogni volta, si dovessero reinventare di sana pianta i sentimenti dell’amore, della giustizia, del bene comune, del progresso, della godibilità del bello e dell’inconosciuto.
Altra cosa, insomma, da certo conservatorismo (di destra?) angusto, egoista, che conosce solo una lingua (un dialetto?) in cui non esistono termini per definire quel che si trovi al di là del raggio di un rigurgito postprandiale. Una desolante ignoranza che in questo caso non ha niente a che vedere con la quantità dei libri più o meno letti, ma piuttosto con la mancanza di consapevolezza del proprio e dell’altrui esistere. Una mendicità d’animo – spesso inversamente proporzionale all’agiatezza economica – che vive delle elemosine elargite dai luoghi comuni, da certo perbenismo, dal quel letale pieno di vuoto giornalmente somministrato dalla televisione.
Scriveva Elio Vittorini nel suo Diario in pubblico che “la cultura è la forza umana che scopre nel mondo le esigenze di un mutamento e ne dà coscienza al mondo”. Ecco, se tale è (come è) la cultura di sinistra, solo alla sua scuola si può apprendere l’indispensabile speranza per un tempo futuro.

03/08/09

Caro diario. Racconto in rete di se stessi


In principio fu il cosiddetto diario intimo. Un modo, cioè, per parlare a “qualcuno” di se stessi, della realtà vissuta e delle fantasie personali. Un escamotage per sopravvivere magari a qualche malessere esistenziale, per alimentare il Narciso che vive dentro ciascuno di noi o per arginare quel solipsismo al di qua di una ragionevole soglia oltre la quale esso diverrebbe patologia. Insomma una buona trovata per chiamare “tu” il proprio “io” e per nobilitare in forma letteraria quel finto dialogo. Al punto che alcuni di questi diari, in virtù dei loro estensori, sono poi diventati davvero letteratura. E’ il caso di titoli quali Il mestiere di vivere di Cesare Pavese (pagine – diceva il loro autore – poste a “difesa contro le offese della vita”), La tregua di Primo Levi, il noto e drammatico Diario di Anna Frank, o ancora Latinoamericana di Ernesto Che Guevara, Microservi di Douglas Copland, Buonanotte signor Lenin di Tiziano Terzani.
Scritti intimi, dunque, che una volta trapelati dalla segretezza dei cassetti (i titolari di quel riserbo, però, fin da subito ne auspicavano una fuoriuscita) sono diventati non più vicenda personale ma storia di molti.
Non ci è dato sapere quanto oggi continui ad essere in uso il diario (inteso come supporto cartaceo) cui affidare il racconto di sé. E’ tuttavia evidente l’incontenibile esercizio del parlare di se stessi attraverso pagine virtuali come quelle veicolate da blog e twitter. Definizioni che tradotte nella nostra lingua (“traccia su rete”, “cinguettii”) già indicano un bisogno di “esserci” e di comunicare. Ecco allora questi nuovi diari i cui autori non ricorrono nemmeno più al giochino del nascondimento (ti occulto sperando che qualcuno ti trovi), ma che intendono subito rivelarsi agli altri, perché invocando, attraverso la rete, una sorta di riconoscimento universale, sia forse più facile giungere all’accettazione di se stessi. Questa, però, è materia di psicologi. A noi interessa, piuttosto, il risvolto “letterario” del fenomeno, poiché tale modo di raccontarsi sta trasformando addirittura lessico e sintassi, finanche la grafia (quella a mano, quando ancora la si adoperi). Inoltre si sta quasi costituendo una forma di “pragmatismo” narrativo, attagliato, appunto, sul bla-bla delle cronache individuali e quindi tutto declinato al presente, quasi a voler negare la probabilità di un tempo storico, di un “prima” e “dopo” noi. Si intende così descrivere una contingenza egocentrica, frammentata e disperatamente effimera. E un dubbio sorge: che anche questo neo-minimalismo possa produrre comunque letteratura.