24/03/14

In aperti orizzonti. Il marinaio a cui affidammo i sogni

Qualche decennio fa chi avesse avuto dei sogni poteva benissimo affidarli a idee, utopie, paradossi, visioni. C’erano personaggi che – al pari di un operatore finanziario; anzi, meglio di lui; anzi… contro di lui – quei sogni sapeva far fruttare con tassi di interesse da favola. Tra questi broker dell’onirico fu grande Corto Maltese e, ovviamente, il suo ideatore Hugo Pratt, che, in definitiva, sono unica cosa. Al punto che lo stesso Pratt insinuò il dubbio di essere stato generato dal Maltese. E chissà se Corto-Hugo si rese subito conto di ciò che sarebbe diventato: un personaggio di culto della più raffinata graphic novel europea. Un mito letterario del Novecento, suffragato da pareri giocosamente solenni del tipo: “Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese” (Umberto Eco). Certo è che quel navigatore romantico – figlio della gitana Nina di Gibraltar e di un ignoto marinaio inglese della Cornovaglia, cresciuto alla scuola del rabbino Ezra (l’amante di sua madre) che lo farà edotto di mistica, saggezza, esoterismo – era persona affidabilissima per consegnargli i nostri sogni. Noi che, magari già condannati alla sedentarietà, al comfort e ai viaggi organizzati, eravamo comunque marinai di intenzione. A guadagnarci, se non altro, il buon vento che fa solcare curiosità, conoscenze, i tanti mondi dell’universo mondo (“Come la bianca ala dell’albatros sul monotono respiro del Pacifico, così, vagabonda per vagare, va la vela del vero marinaio”). Corto Maltese capitò proprio al momento giusto. Erano gli anni in cui tutti passavamo a riscuotere le vincite frutto delle scommesse fatte su benessere e libertà. Una bella cuccagna. E un grande equivoco, come sarebbe stato dimostrato in seguito. Non ci cascò, però, il Maltese, provando a coinvolgere anche noi nel suo scontroso diniego: “Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…”. Lui alzò le vele e una ciurma di sognatori lo seguì. Per far cosa? Verificare quanto di Ulisse (e del suo fascino per l’ignoto) fremesse dentro noi; confermarci che Utopia (benedetto Tommaso Moro!) è pur sempre una seconda possibilità offerta alle nostre esistenze; tentare (sia lode a Proust e alla sua Recherche!) di ritrovare il tempo perduto e, soprattutto, un suo possibile senso. Avvertiva Pratt che “quell’orizzonte aperto sarebbe stato sempre lì, un invito ad andare”. Nel nostro tempo ossimorico di globalità e di orizzonti angusti, l’invito è sempre valido. La barca sta per mollare le cime.

17/03/14

Nel popolo più antico del mondo. Una generazione che va perduta

In tutte le guerre, a vincere è solo la guerra. E nella guerra si perdono vite umane, piccoli e grandi beni, ragioni d’esistere. In questi giorni giungono notizie terribili dalla Siria, dove, al quarto anno di guerra civile, la situazione umanitaria è diventata insostenibile. Sul web circola una foto che mostra, fuori dal campo profughi di Yarmuk, una folla – una stipata umanità di stracci, fame e disperazione – in attesa di una razione di cibo. Amnesty International denuncia che: “Assad usa la fame come strumento di assedio, impedendo l’ingresso di cibo e aiuti umanitari nel campo”. I siriani colpiti dal conflitto sono 9,3 milioni, di cui 5,5 milioni bambini bisognosi di assistenza. Già ne sono morti più di 10mila, oltre 8mila hanno raggiunto i confini della Siria senza genitori; 3 milioni (il 40% di quelli in età scolare) non vanno a scuola, anche in considerazione del fatto che ben 4.072 edifici scolastici sono stati distrutti o occupati come rifugi. E ancora. Bambine date in spose a uomini ricchi e viziosi, ragazzini trasformati in cecchini. Non a caso l’Unicef ha pubblicato un rapporto intitolato “Sotto assedio: una generazione perduta”. Notizie da evitare nei telegiornali, poiché, per contrasto, confermerebbero la vacuità delle cronache di casa nostra. Eppure tutto ciò accade a un miglio e mezzo dall’Italia. Per un tour operator quasi una scampagnata fuori porta. Del dramma siriano arrivano da noi anche testimonianze letterarie. Come il libro autobiografico di Mustafa Khalifa La conchiglia. I miei anni nelle prigioni siriane (Castelvecchi, 2014; traduzione di Federica Pistono). Khalifa ha trascorso tredici anni nelle carceri siriane, perché ritenuto un Fratello Musulmano, nonostante il suo essere di origini cristiane e, per giunta, ateo. La conchiglia è la cella dove, con altre cento persone, è stato rinchiuso per anni, torturato, umiliato. Oggi, da uomo libero, continua a vivere in un’intima “conchiglia di solitudine” da cui non smette di chiedersi cosa (e perché) stia succedendo in Siria. Domande non dissimili da quelle che troviamo nelle sofferte liriche del siriano Golan Haji, contenute nella raccolta L’autunno, qui, è magico e immenso (Il Sirente, 2013; traduzione di Patrizia Zanelli). Il poeta confida i suoi sentimenti di esule che vive come una colpa trovarsi lontano da “una storia dove manchi”. Vede nel bianco del proprio occhio “una macchiolina di sangue arrugginita / simile a un sole che tramonta lontano / su un campo di neve / calpestato da lunghe file di soldati affamati”. Un sentimento, triste ma indomito, cova dentro lui (e dentro noi) come in uno “scrigno di dolore”.

10/03/14

L’anima in photoshop. Il “travisamento” dei luoghi

Fu con il film Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij che compresi quanto fosse magnificamente possibile ‘travisare’ i luoghi, trasferendovi interiorità e storie personali. Ricorderete la scena finale del film. Il protagonista, il poeta Gortčakov, siede in terra con il suo cane dentro la scoperchiata Abbazia di San Galgano, tra impietrite spoglie d’arte e di fede. Gortčakov guarda verso noi come a cercare la condivisione di un sentimento: sofferto, al momento acquietato. L’immagine si allarga. Alla solennità gotica di San Galgano si sovrappone la mestizia della steppa russa. Nevica dentro le navate cisterciensi, ma pure sulla isba, sulla casa natale del poeta, mentre il canto domestico di una donna tormenta il ricordo (la nostalgia, appunto). Appare quindi una scritta: alla memoria di mia madre. Ad onorare, così, la maternità che deriva dal sangue e quella culturale delle proprie radici. Un sentimento, dunque, che, sulla cadenza dell’elegia, va a innestarsi in altra cultura, quale è quella rappresentata nell’arte e nel paesaggio toscano. Nei materiali di preparazione alla scrittura del film, Tarkovskij annotò delle impressioni sulle terre toscane che, peraltro, sembrano perfettamente mutuate da Mario Luzi, che, notoriamente, nelle sue liriche, scelse tale scenario per farne il luogo stupefacente della morte e della rinascita, del trapassato e del divenire. Il regista russo, quasi sulla filigrana di certe pagine luziane, parla di “alternanza di luce e di ombra”, della “superficie liscia delle colline, che come onde del mare che si spingono l’una dopo l’altra fino all’orizzonte, sembra il respiro della vita stessa”; e conclude che “questa terra arata di Toscana percorsa dalle ombre delle nuvole è bella quasi come sono i miei boschi, le mie colline, i miei campi, lontani, russi, antichi, irraggiungibili ed eterni”. Ecco, allora, come la ‘visione’ di un luogo divenga proiezione di se stessi, del modo con cui intendiamo il nostro ‘vero’. Al punto che sono le nostre emozioni a stabilire la focale con cui si intende fissare la ‘realtà’ che, forse, tale non è più, in ragione di quanto l’abbiamo idealizzata e finanche ideologizzata. Alla ‘veduta’ dei luoghi ne preferiamo la ‘visione’. Poiché culture, modelli estetici, educazioni sentimentali, fanno sì che ciascuno cerchi, nelle geografie più diverse, la sintesi della propria visione del mondo. Esiste un photoshop dell’anima che trucca la visione reale (?) delle cose ancora prima di guardarle. Perché assumano il significato che noi desideriamo, in simbiosi con la nostra memoria, a consolazione di quanto abbiamo perduto o vorremmo avere (ed essere).

03/03/14

Retorica della reclusione. Quei racconti imprigionati

Carcere e letteratura, binomio niente affatto bizzarro. Basti pensare a quante pagine d’autore si sono sprigionate in prigione. Da quel luogo che, proprio in ragione di uno stato di cattività, può costringere alla riflessione, a liberare i pensieri, il sogno, il desiderio di riscatto, la poesia. E tutto ciò scriverlo. Così hanno fatto personaggi diversi, trovatisi galeotti per motivi variamente (ig)nobili. Il patriota carbonaro Silvio Pellico provò a sublimare le angustie dello Spielberg dicendo: “Un giorno è presto passato, e quando la sera uno si mette a letto senza fame e senza acuti dolori, che importa se quel letto è piuttosto fra mura che si chiamino prigione, o fra mura che si chiamino casa o palazzo?” Contento lui! Paul Verlaine quasi (molto quasi) omicida per un amore gay compose in cella splendidi versi e cominciò a porsi il problema che Dio poteva essere bestemmiato ma anche pregato con risultati letterari di pari effetto. Jean Genet, abituale frequentatore di mignotte con il vizio di rubare nei grandi magazzini, diventò scrittore grazie alla galera. E ancora il marchese de Sade che, coerente con la sua fissa, scrisse in carcere il romanzo erotico Justine ovvero le disavventure della virtù, perfezionando la sua teoria su come la purezza sia capace di risvegliare le perversioni umane e di come questa non favorisca le speranze del virtuoso. Fino a Céline che nelle sue Lettres de prison alterna invettiva, burla, lirismi per dirsi vittima di una persecuzione (“Questa frenesia di farmi soffrire è cosmica, è atomica!”). Nei molti racconti della prigionia la retorica, certi topoi vanno quasi a produrre una ‘mistica’ della reclusione (del resto anche un monaco se ne sta in cella), secondo cui trovarsi in quello stato di a-temporalità e di costrizione fisica, rappresenterebbe l’opportunità per liberare l’anima, il vagheggiamento, le aspirazioni. Ciò che è ‘dentro’ quelle mura diviene così categoria dello spirito. Naturalmente stiamo parlando di letteratura. E letterario, ma rivelatore di grandi verità, è un intenso romanzo di ambientazione carceraria, Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino (Bompiani, premio Strega 1988). Su un’isola penitenziaria, la notte che precede l’esecuzione della loro condanna a morte, quattro carcerati raccontano le loro esistenze tra bugia e verità, ammissioni di colpa e giustificazioni, amori e tradimenti, infimo e sublime. Nell’imminenza della morte si reinventano la vita. Come se quel racconto potesse davvero allontanarli (salvarli) dall’alba che baluginerà sulla ghigliottina. Potenza della narrazione e delle introspezioni a cui essa obbliga.

24/02/14

Fenomenologia di Sanremo. Evasione, costume e tanti violini

Per coloro che amano la canzone, il pop, la musica leggera e quella pesante, quasi fossero, quei generi, kili da bilanciere (beh, oggi, anche l’anima ha da essere palestrata)…, il Festival di Sanremo risulta imperdibile. Magari perché l’infiorata kermesse rappresenta l’opposto della musica che veramente ci piace o, forse, perché stupisce quel dispendio di energie – bravi musicisti, luci e scenografie imponenti, autori grandi firme – finalizzato a così poco. Accade un po’ come quando ai matrimoni qualcuno si premura di informare gli invitati quanto sia costato il vestito della sposa (un’esagerazione!) mentre la poverina incede goffa e inadeguata nel suo tripudio di haute couture, e la mamma piange, e il babbo si rianima inspirando dopobarba. Quanto spreco! Del resto, in oltre sessant’anni, sulla fenomenologia di Sanremo hanno scritto più gli studiosi di costume che i critici musicali. Se andiamo a rileggere la cronaca del Festival stilata (e stilettata) da Umberto Eco per l’Espresso nel 1967 (anno del suicidio di Luigi Tenco) ci rendiamo conto che invariata è rimasta la ricetta di questo piatto nazional-popolare. L’insigne semiologo, quasi cinquant’anni fa, annotava che i fenomeni da segnalare erano due: l’arrivo della canzone di protesta e la vittoria di Claudio Villa. Si era insomma cercato di confezionare un prodotto che “funzionasse per il mercato della pace, senza dispiacere a quello delle rose”. Ironizzava Eco che, praticamente, “erano state messe le mutande di Bob Dylan a Nunzio Filogamo”. Ebbene, su tali ambigui scambi di intimo hanno sempre contato la manifestazione sanremese e i suoi protagonisti, fatto salvo chi ha avuto l’ardore di mostrare le mutande proprie, come fece Anna Oxa nel 1999 (alte le note della canzone, bassa la vita del pantalone, malizioso lo slip che appariva in pregiata passamaneria a decorare il coccige). Quanto alla musica va detto che da Sanremo si è sbozzolata una significativa parte della canzone italiana. A momenti è stato da quel palco che hanno mosso innovazione, qualità, epifanie artistiche. Meno negli ultimi tempi, allorché dal Teatro Ariston si prova – sempre con l’equivoco scambio di brache di cui sopra – a inseguire mode e tendenze musicali che hanno origine altrove. Ma pur con contraddizioni e futilità, il senso (o il non senso) di questo show (ché tale è diventato) fu (e continua a essere) bene sintetizzato da Gianni Borgna, quando intitolò il suo primo libro (1980) dedicato al Festival “La grande evasione. Storia del Festival di San Remo - 30 anni di costume italiano”. Evasione e costume, appunto. E tanti, tanti violini.

17/02/14

Ingannevoli amori. Barbablù fiaba senza fine

Si chiama Barbablù. Ha avuto il singolare privilegio di far designare col suo nome un complesso che, in psicologia, tratta di cattiveria, odio e frustrazioni: il complesso di Barbablù, appunto. Gli è stato dato, pertanto, l’onore del minchione, di un potente impotente, di un personaggio che, rosicato il proprio cervello, si fa predatore di psiche altrui. Sta recluso dentro una fiaba, che è, poi, quella che racconta ogni giorno a se stesso. Sogna di abitare in un castello (il suo immenso ego), di “amare” una donna non per ciò che essa è, ma per come la desidera lui, di “proteggerla” fino a diventare per lei insostituibile. Se, però, la sciocchina non si rende conto della fortuna che le è capitata nel trovare un uomo così forte e generoso, allora sono guai. Diventa nervoso, molto nervoso. Perché, di fatto, Barbablù è un debole, un incapace che vuole confinare la donna entro i propri limiti. Essendo egli de-ficiente di qualcosa, depriva l’altra, le sottrae il necessario che a lui serve per diventare qualcuno. In tal modo prova a sovvertire l’asimmetria che lo vede inferiore. Oggi Barbablù è prevalentemente un nobile decaduto. Non abita manieri (a parte il fortilizio fantasioso e perverso dell’egocentrismo); al massimo può permettersi la villetta, più spesso vive in case di condominio. Ma il problema, come sappiamo, non è legato allo status sociale, quanto psicologico. Il fiabesco ammazzafemmine è un tipo trasversale. Sa – talvolta con la buona fede dell’egoista inconsapevole – non farsi riconoscere. Agli occhi di una donna quella barba d’indaco scuro-scuro ha un indiscutibile fascino. Pure gli sbalzi di umore, certi sguardi sfuggenti, le smancerie che si alternano a manifesto disprezzo invogliano lei a conquistarselo. Se necessario a redimerlo. All’inizio pare persino una storia romantica, d’amore bello e impossibile. Finché le vicende vanno a scorticare corpo e anima. In letteratura c’è, a questo proposito, un esemplare romanzo di Henry James, “Ritratto di signora”, scritto oltre un secolo fa, ma incredibilmente attuale. La protagonista Isabel, da persona libera e anticonvenzionale, cade proprio nella rete da cui aveva voluto sempre sfuggire. Diviene preda docile dell’inganno. Sposa un uomo egocentrico, opportunista, senza scrupoli, che le rovinerà la vita. Quando Isabel appare, “alta e splendida”, vestita di velluto nero, incorniciata dal vano della porta, produce in chi la vede l’effetto di un “magnifico ritratto di signora”. Nessuno conosce quali sofferenze e solitudine nasconda il quadro tanto perfetto. E’ una storia di non-amore che ancora oggi trova replica negli inverni di molte esistenze.

10/02/14

In tema di bellezza. Il valore civile della musica

Un’appendice alle riflessioni che la scorsa settimana qui furono abbozzate in tema di educazione al bello mi è stata suggerita dal rivedere/ascoltare alcuni Dvd delle sinfonie beethoveniane dirette da Claudio Abbado. La regia-video talvolta indugia sugli spartiti dove sono annotate le architetture perfette di Ludwig, e viene da pensare che per quanto un musicista già possa ricavare piacere dalla muta lettura di quelle pagine, ben altra cosa accade quando la musica, dai propri segni, prende corpo sugli strumenti. Perché allora diviene comunicazione, condivisione. Lo sapeva benissimo Claudio Abbado, convinto assertore che “la musica contenga in sé una forza in grado di travalicare i suoi stessi confini” e di come in essa non ci sia soltanto un valore estetico, poiché “dalla sua bellezza intrinseca, in grado di comunicare universalmente, scaturisce un intenso valore etico”. Tale era il convincimento del Maestro da riflettersi anche nel suo modo di essere direttore d’orchestra, con quel gesto rattenuto, più intimo che esteriore, con interpretazioni sorvegliatissime a scanso di facili compiacimenti, con l’impegno del nitore che meglio svela la bellezza. Tutto ciò nella persuasione che il bello debba essere vissuto, trasmesso, rappresentato, e, non di meno, rispettato. Abbado riteneva che la musica fosse necessaria al vivere civile, in quanto basata sul valore imprescindibile dell’ascolto. “Dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo”, diceva Cervantes nel Don Chisciotte. Tanto da far pensare al Maestro che la musica possa davvero cambiare la vita, migliorarla, addirittura salvarla. Come nel caso del “Sistema orchestrale giovanile e infantile” del suo amico Josè Antonio Abreu, che in Venezuela, nell’arco di 35 anni, ha coinvolto oltre 2 milioni di ragazzi sottraendoli a violenza e droga. C’è dunque nell’arte un’insita educazione alla ‘bontà’ che Platone aveva indicato lungo l’asse di tre idee: il Vero, il Bene, il Bello. Tema, questo, ripreso recentemente da François Cheng, studioso di origine cinese, membro dell’Accademia di Francia, considerato il più acuto pensatore e mediatore tra cultura orientale e europea. Cheng invita a riflettere sul fatto che la bellezza richiede un incontro fra i suoi elementi costitutivi. Una relazione che riguarda più il modo di essere che l’apparenza. Non è così nella nostra società – lamenta l’accademico di Francia – dove la bellezza viene degradata a merce di scambio. Le meraviglie, ridotte alla dimensione del possesso, dell’inganno, dell’adulazione smarriscono il loro splendore, si sottraggono al nostro mondo. Orribile mondo, a quel momento.

03/02/14

Tempi moderni. Requiem per la bellezza

Il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino (La grande bellezza) è una cosiddetta antifrasi, allorché le parole vogliano far intendere il contrario di quanto affermino. Così grande bellezza sta per grande bruttezza, quella di un vuoto esistenziale, di personaggi negativi, di luoghi e situazioni desolanti. E la grande bruttezza fa tali anche le cose belle (nel caso specifico la città di Roma) o tantomeno le rende ‘invisibili’, irrilevanti. Tra le molte suggestioni della pellicola di Sorrentino – impietosa, talvolta sarcastica rappresentazione della società attuale – si coglie proprio questo nesso tra etica e estetica che nei nostri sconclusionati giorni procedono di pari passo verso lo sprofondo. Del resto la bellezza è diventata un lusso impraticabile pure dai ricchi, perché la sua frequentazione rischierebbe di affinare le sensibilità, i caratteri; di fornire un’educazione emotiva, sentimentale. Meno male che il pensiero prevalente, i bla-bla televisivi, i social network dissolvono nel loro nascere ogni parvenza di grazia, di significati estetici, di interiorità. Svolgono la loro giuliva mission per il degrado e la superficialità: di contenuti, linguaggi, modelli, forme, comportamenti. Provvidenzialmente vengono offerti stereotipi che nulla hanno a vedere con la sfera emozionale delle nostre storie personali e collettive. Vige peraltro l’assioma che con la cultura non si mangia. Pertanto per il bene dei nostri figli cerchiamo di tenerli alla larga da tutto ciò che potrebbe tentarli ad acquisire conoscenze, elaborazione critica, comportamenti attivi, un uso della lingua oltre gli standard reperibili a buon mercato. Rendiamoli immuni dal cogliere il senso vero degli esseri e delle cose. Resta il problema relativo al bello che già esiste: città, paesaggi, opere d’arte, letteratura, musica. Ovvero di come fare affinché certe magnificenze non siano percepite per ciò che sono. Quelle più deteriorabili stanno andando fortunatamente in rovina, quindi basterà non fare nulla. Per quelle che resistono ci stiamo organizzando in maniera tale che non prevarichino troppo il beato imbarbarimento. Venezia, ad esempio, va benissimo così, allestita come una disneyana scena per navi da crociera. Mentre per le bellezze più immateriali sarà sufficiente ignorarle, non trasmetterne memoria, non metterle in contatto (in rotta di collisione) con l’immaginario delle nuove generazioni. Facciamoli credere che questo banalissimo mondo è cominciato e finirà con loro. Priviamoli del bello, cosi che non abbiano la consapevolezza del brutto. Anzi, illudiamoli che questa sia la grande bellezza.

27/01/14

Il racconto impossibile. Dentro la notte della storia

Nello scorso inserto domenicale del Corriere della Sera si è potuto leggere una intervista a Elie Wiesel, il più celebre sopravvissuto all’Olocausto (oggi ottantaseienne), che all’età di 15 anni fu deportato con la sua famiglia ad Auschwitz. Nell’intervista concessa a Alessandra Farkas confessava che tutt’ora è tormentato dal dolore e dal rimorso nei confronti dei morti (dai campi di sterminio non fecero ritorno il padre, la madre, una delle sorelle). Alla giornalista spiegava anche le ragioni per cui sia necessario raccontare l’Olocausto cercando la verità e tenendosi lontani dalla finzione: “la mia legge morale mi vieta di scrivere un libro di fiction su questa immensa tragedia”. In effetti il racconto letterario della Shoah è indubbiamente quello che risulta più difficile e discutibile, poiché pone la domanda di come sia possibile “decorare” di parole tanta crudeltà. Theodor Adorno era giunto alla conclusione che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Perciò, a Paul Celan fu contestata la bellezza di certe sue poesie nelle quali, per paradosso, poteva esservi sottesa quasi una “complicità” alle efferatezze compiute nei campi di sterminio. Alla madre, morta ad Auschwitz, aveva dedicato i lancinanti versi che recitano: “Madre, madre / Strappata dall’aria / Strappata dalla terra / Giù / Su / Trascinata…”. E’ vero. Se nella vicenda umana esiste alcunché di inenarrabile, quella cosa è la Shoah. Difficile è poter descrivere un tale sprofondo della storia, dare un senso alla insensatezza, trovare parole per dire l’indicibile. Eppure, ammoniva Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Dunque occorre scongelare le parole dal loro blocco morale affinché quanto accaduto sia non solo portato a conoscenza dal punto di vista della storia, ma anche dei sentimenti. A tale proposito la vicenda di Wiesel è esemplare. Per oltre un decennio aveva taciuto ricordi e sofferenza, finché, nel 1958, François Mauriac lo convinse di porre termine al silenzio e di scrivere la sua testimonianza sull’Olocausto (fu tra i primi a usare questo termine). Pubblicò così La nuit, un libro oggi tradotto in 30 lingue e ritenuto uno dei testi letterari fondamentali sulla Shoah. Quel titolo allude alla transizione dall’oscurità alla luce, secondo la tradizione ebraica di considerare l’inizio di un nuovo giorno al calare della notte. Ne La notte, egli dice, “voglio far vedere la fine, la finalità del tragico evento. Ogni cosa va verso la fine – l’uomo, la storia, la letteratura, la religione, Dio. Non c’è più nulla. Eppure noi ricominceremo con la notte”.

20/01/14

Gaudeamus igitur. Quando l’attimo è fuggente

Avrete presente l’inno internazionale della goliardia. Quel Gaudeamus igitur che facendo il verso alle scanzonate pose dei clerici vagantes, magnifica la gioventù e il suo ingordo carpe diem (cogli il giorno, l’attimo, vivi e godi il presente) che già Orazio aveva suggerito nelle Odi aggiungendo un verso di non poco conto: “quam minimum credula postero” (“confidando il meno possibile nel domani"). La versione del Gaudeamus che conosciamo è del tedesco Christian Wilhelm Kindleben (1748-1785). Nato povero, aveva potuto studiare grazie all’aiuto di alcuni mecenati e così laurearsi in teologia alla Friedrich Universität di Halle. Pubblicò l’inno nel 1781 in Studentenlieder, e il componimento seguì, grosso modo, un canovaccio ricavato dagli appunti manoscritti su un quaderno dai suoi compagni di studio. Considerato che il povero Christian rese l’anima a soli 36 anni c’è da auspicare che almeno nella prima gioventù abbia avuto ciò che prefigurava nei suoi versi (ragazze disponibili e attraenti, donne tenere, amabili e buone), poiché, contrariamente alle previsioni poetiche, non poté giungere alla “molestam senectutem” (alla scomoda vecchiaia). Di questo inno ho un ricordo particolare, quando, negli anni Ottanta mi capitò di ascoltarlo in un’università americana. Sembrava di essere dentro un film (americano, giustappunto): vialetti, campi da baseball, chiesa finto-gotica, ragazze e ragazzi in bicicletta, professori in versione austera e ridanciana, la torre con l’orologio che batteva un tempo fuori dal tempo, e il coro degli studenti (belli anche quelli brutti) impegnati a masticare latino al pari di un chewingum. Cantavano Gaudeamus igitur con una solennità tanto ingenua quanto commovente: “alla malora la tristezza, alla malora chi ci odia! / alla malora il diavolo / ogni retrivo e i denigratori”. Veniva naturale volere bene a quei ragazzi ancorché sconosciuti, che – “iuvenes dum sumus” (“finché siamo giovani”) – intonavano la giusta pretesa di essere felici. A ricordarmi tale situazione ho pure una foto. Una teoria di volti che talvolta mi sono divertito a immaginare nel loro oggi. Imbolsiti padri e madri di famiglia, insegnanti (magari nella stessa università), giornalisti, agenti di borsa, direttori di grandi magazzini, Er medici in prima linea, disoccupati vittime dei subprime. Uno di loro – seppi da amici – veramente vittima nel crollo delle Torri Gemelle. Li sento ancora cantare il Gaudeamus e la loro foto mi è diventata icona di ogni gioventù, anche di quella d’oggi, per la quale il presente sfugge, forse, meno di allora. Per dilatarsi, però, in un desertificato futuro.

13/01/14

A proposito di Decameron. Una novella forse ci salverà

Il trascorso 2013 è stato, per il mondo delle lettere, l’anno di Giovanni Boccaccio. Si sono celebrati, infatti, i settecento anni dalla nascita di colui che fu, senza dubbio, il maggiore narratore europeo nel panorama letterario del XIV secolo. La ricorrenza è stata l’occasione per rileggere questo autore e soprattutto il suo libro più celebre, il Decameron. Capolavoro della narrativa occidentale, opera fondante la prosa in volgare italiano e che, per stile, poesia e umanità, risultò quasi un anticipo di Rinascimento. Un libro che va letto nella sua interezza, anche per liberarlo da quei luoghi comuni che lo credono esclusivamente pervaso dai sensi e dalla carne, fino ad aver fatto del termine “boccaccesco” il sinonimo di spinto, triviale, scurrile, greve. O che hanno portato a definire quelle pagine “immorali”, quando, invece, vi è sotteso proprio un giudizio morale sull’uomo, una interpretazione realistica dell’esperienza umana, un’arguta rappresentazione della società di quel tempo (siamo nell’esatta metà del 1300). Come ci ha insegnato Vittore Branca, illustre filologo e studioso di Boccaccio, il Decameron è la poetica e eterna leggenda dell’essere umano, sempre in lotta tra il bene e il male, diviso tra i piaceri mondani e gli aneliti ultraterreni. Ma è pure una grandiosa commedia della società medievale europea, dell’autunno del medioevo e delle trasformazioni radicali che andavano a compiersi nella sfera politica, civile, economica, culturale. Ecco, dunque, la messinscena di tutto ciò attraverso una instancabile verve narrativa che non tralascia alcun registro: comico, drammatico, sensuale. Vi è la canzonatura, la pietas, la turpe viziosità e l’eroica virtù, la crassa sensualità e lo slancio spirituale. E – mirabile capacità di saper raccontare – il realismo e la sua continua trasfigurazione fiabesca. Una rilettura del Decameron offre, infine, anche qualche tentazione attualizzante. Boccaccio, nell’introduzione, avverte che l’umanità è sconvolta dalla peste e medita su “li vizi umani e li valori”. Dice che il terribile contagio scatena “ogni più crudel sentimento”, distrugge relazioni, idealità, comportamenti sociali. Qualcosa, insomma, che assomiglia molto al nostro presente ammorbato dalle più diverse pestilenze, magari più subdole, meno lugubri e spettacolose di quelle medievali. Per cui la domanda appare inevitabile: dove andare per salvarsi dalle odierne epidemie?; e quali novelle raccontarci per spiegare l’oggi, o, meglio ancora, per raffigurarci una morale, degli ideali, una speranza condivisa? Quali parole occorreranno per rifondare una civiltà?