27/01/14

Il racconto impossibile. Dentro la notte della storia

Nello scorso inserto domenicale del Corriere della Sera si è potuto leggere una intervista a Elie Wiesel, il più celebre sopravvissuto all’Olocausto (oggi ottantaseienne), che all’età di 15 anni fu deportato con la sua famiglia ad Auschwitz. Nell’intervista concessa a Alessandra Farkas confessava che tutt’ora è tormentato dal dolore e dal rimorso nei confronti dei morti (dai campi di sterminio non fecero ritorno il padre, la madre, una delle sorelle). Alla giornalista spiegava anche le ragioni per cui sia necessario raccontare l’Olocausto cercando la verità e tenendosi lontani dalla finzione: “la mia legge morale mi vieta di scrivere un libro di fiction su questa immensa tragedia”. In effetti il racconto letterario della Shoah è indubbiamente quello che risulta più difficile e discutibile, poiché pone la domanda di come sia possibile “decorare” di parole tanta crudeltà. Theodor Adorno era giunto alla conclusione che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Perciò, a Paul Celan fu contestata la bellezza di certe sue poesie nelle quali, per paradosso, poteva esservi sottesa quasi una “complicità” alle efferatezze compiute nei campi di sterminio. Alla madre, morta ad Auschwitz, aveva dedicato i lancinanti versi che recitano: “Madre, madre / Strappata dall’aria / Strappata dalla terra / Giù / Su / Trascinata…”. E’ vero. Se nella vicenda umana esiste alcunché di inenarrabile, quella cosa è la Shoah. Difficile è poter descrivere un tale sprofondo della storia, dare un senso alla insensatezza, trovare parole per dire l’indicibile. Eppure, ammoniva Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Dunque occorre scongelare le parole dal loro blocco morale affinché quanto accaduto sia non solo portato a conoscenza dal punto di vista della storia, ma anche dei sentimenti. A tale proposito la vicenda di Wiesel è esemplare. Per oltre un decennio aveva taciuto ricordi e sofferenza, finché, nel 1958, François Mauriac lo convinse di porre termine al silenzio e di scrivere la sua testimonianza sull’Olocausto (fu tra i primi a usare questo termine). Pubblicò così La nuit, un libro oggi tradotto in 30 lingue e ritenuto uno dei testi letterari fondamentali sulla Shoah. Quel titolo allude alla transizione dall’oscurità alla luce, secondo la tradizione ebraica di considerare l’inizio di un nuovo giorno al calare della notte. Ne La notte, egli dice, “voglio far vedere la fine, la finalità del tragico evento. Ogni cosa va verso la fine – l’uomo, la storia, la letteratura, la religione, Dio. Non c’è più nulla. Eppure noi ricominceremo con la notte”.

20/01/14

Gaudeamus igitur. Quando l’attimo è fuggente

Avrete presente l’inno internazionale della goliardia. Quel Gaudeamus igitur che facendo il verso alle scanzonate pose dei clerici vagantes, magnifica la gioventù e il suo ingordo carpe diem (cogli il giorno, l’attimo, vivi e godi il presente) che già Orazio aveva suggerito nelle Odi aggiungendo un verso di non poco conto: “quam minimum credula postero” (“confidando il meno possibile nel domani"). La versione del Gaudeamus che conosciamo è del tedesco Christian Wilhelm Kindleben (1748-1785). Nato povero, aveva potuto studiare grazie all’aiuto di alcuni mecenati e così laurearsi in teologia alla Friedrich Universität di Halle. Pubblicò l’inno nel 1781 in Studentenlieder, e il componimento seguì, grosso modo, un canovaccio ricavato dagli appunti manoscritti su un quaderno dai suoi compagni di studio. Considerato che il povero Christian rese l’anima a soli 36 anni c’è da auspicare che almeno nella prima gioventù abbia avuto ciò che prefigurava nei suoi versi (ragazze disponibili e attraenti, donne tenere, amabili e buone), poiché, contrariamente alle previsioni poetiche, non poté giungere alla “molestam senectutem” (alla scomoda vecchiaia). Di questo inno ho un ricordo particolare, quando, negli anni Ottanta mi capitò di ascoltarlo in un’università americana. Sembrava di essere dentro un film (americano, giustappunto): vialetti, campi da baseball, chiesa finto-gotica, ragazze e ragazzi in bicicletta, professori in versione austera e ridanciana, la torre con l’orologio che batteva un tempo fuori dal tempo, e il coro degli studenti (belli anche quelli brutti) impegnati a masticare latino al pari di un chewingum. Cantavano Gaudeamus igitur con una solennità tanto ingenua quanto commovente: “alla malora la tristezza, alla malora chi ci odia! / alla malora il diavolo / ogni retrivo e i denigratori”. Veniva naturale volere bene a quei ragazzi ancorché sconosciuti, che – “iuvenes dum sumus” (“finché siamo giovani”) – intonavano la giusta pretesa di essere felici. A ricordarmi tale situazione ho pure una foto. Una teoria di volti che talvolta mi sono divertito a immaginare nel loro oggi. Imbolsiti padri e madri di famiglia, insegnanti (magari nella stessa università), giornalisti, agenti di borsa, direttori di grandi magazzini, Er medici in prima linea, disoccupati vittime dei subprime. Uno di loro – seppi da amici – veramente vittima nel crollo delle Torri Gemelle. Li sento ancora cantare il Gaudeamus e la loro foto mi è diventata icona di ogni gioventù, anche di quella d’oggi, per la quale il presente sfugge, forse, meno di allora. Per dilatarsi, però, in un desertificato futuro.

13/01/14

A proposito di Decameron. Una novella forse ci salverà

Il trascorso 2013 è stato, per il mondo delle lettere, l’anno di Giovanni Boccaccio. Si sono celebrati, infatti, i settecento anni dalla nascita di colui che fu, senza dubbio, il maggiore narratore europeo nel panorama letterario del XIV secolo. La ricorrenza è stata l’occasione per rileggere questo autore e soprattutto il suo libro più celebre, il Decameron. Capolavoro della narrativa occidentale, opera fondante la prosa in volgare italiano e che, per stile, poesia e umanità, risultò quasi un anticipo di Rinascimento. Un libro che va letto nella sua interezza, anche per liberarlo da quei luoghi comuni che lo credono esclusivamente pervaso dai sensi e dalla carne, fino ad aver fatto del termine “boccaccesco” il sinonimo di spinto, triviale, scurrile, greve. O che hanno portato a definire quelle pagine “immorali”, quando, invece, vi è sotteso proprio un giudizio morale sull’uomo, una interpretazione realistica dell’esperienza umana, un’arguta rappresentazione della società di quel tempo (siamo nell’esatta metà del 1300). Come ci ha insegnato Vittore Branca, illustre filologo e studioso di Boccaccio, il Decameron è la poetica e eterna leggenda dell’essere umano, sempre in lotta tra il bene e il male, diviso tra i piaceri mondani e gli aneliti ultraterreni. Ma è pure una grandiosa commedia della società medievale europea, dell’autunno del medioevo e delle trasformazioni radicali che andavano a compiersi nella sfera politica, civile, economica, culturale. Ecco, dunque, la messinscena di tutto ciò attraverso una instancabile verve narrativa che non tralascia alcun registro: comico, drammatico, sensuale. Vi è la canzonatura, la pietas, la turpe viziosità e l’eroica virtù, la crassa sensualità e lo slancio spirituale. E – mirabile capacità di saper raccontare – il realismo e la sua continua trasfigurazione fiabesca. Una rilettura del Decameron offre, infine, anche qualche tentazione attualizzante. Boccaccio, nell’introduzione, avverte che l’umanità è sconvolta dalla peste e medita su “li vizi umani e li valori”. Dice che il terribile contagio scatena “ogni più crudel sentimento”, distrugge relazioni, idealità, comportamenti sociali. Qualcosa, insomma, che assomiglia molto al nostro presente ammorbato dalle più diverse pestilenze, magari più subdole, meno lugubri e spettacolose di quelle medievali. Per cui la domanda appare inevitabile: dove andare per salvarsi dalle odierne epidemie?; e quali novelle raccontarci per spiegare l’oggi, o, meglio ancora, per raffigurarci una morale, degli ideali, una speranza condivisa? Quali parole occorreranno per rifondare una civiltà?