22/06/09
Versi futuristi. La “rombante” poesia delle parole in libertà
Ci fu un tempo in cui quasi tutti i poeti divennero… aviatori grazie a Filippo Tommaso Marinetti, che non a caso nel suo Manifesto del Futurismo (1909) aveva dichiarato un virulento disgusto per la letteratura, fino ad allora espressione “dell’immobilità penosa”, mentre era arrivato il momento di “esaltare il movimento aggressivo”, la velocità che si esaltava nell’aereo, nell’automobile, in ciò che rappresentava il trionfo tecnologico dell’uomo sulla natura.
Proprio per queste ragioni il futurismo fu molto affezionato all’estetica dell’aviazione, tant’è che agli inizi degli anni Quaranta si pubblicarono molteplici raccolte di poesie, dette aeropoemi futuristi, la cui caratteristica comune era quella di un ostentato “paroliberismo”, poiché, come si era sostenuto nel Manifesto marinettiano, la sintassi e la punteggiatura andavano scardinate, facilitando la comunicazione con le “parole in libertà”, seguendo l’onda di una immaginazione senza fili.
Sulla scia di questi vezzi trasgressivi, nacque persino un Aeropoema futurista delle torri di Siena ad opera della poetessa senese Dina Cucini, uscito nel 1942 per le Edizioni Futuriste di Poesia dirette dallo stesso Marinetti. Non neghiamo che dinanzi a quella plaquette (oggi una rarità bibliografica), il primo moto che viene spontaneo sia di bonaria ironia, in quanto fatichiamo un po’ a immaginare la scrittura futurista – concitata, verbosa, percussiva – applicata al racconto poetico di una città oltremodo tranquilla, adagiata sotto la coltre di un irrisolto medioevo. Ed, in effetti, la poesia della Cucini trova il suo autentico e migliore risultato lirico, allorché sa distanziarsi dalle facili concessioni al “terrorismo linguistico” predicato da Marinetti (come quando fa risuonare in una stradina di Siena “la rombante ansia impennata / di motore a scoppio) e ripiega, invece, su versi del tipo: “Qui la pace respira inanellata / dolce di cirri candidi veleggia / a sfioccolii di chiarità distesa / tutta sui rossi vividi dei tetti […]”.
Verrebbe quasi da concludere che anche l’esperienza poetica della Cucini, sintetizzi nel suo piccolo, certi giudizi sul futurismo letterario. Ricordiamo, ad esempio, quello di Franco Fortini, che pur riconoscendo l’importanza complessiva delle intuizioni marinettiane, fa però notare come i risultati maggiori dell’età e del gusto futurista siano stati quelli di autori (Palazzeschi, Govoni) che il futurismo attraversarono per tornare poi alle loro sensibilità originarie, ancorché decadenti, crepuscolari, della tradizione decorativa.
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