29/06/09

Palio e Poesia. La Festa dei senesi tra pathos e lirismo


Vasta è la letteratura che, lungo il tempo, ha raccontato il Palio di Siena; non esclusa la poesia, che per sua natura è l’arte dell’indicibile. Cominciò nel 1783 Vittorio Alfieri componendo rime che bene coglievano la rattrappita tensione della Mossa (“Eccoli al teso canape schierati…sol l’un l’altro emulando in vista irati”) finché – scrive l’astigiano – un suono di tromba “al sospirato aringo apre lor via” e “de’ sonanti piedi il ciel rimbomba”.
Alcuni lampi senesi irromperanno persino nei vertiginosi e inafferabili Cantos di Ezra Pound (“e laggiù hanno fatto il loro Palio”), mentre l’approccio poetico di Corrado Govoni (1950) è tutto giocato in una metafora che fa del Palio e dell'esercizio poetico una medesima corsa sfrenata: “Ma tu corri lo stesso, o maledetta, / sputa l'anima e corri, o poesia, / il traguardo è già in vista: / corri anche solo con la spennacchiera / della mia tradita primavera!”.
Certo è che il testo poetico più "alto" che nella storia della letteratura sia stato dedicato al Palio di Siena è quello di Eugenio Montale, compreso nella raccolta poetica Le Occasioni e datato 1939. Si tratta di un componimento estremamente complesso, in cui ogni immagine o suono della Piazza (“purpurea buca”, “tumulto d'anime”, “sommossa vastità”) rimandano a più universali e tormentati destini. E, quindi, a interrogativi di cui "tu (cioè Clizia, la montaliana donna-angelo) ritieni tra le dita il sigillo imperioso ch'io credevo smarrito". Così il Palio (“giro di trottola”) diventa l'inesorabile ciclicità della vita, e la donna amata un traguardo.
Non meno drammatici risultano i versi di Mario Luzi dove l’abbacinante policromia del Campo è per il poeta metafora di molteplici accecamenti: “Finché nel furore policromo / del bruciante mulinello / mi guarda Siena / da dentro la sua guerra… percossa dai suoi tamburi / trafitta dai suoi vessilli ”.
Alla storia letteraria più recente appartengono, poi, i versi di Alda Merini che accompagnarono il drappellone dipinto da Ugo Nespolo per il Palio dell’Assunta 2007. Un testo che ha l’impronta visionaria tipica della produzione poetica della Merini: “Udite, udite / stanche contrade / messaggeri d’amore / e di guerra che correte / nel nome della Vergine / in bocca ai leoni. […] Bevete il vino / e acqua per incoraggiarvi / e sperate che poi vi / abbandoni per la gloria della vita”.
Ecco: la gloria della vita e il suo contrario. Questi sono, infatti, i sentimenti che sottostanno al gioco del Palio; gli stessi che, da sempre, costituiscono il rovello della poesia.

22/06/09

Versi futuristi. La “rombante” poesia delle parole in libertà


Ci fu un tempo in cui quasi tutti i poeti divennero… aviatori grazie a Filippo Tommaso Marinetti, che non a caso nel suo Manifesto del Futurismo (1909) aveva dichiarato un virulento disgusto per la letteratura, fino ad allora espressione “dell’immobilità penosa”, mentre era arrivato il momento di “esaltare il movimento aggressivo”, la velocità che si esaltava nell’aereo, nell’automobile, in ciò che rappresentava il trionfo tecnologico dell’uomo sulla natura.
Proprio per queste ragioni il futurismo fu molto affezionato all’estetica dell’aviazione, tant’è che agli inizi degli anni Quaranta si pubblicarono molteplici raccolte di poesie, dette aeropoemi futuristi, la cui caratteristica comune era quella di un ostentato “paroliberismo”, poiché, come si era sostenuto nel Manifesto marinettiano, la sintassi e la punteggiatura andavano scardinate, facilitando la comunicazione con le “parole in libertà”, seguendo l’onda di una immaginazione senza fili.
Sulla scia di questi vezzi trasgressivi, nacque persino un Aeropoema futurista delle torri di Siena ad opera della poetessa senese Dina Cucini, uscito nel 1942 per le Edizioni Futuriste di Poesia dirette dallo stesso Marinetti. Non neghiamo che dinanzi a quella plaquette (oggi una rarità bibliografica), il primo moto che viene spontaneo sia di bonaria ironia, in quanto fatichiamo un po’ a immaginare la scrittura futurista – concitata, verbosa, percussiva – applicata al racconto poetico di una città oltremodo tranquilla, adagiata sotto la coltre di un irrisolto medioevo. Ed, in effetti, la poesia della Cucini trova il suo autentico e migliore risultato lirico, allorché sa distanziarsi dalle facili concessioni al “terrorismo linguistico” predicato da Marinetti (come quando fa risuonare in una stradina di Siena “la rombante ansia impennata / di motore a scoppio) e ripiega, invece, su versi del tipo: “Qui la pace respira inanellata / dolce di cirri candidi veleggia / a sfioccolii di chiarità distesa / tutta sui rossi vividi dei tetti […]”.
Verrebbe quasi da concludere che anche l’esperienza poetica della Cucini, sintetizzi nel suo piccolo, certi giudizi sul futurismo letterario. Ricordiamo, ad esempio, quello di Franco Fortini, che pur riconoscendo l’importanza complessiva delle intuizioni marinettiane, fa però notare come i risultati maggiori dell’età e del gusto futurista siano stati quelli di autori (Palazzeschi, Govoni) che il futurismo attraversarono per tornare poi alle loro sensibilità originarie, ancorché decadenti, crepuscolari, della tradizione decorativa.

15/06/09

Lingua o dialetto. Il perenne dibattito tra naturalità e artificio


C’è chi sostiene che la lingua sia adatta per affermare concetti, ma che per esprimere i sentimenti funzioni decisamente meglio il dialetto. Niente male la provocazione, magari per riaprire un dibattito che a più riprese ha trovato opinioni diverse tra i letterati.
La questione, peraltro, ha radici profonde di secoli. Almeno dal Trecento, quando – grandi complici Dante e Petrarca, successivamente l’Ariosto – il dialetto toscano diventa lingua italiana ancor prima che l’Italia esistesse. Inizia così l’opposizione tra lingua e dialetti. Questi ultimi – dice Cesare Segre – “più vicini alla naturalità, al gusto popolare, alla corporeità, ai bisogni immediati, all’espressione istintiva, al parlato”. Tale antinomia proseguirà, lungo i secoli, riformulandosi di volta in volta in una lingua appartenente alle classi più istruite, opposta a quella del popolo che per comunicare nella propria quotidianità, altro non adotterà se non il dialetto.
Una certa ingessatura della lingua letteraria comincerà però ad incrinarsi allorché il dialetto troverà un efficace utilizzo in poeti come Porta, Belli, Di Giacomo, Tessa. E ancora di più nel Novecento, giungendo a maggiori e sorprendenti esiti (attraverso una lingua scarna, raffinata, di grande musicalità ed efficacia) con Marin, Noventa, Guerra, Baldini, Pasolini, Loi, Zanzotto.
Ulteriori considerazioni andrebbero poi svolte circa la poesia popolare, quale espressione “alternativa” alla lingua colta, e quindi alla cultura delle classi dominanti. Giusto Pier Paolo Pasolini vi dedicò grande attenzione con l’antologia del Canzoniere italiano (1955). Una notevole raccolta di canti popolari, suddivisi per regione, preceduta da una denso saggio introduttivo, ove, fra le altre cose, si dice che la lingua parlata dal popolo si è evoluta di invenzione in invenzione per forza autonoma, per quella ricchezza interiore che è comune a tutti gli uomini, nessuno escluso.
Le questioni attorno al bimonio lingua/dialetto restano aperte ancora oggi. E mentre la lingua italiana va sempre più uniformandosi allo sbrigativo lessico tecnologico e televisivo, non mancano coloro che, praticando una scrittura in dialetto (e in vernacolo) ricercano in esso l’espressione primigenia e forgiata da un vissuto autentico, il suono evocante di una saggezza atavica. Certo è che la poesia in dialetto per essere all’altezza dei suoi intenti non ha magari da confondersi con gli angusti e ormai vieti codici della “poesia dialettale”. Si capirà che la distinzione non è di poco conto.

08/06/09

Cinema e Letteratura. Due codici narrativi sempre più somiglianti


Prendiamo un film di culto come Ombre rosse (1939), per dire subito come il cinema abbia avuto, fin dagli inizi, una contiguità con la letteratura. Non solo perché la pellicola di John Ford, sceneggiata da Dudley Nichols, trova spunto da un racconto di Ernest Haycox (Stage to Lordsburg) a sua volta ispirato a Boule de suif di Guy de Maupassant, ma ancor di più per la sua struttura narrativa che utilizza, giustappunto, tipici modelli letterari: quello del viaggio, innanzitutto; nonché la rappresentazione di un microcosmo (in tal caso racchiuso in una diligenza), campionario di umanità diverse da cui far emergere, comunque, una morale universale.
Ciò che, infatti, risulta interessante del rapporto tra cinema e letteratura, non è tanto il lunghissimo elenco di soggetti cinematografici tratti da racconti e romanzi (del resto la letteratura rappresenta per la settima arte un bel deposito di storie), quanto, piuttosto, le contaminazioni che tra i due linguaggi si sono prodotte. Magari, a questo proposito, potrebbe essere curioso analizzare la sceneggiatura del San Francesco d’Assisi di Gozzano, così come L’uomo che rubò la Gioconda di D’Annunzio, e ancora gli adattamenti per lo schermo che Verga ebbe a fare di alcuni sue opere narrative e teatrali. Oppure proiettarsi in ben altre e più complesse dimensioni per scandagliare il retroterra letterario (e in tal caso non si parla banalmente di opere narrative divenute soggetti cinematografici) che costituì la formazione di registi quali Rohmer, Truffaut, Ophuls.
Però insistiamo nel dire che quel che maggiormente intriga sono le analogie tra le due tecniche narrative, fino a constatare come la letteratura contemporanea sia giunta ad adottato codici che sono propri del linguaggio cinematografico: nei dialoghi, nel “montaggio” del racconto, nel forte impatto audiovisivo di certe descrizioni. Un esempio su tutti è costituito dalla scrittura di Niccolò Ammaniti, ma già le prime avvisaglie si erano avute con la prosa di Leonardo Sciascia, Ignazio Silone e addirittura in Cesare Pavese.
Circa questa reciproca dialettica tra cinema e letteratura, il regista Eric Rohmer si chiede: “Non è uno dei meriti minori del cinema l’averci resi più severi nei confronti dell’arte del bel dire che segna l’impotenza di dire, più sensibili al vigore dello stile che alla sua enfasi, al verbo che all’aggettivo, all’intenzione e alla dinamica che alla sensazione e alla statica?”. Ci pare che la domanda contenga già la risposta. Ovvero una presa d’atto.

05/06/09

Il romanzo storico. In fantasiosa menzogna il vero della Storia


Nelle notti prima degli esami, loro non possono mancare: sono I promessi sposi, con il Manzoni che rizza le scene secentesche dell’occupazione spagnola in Italia per ammiccare, però, al dominio ottocentesco dei crucchi nelle regioni italiane del nord e quindi ai giusti sussulti risorgimentali del momento. Perché – ed è questo l’argomento che ci interessa – quello che è ritenuto il più importante romanzo della nostra letteratura è un cosiddetto romanzo storico. Genere di indubbio fascino di cui fu iniziatore Walter Scott, allorché (1814) lo scrittore scozzese vide bene di mettersi a raccontare in Ivanhoe le vicende che, poco dopo il Mille, avevano visto le antiche popolazioni dei Sassoni contro quelle dei Normanni, da poco conquistatori dell’Inghilterra. Peraltro qualcuno non ha mancato di far notare certi “prestiti” che il Manzoni potrebbe aver contratto proprio da Scott, come la vecchia che nel castello dell’Innominato si prende cura di Lucia (quasi controfigura dell’anziana scottiana che fa compagnia in cella a Rebecca) o, in termini più generali, il tema dei “giovani perseguitati” posto nelle pagine di Ivanhoe e che nel Manzoni si impersona in Renzo, Lucia, Gertrude.
Bella invenzione fu dunque il romanzo storico. Un modo, cioè, per raccontare i grandi fatti attraverso le vicende di singoli non obbligatoriamente esistiti, non necessariamente eroi, ma comunque rappresentazione dei diversi frangenti della Storia e dei suoi accadimenti.
L’Ottocento italiano registrò in proposito una significativa produzione. Da Tommaso Grossi con il suo Marco Visconti, all’Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta di Massimo d’Azeglio, passando attraverso L’assedio di Firenze di Domenico Guerrazzi o la Margherita Pusterla di Cesare Cantù. Vicende del passato, dunque, quasi sempre prese a pretesto per sensibilizzare una coscienza morale e politica sul tempo presente. Anche la prolifica editoria novecentesca testimonia quanto questo genere narrativo funzioni ancora. Fra le decine e decine di titoli ci piace citare Baudolino di Umberto Eco, perché proprio in questo libro è forse spiegata la ragione del successo del romanzo storico. C’è una pagina dove Niceta, cronachista di Baudolino, domanda a quest’ultimo: “Sì, ma cosa racconti?” ed egli: “Signor Niceta, il problema della mia vita è che ho sempre confuso quello che vedevo e quello che desideravo vedere”. Ecco dunque il segreto del romanzo storico: una fantasiosa menzogna (menzogna?) per svelare il vero delle storie individuali e della Storia tout court.