24/11/10

Lo specchio di Federigo. Il doloroso gioco del doppio


Con il trascorrere degli anni, più la critica letteraria approfondisce Federigo Tozzi, maggiormente si rivela la modernità di questo scrittore, davvero in anticipo sul suo tempo per come abbia saputo aprire il contesto provinciale a un respiro europeo, attraverso un singolare percorso che, come è noto, intreccia vita, scrittura, elementi di ricerca psicanalitica.
Ad ogni rilettura tozziana continua a meravigliare e quasi sconcerta quel suo raccontare “nulla” (dal punto di vista delle storie) a fronte, però, di uno scavo psicologico dei personaggi che divengono dei sorprendenti caratteri universali. Nel caso di Tozzi si è soliti parlare di autobiografia, ma forse comincia ad essere inadeguata anche tale definizione se la rapportiamo, appunto, a quella esplorazione che lambisce il subconscio e che va ben oltre la propria persona per farsi specchio di una realtà in cui l’io narrante si perde e si annulla. Dice bene Marco Marchi – uno dei critici tozziani più accreditati – quando parla della scrittura di “chi si guarda, scrivendo di sé e della propria vita, in uno specchio, diventando presto un’altra cosa: maschere, creature eventuali e inesistenti, insicure proiezioni di miti fatti persona”.
E’ giusto in questo specchio che va a proiettarsi la visionarietà di Tozzi confondendo memoria, immagini, fantasmi, complessi, ansie, frustrazioni. D’altra parte – scriveva Federigo in Due famiglie – “la realtà delle cose dipende dai nostri sentimenti”, e nello scrittore senese c’è un sentimento della realtà che dilata fino a raggiungere una dimensione universale.
Così l’io vive il dramma dello spaesamento, perde i propri tratti, cerca qualcun altro che, per quanto diverso, gli possa somigliare o, meglio ancora, lo proietti a lui identico in uno specchio. Per essere, allo stesso tempo, io ma altro da me. Poiché nel gioco del riflesso sarà possibile sopravvivere a se stessi, pacificarsi, se pur dolorosamente, con il mondo. In una acuta analisi dei personaggi di Tozzi, Romano Luperini evidenzia come: “La mancanza di una sicura identità e il predominante sentimento di inappartenenza inducono i protagonisti tozziani a proiettarsi nel ‘doppio’, quasi per un antico e sempre frustrato bisogno di affetto e riconoscimento”.
Ecco, dunque, come Tozzi abbia siglato il Novecento letterario, fissando (è sempre Marchi ad affermarlo) dei “punti di non ritorno”, sperimentando una scrittura, non a caso definita “crudele”, che potesse rappresentare – ora per simbiosi, ora prendendone le distanze – quel doloroso scandaglio d’anima.

19/11/10

Angiolo Poliziano. Il gioco raffinato della letteratura



“Il mio nome è Angiolo Ambrogini, poeta! Meglio noto come Angelo Poliziano, per essere nato a Montepulciano”. Questo poterono apprendere persino i lettori di Topolino allorché nel 1983 il settimanale disneyano pubblicato in Italia ideò una Saga di Messer Papero ambientata nel medioevo e nel rinascimento toscano, in cui Ser Paperone e Paperino, giunti a Siena, incontrano Angelo Poliziano che, in verità, sarebbe stato più probabile trovare a Firenze. E’ così che la maggiore penna poetica del Quattrocento italiano incrociò i celebri pennuti della letteratura a fumetti, per la gioia di grandi e piccini.
Si perdoni questa divagazione al limite dell’irriverenza. Ma il Poliziano, che era persona di “letizia fanciullesca”, starà al gioco. Azzardiamo pensare che egli preferisca le nostre facezie al severo giudizio del De Sanctis, il quale lo definì espressione tipica del “letterato vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi”.
Sarà pur vero che l’Umanesimo italiano visse nella contraddizione tra forma (splendidamente raffinata) e contenuti (pressoché assenti), ma certo è che Angiolo ha sempre suscitato in noi, fin dai tempi del liceo, ammirazione e simpatia, perché, per dirla con il Carducci, seppe restituire “dignità alla materia, alla carne, alla forma contro l’ascetismo macerante e l’idealismo estenuante del Medioevo”. Imparammo da lui come l’erudizione potesse trasformarsi in un sottile gioco. Finanche i suoi espliciti doppi sensi, che ai tempi della scuola ci facevano sghignazzare all’indirizzo delle vicine di banco, hanno la levità del virtuosismo verbale, abile e calcolato. Tant’è che lo stesso De Sanctis, quando lascerà l’ambito del giudizio morale per quello più pertinente della poesia, dovrà riconoscere al Poliziano la prerogativa di uno stile indubbiamente originale.
D’altra parte il pregio dell’opera di Angiolo Ambrogini (che nelle Stanze per la giostra raggiunge il suo apice) è proprio una bravura letteraria “fine a se stessa”. O come dice meglio Asor Rosa a proposito della Giostra, “siamo di fronte al travestimento classicheggiante della contemporaneità… con la leggerezza elegante, e scarsamente impegnativa, propria di una mentalità ben consapevole di sé e della natura fondamentalmente letteraria dell’operazione”.
E allora “Ben venga maggio / e 'l gonfalon selvaggio! / Ben venga primavera, / che vuol l'uom s'innamori”. Ben venga il Poliziano che, come avrete capito, consiglieremmo di rileggere.

08/11/10

D’antica origine - Stampatori in Siena


Era il 7 agosto del 1784. Vittorio Alfieri, partito da Siena, viaggiava alla volta dell’Alsazia per raggiungere la sua amata contessa d’Albany. Preso dalla nostalgia degli amici senesi dettò un sonetto dove nomina tutto quel crocchio di persone e di luoghi a lui cari. Tra questi una tipografia: “fama mi dà la stamperia Pazzina / le cui bindolerie già poste ho in Lete”. Si trattava, appunto, della stamperia di Carlo Pazzini, abituale punto di ritrovo di letterati e docenti universitari, per i cui tipi lo scrittore astigiano aveva pubblicato l’anno precedente le sue prime quattro Tragedie. Ancora per i torchi pazziniani avrebbero fatto seguito il secondo e terzo volume.
Ci è piaciuto ricordare l’insigne precedente editoriale per dire come, a Siena, pubblicare libri sia usanza antica, oltre che “necessaria” a dare conto di una storia e di una cultura. Risale addirittura al 1484 la prima edizione a stampa dell’opera di Paolo di Castro Lectura super sexto libro Codicis, realizzata dalla società tipografica che aveva costituito Enrico di Colonia insieme ad altri stampatori, tra i quali Lorenzo Canizzari.
Così come fu attivo stampatore in Siena Luca Bonetti, che nel 1572 pubblica il Dialogo de’ Giuochi che nelle Vegghie Sanesi si usano di fare di Girolamo Bargagli. Il Bonetti, forse non troppo soddisfatto della collaborazione autoriale, tenne a premettere: “lo stampatore avverte che l’Autore non ha ripulito lo stile e non si è punto occupato della correzione”. Ma i Giuochi, a detta di Orazio Lombardelli risulteranno “guidati con artifizio platonico”, con “favella purgata e soave”. Di Scipione Bargagli (fratello di Girolamo) sempre Bonetti stamperà nel 1589 La Pellegrina, una commedia uscita postuma e che vedrà diverse ristampe fino ad essere inserita nelle Commedie degl’Intronati di Siena, edite nel 1611 dal veneziano Franceschi.
E’ poi di epoca ottocentesca un altro grande cultore di libri, Giuseppe Porri. Aveva rilevato la libreria e tipografia paterna e divenne uno degli editori italiani più noti e raffinati. La sua libreria fu luogo di idee e di elaborazione culturale. Appassionato collezionista arrivò a raccogliere oltre ventimila autografi di personaggi celebri.
Oggi anche a Siena non gemono più i torchi, ma dentro lo sfarfallio dell’elettronica e al ritmo di macchine che nel giro di una notte stampano interi tomi, si continua a produrre un numero sorprendente di libri. In nome di una tradizione e di un elegante vezzo quale è quello della carta stampata: delizia tutta da sniffare, pardon… da leggere.