28/02/11

Pagina digitale. La “simultaneità” del leggere


Sarà per il nome, Kindle, che lo assomiglia a una nota serie di prodotti cioccolatosi (come se non bastasse, aggiungiamoci pure la sua definizione di “tavoletta”), ma a noi quel lettore di libri elettronici che abbiamo avuto modo di sperimentare è sembrato davvero una ghiottoneria. O, per essere più coerenti con il suo nome, diciamo che ci ha “acceso” un grande interesse. Sia chiaro: quella tavoletta, così come le altre simili prodotte da aziende concorrenti, peraltro già in gara tra loro per offrire prestazioni le più diverse.
Insomma, tutto lascia presagire che il cosiddetto e-book diventerà per alcune persone una di quelle cose non indispensabili ma necessarie, e, quindi… irrinunciabili. Non tanto per i suoi aspetti pratici (comunque portarsi dietro decine di libri senza peso non è aspetto secondario), quanto per la versatilità che questo strumento lascia intendere fin da adesso (e figuriamoci domani). Sarebbe infatti limitativo se il libro digitale riproponesse semplicemente la copia della pagina cartacea. A renderlo accattivante sono soprattutto le possibilità interattive che esso offre rispetto al testo principale che stiamo leggendo: approfondimenti, richiami, appunti a margine, estrapolazioni di testo, sinossi, ascolti. Ma anche qualcosa di maggiormente sofisticato. Pensiamo ad una indagine su rimandi e ricorrenze all’interno di una produzione poetica, sul rimario, sull’analisi metrica e della versificazione. Immaginiamo, sempre per fare degli esempi, l’opera di Montale “accesa” sulla tavoletta e, allo stesso tempo, di avere a disposizione il repertorio dei suoi dantismi, dei molteplici “debiti” contratti dal grande ligure con Pascoli e D’Annunzio. E chi più ce n’ha più ne metta.
Come altre volte abbiamo avuto modo di dire, non si tratta di ritenere l’e-book come alternativo al libro di carta (che, peraltro, tanto amiamo). E’ un’altra cosa, un ulteriore strumento di lavoro, di svago intellettuale. A ben vedere esso risponde a un’idea di “simultaneità”, di “globalità” che è ormai la condizione (anche bella) del nostro vivere. Siamo, infatti, sollecitati ad essere – in cuore e ragione – sempre più interattivi, sinottici e simultanei con il mondo. Piace persino immaginare un nuovo monachesimo che dalla silenziosa appartatezza di un’abbazia indaghi e verifichi la propria comunione con il mondo accendendo un computer o un lettore di libri digitali. Così che, tutta insieme, possa aversi la percezione di essere on anche quando stanchezza e disincanto abbiano premuto il tasto off.

21/02/11

A colpi di penna. Scrittori che fecero l’Italia


Poiché – secondo il celebre monito attribuito al D’Azeglio – fatta l’Italia c’era da fare gli Italiani, a questo prestarono la loro opera diversi letterati, impegnandosi a costruire un immaginario collettivo di patria. Poco, infatti, avrebbe potuto lo Stato in assenza di uno… status emotivo. Già alcuni scrittori si erano spesi in questa azione pedagogica. Si pensi a Ippolito Nievo con Le confessioni di un italiano. Scritto tra il 1857 e il 1858, il corposo romanzo (ritenuto dagli editori troppo lungo e non del tutto in linea per superare il vaglio della censura) vide la sua pubblicazione postuma solo nel 1867. Ebbe subito un discreto successo, anche se ha dovuto sempre vivere nella debordante ombra creatagli dai manzoniani Promessi sposi. Peccato, perché il libro di Nievo ha, per il suo tempo, una indubbia originalità stilistica e di contenuti. L’intento dell’autore era, appunto, di contribuire a una educazione nazionale (così come intese fare successivamente anche De Amicis con Cuore) ma gli esiti letterari (e non solo) di Nievo sono di gran lunga superiori a quelli deamicisiani. Nelle Confessioni di un italiano c’è, sì, l’idea del buon cittadino che con le sue scelte personali contribuisce al farsi della storia; c’è però raffigurato anche un complicato universo di sentimenti, di contraddizioni, di errori, di impliciti giudizi verso la morale borghese che vanno a impersonarsi nel protagonista (un picaresco antieroe risorgimentale) Carlino e nella stupenda, sensuale, emancipata figura della Pisana (ben altra cosa dal modello di femminilità della manzoniana Lucia).
Nelle prossime settimane ci sarà comunque modo di parlare più diffusamente di scrittori e libri che alimentarono un sentimento unitario (e identitario) di patria. Ad esempio il Fogazzaro di Piccolo mondo antico, vicenda costruita sullo sfondo degli accesi contrasti tra liberali e austriacanti; non trascurando certo il romanticismo amoroso/patriottico di cui Foscolo aveva fatto grondare Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Per arrivare, magari, allo straordinario I Viceré di Federico De Roberto con la sua “disillusa” visione del Risorgimento e dell’unificazione italiana. Romanzo che non può essere tralasciato insieme, ovviamente, al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Non a caso i due libri sono da sempre oggetto di una querelle critica su quanto l’uno possa dirsi maggiormente “romanzo storico” rispetto all’altro. Insomma, grande fu pure il Risorgimento letterario. Molti gli scrittori che hanno “fatto” l’Italia, anzi gli Italiani.

14/02/11

Passioni letterarie: Elena, Armida, Anna e le altre


Galeotto fu il libro, verrebbe da ripetere anche in tal caso. Allorché – in virtù di una presunta chimica dell’amore – a scatenare i neurotrasmettitori dell’innamoramento sia stato l’odore d’inchiostro, così da farci invaghire di una persona che esiste solo nella finzione letteraria, e dunque fatta oggetto d’amore con la facilità secondo cui ogni storia narrata su una pagina può diventare “vera” e reinscritta nella nostra vicenda personale.
Da questo punto di vista fummo amanti precoci. Appena adolescenti ci conturbò l’omerica Elena, la sua bellezza tragica tutta compresa tra passione e rimorso. E noi a cercare teneramente di convincerla che tutto quel pandemonio non poteva certo attribuirsi alla sua incolpevole avvenenza. Tant’è che discutemmo di brutto pure con Dante nello scoprire che, per troppo moralistico zelo, il Sommo aveva posto Elena tra i lussuriosi dell’Inferno. E ancor peggio avrebbero fatto D’Annunzio e Wilde usandola a metafora dell’eterna perversa meretrice. No – sostennero alcuni romantici, e noi con loro – Elena non impersona banalmente l’amore tradito, ma quello sfuggente, irraggiungibile perché troppo ideale.
Del resto, sempre sui banchi di scuola, la lezione del Tasso fece capire chiaramente che ogni eroica idealità è fatalmente contraddetta dalle cose della vita. Ne seppero qualcosa Tancredi ed Erminia (come ci piacque il suo malinconico pudore), Tancredi e Clorinda (fascino del mistero e dell’impenetrabilità), Rinaldo e Armida (grande seduttrice finché a soccombere non fu lei). Insomma, l’amore è sofferto desiderio, è doloroso distacco, impossibilità di comunicazione. Giusto sul punto di morte sembra potersi rivelare appieno.
E’ pur vero che, letterariamente, abbiamo sempre intrapreso amori con donne provenienti da storie difficili. Ad ogni cambiamento del tempo dolgono tutt’oggi le cicatrici lasciate dal complicato legame con Anna Karenina: ancora la rivediamo scendere dal treno dentro una freddissima notte moscovita, e di nuovo avvertiamo lo sconquasso dell’esistenza, lo squarcio che rivela le crudeli dicotomie del sentimento amoroso.
Troppi, ormai, sono i rimpianti e i buoni propositi di non ricaderci più. Chi avrebbe mai immaginato, ad esempio, l’irruzione della ventiquattrenne Consuela Castillo (si legga L’animale morente del grande Philip Roth) a mettere in confusione la nostra quiete di uomini maturi ed “emancipati”, tanto da scoprirsi gelosi, percorsi da devastante passione. Forse perché nell’amore, contrariamente al titolo scelto da Roth, risiede davvero “l’artificio dell’eternità”, la tenace resistenza a non morire.

07/02/11

Comico anzi serio. La recessione del carnevalesco


Bando alle gerarchie e alle convenzioni sociali. E’ carnevale, tempo del “rovesciamento” e della “simulazione” (delle maschere, dunque), perché tale era in antico questo periodo dell’anno in cui, giusto per sovvertire l’ordine consueto della vita, era tollerato lo scherzo e persino la dissolutezza. Lo studioso delle religioni Mircea Eliade nel suo Mito dell’eterno ritorno giunge alla conclusione che in certi riti dove, appunto, viene scatenata la licenza, violato i divieti, fatto coincidere i contrari, si intende alludere in tal modo al dissolvimento del mondo (del proprio mondo) per rifondarlo nel tempo mitico del caos, del principio.
Se poi ci interessassero i nessi tra carnevale e letteratura, restano fondamentali gli scritti di Michail Bachtin, quando nell’ambito di un’analisi generale sul romanzo, individua nel genere “serio-comico” un chiaro legame con il folclore carnevalesco. Il grande teorico russo parla di una “carnevalizzazione della letteratura” per il modo con cui essa ha saputo usare la parodia, l’ambivalenza, l’eccentricità, la “gaia relatività di tutto”. Lo stesso Bachtin evidenzia come l’archetipo del carnevale abbia decisamente influito su certa letteratura antica, medievale e rinascimentale. Si pensi al teatro comico di Aristofane e Plauto, alla satira sociale del filoso greco Menippo, al Satyricon di Petronio, a Le metamorfosi di Apuleio, alla smitizzazione degli dèi nei dialoghi di Luciano. Una ricchissima letteratura imperniata sul comico-parodico, che prelude al grande romanzo rinascimentale (Rabelais con il ciclo di Gargantua et Pantagruel e, uno su tutti, il Don Chisciotte di Cervantes). Dopo di che, avverte ancora Bachtin, inizia la graduale recessione del carnevalesco. Un declino legato alla stessa idea di carnevale, alla sua ragion d’essere utopico-popolare, alternativa, trasgressiva. Anche noi possiamo dire che ormai è festa tanto chiassosa quanto inautentica. Fa solo il verso a qualcosa che non ci appartiene più. Una efficace testimonianza letteraria di questo carnevale di(s)messo emerge dalle pagine di Senilità, il romanzo di Svevo che, guarda caso, inizialmente l’autore voleva intitolare Il carnevale di Ernesto. In quella vicenda la metafora carnevalesca (un carnevale fiacco e precario) è assunta per dire come sia illusorio il tentativo di risolvere noia e dolore nella festa, perché, finita “la mascherata”, ad essi la vita ci ricondurrà: “Ammaccati, sperduti, alcuni sarebbero ritornati all’antica vita divenuta però più greve; gli altri non avrebbero trovato mai più la quaresima”.