22/12/08

Il dono di un libro, per regalare agli altri qualcosa di se stessi


“Un libro è un regalo che puoi aprire ancora e ancora”. Parola di Garrison Keillor, leggendario conduttore radiofonico che da trent’anni tiene botta con la sua trasmissione “A prairie home companion” (lo ricorderete, interprete di se stesso, nel film di Altman “Radio America”).
Regaliamo libri, dunque, per far sì che il nostro dono abbia, almeno potenzialmente, la capacità di meravigliare non solo al profumo del suo primo incarto, ma ogni qualvolta verrà sfogliato, riletto, ricollocato sugli scaffali delle librerie domestiche. Un libro, invero, non è dato e letto una volta per sempre; in ragione del fatto che le sue pagine interagiscono (si reinscrivono in noi) a seconda delle età e delle vicende della vita.
Sbaglia, poi, chi pensasse che un libro possa risultare regalo sbrigativo o, peggio ancora, anonimo. Anzi: sceglierlo, indirizzarlo a una persona, implica quasi il superamento di un certo pudore. Si va, infatti, a esternare una preferenza, un’adesione di cuore e intelligenza a quanto su quella carta è impresso, poiché un libro esprime comunque una visione del mondo e dell’esistenza, forse un giudizio etico, un gusto estetico, un disagio, un guizzo di giocosità, un bisogno di consolazione, magari un atto di presunzione. Lì può essere espresso – decisamente meglio di come potremmo farlo noi – quanto oggi pensiamo, detestiamo, sogniamo, ammiriamo, amiamo.
Con un libro, allora, si può regalare un pezzo di sé stessi, scrivere di noi per interposta persona, dare il senso e la misura della con-passione che ci attraversa nei confronti della propria e altrui esistenza. E ancora di più: offrire di sé l’immagine che, per sentimenti, pensieri, elaborazioni intellettuali, maggiormente ci affratella ai nostri simili, all’universo intero.
Non si dimentichi al proposito quanto Proust intendesse dire con “Il tempo ritrovato”, ovvero indicarci quel tempo in cui il libro che da sempre è in noi finalmente si svela e ci svela a noi stessi. Scrive l’autore della Recherche: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. C’è quindi un tempo per leggere che, in definitiva, è il tempo della conoscenza di sé e di noi agli altri. Tutto ciò può accadere anche regalando un libro.

15/12/08

L’impegno di Sienalibri - Organizzare una vetrina senese


Dati recenti dell’Associazione italiana degli editori ci informano che la lettura di libri registra una incoraggiante crescita. Sarebbero, infatti, 24 milioni e mezzo le persone (dall’età di 6 anni in poi) che dicono di dedicare parte del loro tempo libero alla lettura. Cifre piacevolmente rimbalzate anche all’interno del Palazzo dei Congressi dell’Eur dove si è conclusa da qualche giorno la Fiera di Roma dei piccoli editori (400 espositori su un totale di circa 2500 sigle presenti in Italia); una manifestazione che cresce di anno in anno e che costituisce ormai un significativo riferimento per l’imprenditoria editoriale e culturale.
Proprio in tema di iniziative legate alla piccola e media editoria ci preme ricordare il workshop promosso lo scorso novembre da Sienalibri sul tema “Essere o non essere editori a Siena. La filiera del libro tra opportunità e sviluppo, risorse economiche e impegno culturale”, per dire come anche nella realtà senese sia emersa, da parte degli stessi editori, l’esigenza di “fare sistema” in modo da migliorare la propria offerta e soprattutto avere una visibilità sul mercato che solo unendo le forze sarà possibile realizzare.
Quanto emerso in quella occasione non è rimasto lettera morta e Sienalibri si sta giusto attivando come tramite fra editori, istituzioni e associazioni di categoria per giungere a delle azioni concrete di promozione delle diverse pubblicazioni prodotte in terra di Siena. Piacerebbe, ad esempio, poter partecipare alle più importanti fiere del libro con uno stand “Sienalibri” in cui tutta l’editoria che opera in territorio senese fosse presente con i propri prodotti di maggior interesse e prestigio. Così come vorremmo poter offrire, sul piano della comunicazione, strumenti qualificati, efficaci, commisurati alle esigenze e non sporadici.
D’altra parte esiste un pubblico di lettori – quello, peraltro, più assiduo e più colto – che non si lascia certo abbindolare dalle classifiche e dai bestseller portati in pellegrinaggio da una trasmissione all’altra della televisione, ma che cerca avventure e percorsi di lettura inconsueti. Insomma, per dirla con Vitaliano Brancati: “E’ vero che ciascuna persona ha sotto il braccio il libro che si merita”. In ragione di ciò parrebbe altrettanto opportuno aiutare i libri a trovare le braccia giuste.

09/12/08

Scrittura e realtà - L’immaginario è ciò che esiste

Ciò che si è, ciò che si vorrebbe essere. Ecco, in estrema sintesi, il sentimento, l’inquietudine che percorre l’ultimo romanzo di Andrea De Carlo, con quel singolare titolo (“Durante”), un po’ preposizione, un po’ participio, ma, nella narrazione, nome proprio di persona o, per meglio dire, di un moderno sciamano fuori dalle regole della comune convivenza, il quale pare ignorare “i codici per la comprensione e la descrizione del mondo che ognuno di noi impara fin da bambino”.
Romanzo della “dualità” – qualcuno ha detto – poiché al narratore Pietro, dopo aver conosciuto Durante, si sconvolgono gradualmente tutte le confortanti certezze del suo esistere, scatenando in lui una sorta di nostalgia dell’altrove.
E’ un bel libro, che, come i libri ben riusciti, ribaltano il lettore in quella intima regione dove assai incerto risulta essere il confine fra reale e immaginario (il proprio immaginario), per riproporre, poi, il rapporto tra letteratura e realtà.
Un dualismo nato con l’arte stessa del narrare e comunque con quel capolavoro che si indica come il primo romanzo dell’epoca moderna: il “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes Saavedra.
Chisciotte andava… matto per i libri, al punto che fu dato fuoco alla sua biblioteca nel tentativo di rinsavirlo. Giusto per spiegare questo rapporto fra libri e realtà Michel Foucault nell’opera “Le parole e le cose” prende a esempio proprio Chisciotte per dire come egli “vuole essere fedele al libro che è diventato; lui stesso è il proprio libro, è libro in carne e ossa”. E a quel punto non può che inseguire tutte le possibili concomitanze tra realtà e scrittura. Perciò è considerato pazzo, perché va ad impersonare una sorta di coincidenza fra le parole e le cose, tra la scrittura e la realtà.
La follia di Chisciotte è dunque contenuta in questa ossessione che conduce a caccia di similitudini tra l’esistente e l’immaginario. Dulcinea non è bella ma lo sembra. I mulini sono mulini, anzi no dei veri giganti.
Ebbene, a suo modo anche De Carlo con il suo “Durante” ha riproposto il dilemma reale/immaginario, in ragione del fatto che in noi acquista la dimensione dell’immaginario non tanto l’inesistente, quanto piuttosto ciò che esiste (potrebbe esistere) ma ci manca.

01/12/08

Libri per sempre


Chissà come sarà stato il cielo sopra Magonza nel lontano 23 febbraio del 1455, quando Johann Gutenberg, orafo e tipografo, insieme all’incisore Peter Schöffer, concluse la stampa della cosiddetta “Bibbia a 42 linee”. Per coloro che, nei secoli a seguire, sarebbero diventati inguaribili bibliofili, non v’è dubbio che, quel giorno, su Magonza doveva splendere un gran sole. Era nato, infatti, il “libro a stampa”, finiva cioè l’ars naturaliter scribendi (quella degli amanuensi) per lasciare il posto all’ars artificialiter scribendi.
Soltanto una quarantina d’anni dopo, altro cielo ebbe poi a rilucere su Venezia, laddove Aldo Manuzio, tipografo ed editore, portò all’apice l’arte tipografica rinascimentale, raccogliendo in sé – come ha avuto modo di dire Fabio Massimo Bertolo – le doti del grande umanista, dell’abile editore, dell’attento grafico e dello straordinario promotore culturale.
Da allora in poi, e attraverso le diverse fasi delle trasformazioni sociali, il libro sarebbe gradualmente diventato industria editoriale, fino a giungere ad una sorta di vera e propria democratizzazione dell’oggetto-libro che prende il via dalla rivoluzione industriale in Inghilterra, qualche decennio dopo in Francia e verso la metà dell’Ottocento in Italia, ad opera, nel caso italiano, di grosse case editrici, prevalentemente milanesi, torinesi e fiorentine.
Sia dunque lode a coloro che, a vario titolo, da oltre mezzo millennio, hanno fatto sì che il libro continuasse ad esistere come veicolo di alfabetizzazione, di cultura, di evoluzione sociale. E, non di meno, come “oggetto”: bello nella sua forma tanto essenziale, misterioso finché non se ne percorra tutta la sua sfrigolante sequenza di carta, destinato alla molteplicità ma così personale non appena il singolo possa farlo proprio.
I libri che ciascuno conserva in casa, sono, insieme alla casa stessa, il contenitore della memoria personale, nella misura in cui con quelle pagine la nostra vita si è intrecciata, informata, emozionata. Ed è per loro tramite che la memoria di noi va così a inscriversi nella memoria di tutti, poiché – lo sostiene anche Umberto Eco – una biblioteca è “il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te”. Stampiamo dunque libri: per non dimenticare e per non essere dimenticati.

24/11/08

Il coraggio di leggere toglie la paura di volare


Abbinare al verbo volare un’azione tanto sedentaria come la lettura potrebbe apparire solo un gustoso calembour. Ma sappiamo bene che non è così, poiché nel potere magico di un libro risiede una forza che è, appunto, quella di condurci lontano, in ogni altro-da-sé. Non a caso quella sorprendente creatura e poetessa che fu Emily Dickinson, poté scrivere dalla volontaria clausura della sua camera che “nessun vascello c’è che come un libro possa portarci in contrade lontane”.
Leggendo si può dunque anche volare. E volare alto: per apprendere quanto piccolo sia il nostro universo di riferimento quotidiano, per rendersi consapevoli di quante cose non conosciamo e come, pertanto, sia assurdo assolutizzare le proprie certezze e presunte verità.
Più leggiamo e maggiormente si è coscienti della vita, dei sentimenti umani, di quanti “altrove” esistano rispetto al “qui” dei nostri giorni. Ogni pagina letta non è mera nozione, ma cognizione del mondo.
Potremmo tranquillamente affermare che leggere allunga la vita, non tanto in rapporto al numero degli anni, quanto rispetto a una vera e propria qualità del vivere. Poiché ogni pagina ha magari svelato un aspetto di se stessi che non conoscevamo, ci ha messo in relazione con pensieri ed universi che fino ad allora ci erano del tutto estranei.
Peraltro la simultaneità con cui, oggi, diverse e lontane realtà comunicano, le geografie che dalle linee precise degli atlanti si smarginano e si confondono in esodi e trasmigrazioni, il mondo fatto ormai cosmopoli, impongono una conoscenza e una cultura delle “diversità” che i libri possono indubbiamente aiutare ad acquisire, pena il rischio di incontrarsi (scontrarsi) realmente come estranei o, peggio ancora, ostili.
Si tratta, insomma, di acquisire una visione del mondo, di vivere un’esistenza “informata” sulle cose e ancor di più sul loro senso. Ebbene, i libri – persino quelli che appaiano del tutto fantasiosi e chissà quanto irreali – possono aiutare a farlo.
Non c’è dubbio, quindi, che colui che legge voli. Diversamente un boato da stadio lo sommergerà nel terribile rap: chi non vola ignorante è… è.

17/11/08

sienalibri.it: la più grande libreria virtuale di pubblicazioni senesi

Navigare sul nuovo sito internet di Sienalibri, compulsarne il catalogo, scuriosare nelle sue vetrine, dà veramente la percezione di quanto ampia e variegata sia la pubblicistica legata a Siena. Pare quasi che un racconto ininterrotto e tuttora aperto ci affabuli senza sosta su una storia – quella, appunto di Siena e delle sue terre – ormai leggendaria.
Del resto non esiste mito che non sia letterario, poiché esso nasce sempre da una narrazione. E così è accaduto anche per le terre senesi, in ragione della loro storia, arte, tradizioni. Di queste terre, infatti, già si parla sui medievali libri indulgentiarum (i libri dei pellegrini che andavano a Roma, i cosiddetti romei), sui taccuini (talvolta noiosi e pedanti) dei viaggiatori del Grand Tour europeo, su numerose e variegate pagine di letteratura ottocentesca e novecentesca.
Il vero “scritto letterario” – anche quello a tema senese – comincerà, però, alla fine del Settecento, con l’inizio del Romanticismo, allorquando al manuale di viaggio semplicemente descrittivo si vorrà aggiungere la proiezione psicologica di stati d'animo e di riflessioni che scaturiscono dalla seduzione pittoresca dei luoghi: è allora che subentra anche il racconto emotivo, sviluppato attraverso i filtri e i parametri culturali di chi certi posti visitava. Nasce, dunque, il "viaggiatore sentimentale" di cui si ha una testimonianza significativa proprio nel Sentimental Journey di Laurence Sterne, pubblicato nel 1768 e reso celebre in Italia dalla versione di Ugo Foscolo del 1813.
Avviene, perciò, una sorta di scambio fra sentimento e scena paesaggistica. Dalla "vista" di un paesaggio si passa alla sua "visione". Il paesaggio non trova più e soltanto una sua descrizione estetica ma anche estatica. Si inaugura la categoria del "pittoresco", la degustazione estetizzante e nostalgica di un luogo.
Non sfuggono a tale approccio nemmeno Siena e le sue terre, al punto che i racconti che se ne faranno, da ora innanzi non parleranno tanto di quanto esse mostrano, ma di ciò che quei luoghi “sembrano”.
Sulla scia delle suggestioni romantiche si giungerà così al Novecento – quando, cioè, pure il mito di Siena è ormai consolidato – e si incontreranno pagine come quelle di André Suarès, fin troppo eccessive per la loro foga estetizzante: “Finalmente, ti ho vista, mia fidanzata tutta verginità e passione. Finalmente, ti ho trovata, o città tanto cercata, e tu mi hai accolto, come se mi avessi desiderato. [...] Che niente mi sfugga di lei o mi sia sottratto. Come in amore, la vorrei tutta, e in una volta sola, e con un tale e così perfetto amplesso, che non uno dei suoi angoli mi sia vietato, non uno dei suoi recessi mi sia estraneo”.
L'esagerata prosa di André Suarès, fa comprendere, se non altro, quanto il mito di Siena si sia alimentato nel fascino di una visione straniante, anacronistica, immaginifica della città. Come, cioè, sia stato replicato oltre misura il frastornante riverbero della sua trascorsa civiltà, ponendola, però, in un contenitore quasi sempre vuoto, se pur prezioso. Quasi fosse una "città del silenzio" di dannunziana memoria, una città che non è reale, ma, come dicevamo prima, solo "visione". Atteggiamento, questo, di origine romantica, ma che, a ben pensare, può trovarsi, sotto camuffate vesti, anche nel turismo becero e consumistico dei giorni nostri, allorché, stante la confusione delle identità, lo stravolgimento dei paesaggi esteriori ed intimi, si vada a cercare a prezzi “tutto-compreso” il brivido storico, la nostalgia del passato, la stravagante "cartolina".
Se quindi abbondano le testimonianze su una città quasi fuori dal tempo, meno numerose sono quelle che di Siena sanno cogliere, per dirla con Alfonso Gatto, la sua valenza “antica” ma mai “remota”. Proprio il poeta siciliano scriverà, al proposito, una pagina di particolare pregio: “Fu detta e si dirà città di giovinezza una città tanto vecchia che sembra incredibile ai giovani? Forse in tutte queste parole che fanno spicco di sé solo per contraddirsi si salda già l'immagine di Siena, ch'è tanto vecchia proprio per la sua gioventù, per il suo passato prossimo che la lascia ancora intatta e inverosimile, vera qual è, e abitata lungo i secoli dai suoi testimoni fedeli”. Gatto prosegue le sue acute osservazioni dicendo ancora che di tutto ciò “i Senesi non se ne accorgono, ci son dentro, chiusi e protetti insieme, impreziositi se appena vi fanno spicco: ma basta venir da Firenze per aggirarsi subito in quella delirante contemporaneità propria della giovinezza che dà a Siena il palpito dell'avventura umana e l'emozione del vivere insieme in una cronaca”.
Sarebbe indubbiamente interessante approfondire le suggestioni di tali considerazioni, e giusto sul modo di decifrare Siena appare illuminante citare anche quanto ebbe a dire nel 1989 Franco Fortini: “Quella che chiamo la leggenda di Siena ossia la proiezione simbolica della sua struttura urbana, del suo passato storico e soprattutto artistico, quella leggenda penso abbia poco più di cent'anni. Fino agli ultimi decenni del secolo, mi pare, non è ancora identificata nella cultura europea una Siena come valore universale o città dello Spirito quali lo erano Firenze e Venezia. Era una città ancora, non un simbolo”.
Si è voluto solo accennare ad alcune interpretazioni della città, per dire come tramite i molti libri dedicati a Siena – quelli editi e quelli che si continuerà a pubblicare – sia possibile ripercorrere e aggiornare la "leggenda senese". Racconti che rivelano culture, sensibilità, visioni del mondo, della storia e dell’arte le più diverse. Una ricchissima – spesso sorprendente – escursione di immaginarî, di suggestioni, di fantasie, di giudizî e pregiudizî estetici, di codici figurativi, di cifre letterarie non immuni, talvolta, da abusati clichés, stereotipi, bizzarrie e artifici retorici.
Del resto una pagina di libro (è ovviamente fatta eccezione per le guide turistiche) non potrà mai essere svilita a mera descrizione di luoghi. Però resta il fatto che in quella stessa pagina, ancorché astratta e "inventata", può sottostarvi comunque la filigrana del reale e quindi la visione di un determinato posto, magari dilatato a chissà quali dimensioni. Un modo, quindi – quello letterario – non solo per "guardare", ma per "vedere" luoghi facendone un'esperienza maggiormente universale.
Ecco, ci piace pensare, che Sienalibri rappresenti uno strumento attuale per dare conto e far discutere di tutto questo, oltre che, naturalmente, essere un servizio concreto per gli editori, i lettori, i curiosi e gli appassionati che nei libri cercano storia e storie, e in quelle storie qualcosa di se stessi.

11/11/08

Alla maniera di una terza pagina


Un tempo si chiamava “la terza pagina”. Era quello lo spazio ben definito che i giornali dedicavano alla cultura e a tutto ciò che attraverso di essa poteva veicolarsi. Collocata lì, subito dopo i gridati titoli della cronaca, sembrava quasi di voler ricordare come non fosse possibile informarsi sui fatti se poi non si sapesse leggerli, interpretarli per mezzo dei saperi.
La ideò Alberto Bergamini nel 1901 sulle pagine del Giornale d’Italia, raccogliendo, appunto, in un’unica pagina, cronaca e critica della prima teatrale della “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio e cooptando per l’occasione intellettuali del calibro di Benedetto Croce.
Qualche anno dopo l’idea fu imitata e potenziata anche dal Corriere della Sera di Luigi Albertini, il quale si accaparrò in esclusiva firme prestigiose come lo stesso Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Grazia Deledda. Nacque così pure l’elzeviro (nome di un carattere di stampa che da allora innanzi andrà a connotare l’articolo di fondo della terza pagina) e, quindi, l’elzevirista, una firma prestigiosa come fu, ad esempio, per il Corriere della Sera ,Ugo Ojetti.
Poi, a partire dalla fine degli anni Settanta (ma in verità già Il Giorno lo aveva anticipato nel 1956) quello spazio posto al numero 3 della foliazione si sposterà in altre parti, magari occupando anche più di una pagina come fece Repubblica nel 1976, dedicando alla cultura una sezione posta al centro del giornale.
E’ dunque sulla scia di questa nobile tradizione editoriale che da oggi, e così per ogni domenica, anche il Corriere di Siena ospiterà una pagina interamente dedicata ai libri, alla cultura, al mondo dell’editoria e, a chi, a vario titolo (autori, critici, giornalisti, editori) quel mondo frequenta e mantiene in vita.
A Siena, peraltro, l’attività editoriale è più che mai viva e fiorente. Non a caso è nato il portale di Sienalibri per far sì che la vasta bibliografia senese potesse trovare un’unica vetrina, un “luogo” di incontro, di informazione puntuale, di consultazione, di acquisti, di dibattito.
La pagina del Corriere sarà curata proprio dalla redazione di Sienalibri con l’impegno a valorizzare tutto quanto si pubblichi in terra senese, consapevoli di come ciascun libro porti a sintesi, aiuti a comprendere e a conservare una memoria comune, che, giusto come tale, necessita di essere tramandata.

03/11/08

Quel Giuseppe Garibaldi sempre in… Lizza


Lo dice il nome stesso. Si chiama “Lizza” perché verso la fine del Cinquecento era questo un luogo destinato a tornei ed esercitazioni equestri, fino a quando, nel 1779, si intese valorizzare la zona trasformandola in passeggio pubblico e incaricando Antonio Matteucci di disegnarla a giardino. Tale è ancora oggi, piccolo polmone verde in perenne ostaggio di assatanati e parcheggianti automobilisti, ritrovo di badanti in giorno di libertà, spazio dove una giostra per bambini alterna i suoi giri con altri caroselli, quelli dei ricordi di chi, ora in pensione, seduto su una panchina conta a sassolini di ghiaia, le ore che lo separano dalla desina.

Salvo qualche raro superstite, ormai quasi nessuno può raccontare per testimonianza diretta ciò che La Lizza fu nei primi decenni del Novecento e tantomeno in epoca ottocentesca. Lungo i suoi viali passeggiarono ospiti illustri quali Arthur Symons, Vernon Lee, Henry James e Paul Bourget che erano soliti prendere alloggio al Grand Hotel Royal (ingresso da via Camollia e affaccio sul Passeggio). Alla Lizza abitarono per alcuni anni le figlie di Alessandro Manzoni, Vittoria (moglie di Bista Giorgini, docente all’Università di Siena) e Matilde. In una lettera indirizzata proprio alla malaticcia Matilde – che in quella casa morirà a soli 25 anni – il padre Alessandro scriveva: “E corro anch’io col pensiero alla casa che guarda sulla Lizza, e se corro nell’andarci, non fo lo stesso nel partirne”. E ancora all’ombra di quei tigli ebbero modo di sostare Giovanni Marradi, Giovanni Comisso, Carlo Betocchi, Leonardo Sciascia.

I nostri vecchi amavano fare memoria di spettacoli e veglioni al Teatro della Lizza (già Teatro Montemaggi, dove, peraltro, Garibaldi l’11 agosto 1867 aveva tenuto un vibrante discorso), ricordavano certe serate trascorse al dancing del “Giardino dei Tigli” sorto successivamente tra i ruderi di quello stesso Teatro, il palco su cui ogni domenica si esibiva la banda cittadina, il fotografo ambulante che ritraeva soldatini di leva e fidanzatissime coppie orgogliose di mettere in posa amori che a quei tempi, pure quando finivano, erano comunque eterni.

Su tutto questo piccolo mondo teneramente provinciale, a volte perfino un po’ mondano e pretenzioso, si stagliava Lui, Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei due Mondi, che dall’alto del suo destriero ribadiva il mito di se stesso e di una storia collettiva. Monumento, dunque, ad un’idea di patria, di mondo, di progresso sociale.
Ma la realizzazione di quella statua equestre che tutt’oggi, da dietro il logorio del tempo, proclama l’essenziale dedica: “A Garibaldi i senesi”, non fu cosa semplice. Infatti, se tempestiva risultò la volontà del Consiglio comunale nel voler onorare in questo modo l’Eroe (decisione presa solo cinque giorni dopo la sua morte avvenuta il 2 giugno 1882), non altrettanto celere fu la messa in opera del monumento che il Comune intendeva allora collocare “nell’arcata centrale del porticato di Piazza Indipendenza o in altro luogo”.

La Società di Volontari e la Fratellanza Militare polemizzarono subito per i criteri con cui era stato formato l’apposito comitato, presieduto da Tiberio Sergardi (della stessa famiglia di quel Tommaso Sergardi che era stato sindaco quando Garibaldi nel 1867 aveva visitato Siena, accogliendolo in modo piuttosto freddo). Le due associazioni minacciarono di erigere il monumento per loro autonoma iniziativa, e tanto per dimostrare che facevano sul serio scoprirono le due lapidi poste sulla facciata dell’Albergo “Aquila Nera” e della casa di Ruggero Barni in Camollia (luoghi in cui Garibaldi aveva soggiornato in occasione della sua visita senese).
Ugualmente accese furono le discussioni su quale potesse essere la migliore ubicazione del monumento. Si ipotizzò piazza Tolomei (ma ritenuta troppo piccola e già impicciata dalla colonna che sorregge la lupa), piazza Pianigiani (spazio non sufficientemente idoneo), piazza Santa Petronilla (troppo periferica), la Croce del Travaglio (proposta avanzata dall’intraprendente architetto Partini che per fare posto al monumento suggeriva di demolire addirittura l’angolo tra Banchi di Sopra e Banchi di Sotto, rendendo così, a suo dire, anche più sicure le due strade). Da ultimo fu deciso per la Lizza, anche se qualcuno insinuò che la scelta poteva apparire dettata più dall’esigenza di decorare i Giardini che dalla volontà di onorare l’Eroe.

Individuato il posto, si trattò, poi, di stabilire chi e come avrebbe dovuto eseguire l’opera. E su queste ulteriori discussioni trascorreranno altri anni. Si arriverà così al 1889, quando vengono presentate due proposte che rimetteranno in discussione anche la collocazione, tant’è che si parlerà di porre la statua nei pressi del Ponte di Romana, oppure in uno slargo da ricavare in via Garibaldi. Finalmente nel 1891, a seguito di concorso, viene affidata l’opera allo scultore Raffaello Romanelli che già aveva realizzato il monumento ai caduti di Curtatone e Montanara nell’atrio dell’Università.

Il monumento a Garibaldi, definitivamente destinato ai Giardini della Lizza, sarà dunque in bronzo (120 tonnellate) e verrà a costare 60.000 lire. Purtroppo fu un po’ tribolata anche la cerimonia inaugurale svoltasi il 20 settembre del 1896. Pioveva. Erano presenti le autorità, i superstiti dei Mille, alcuni rappresentanti delle Logge massoniche, diverse Società di Contrada ma non le Contrade in forma ufficiale, poiché l’Arcivescovo di Siena le aveva invitate a non partecipare all’iniziativa.
L’opera, oltre al fiero Generale a cavallo, richiama, sui lati del basamento, anche alcune scene e nomi di vittorie garibaldine (Montevideo, Sant’Antonio, Milazzo, Volturno, Varese, Monte Suello, Solferino, Bezzecca, Roma 1849, Aspromonte, Calatafimi, Dijon).

Sempre a causa del maltempo, il previsto palio che si doveva correre nell’occasione fu rinviato al 23 settembre. Vinse l‘Istrice con il fantino Celso Cianchi detto Montieri. E così Garibaldi, che bene aveva portato alla Lupa presenziando alla Carriera del 15 agosto 1867, se pur da morto, si fece portafortuna equanime per le due avversarie.

Il Generale (almeno in spirito) sarà ancora in Piazza per il centenario della sua morte a cui fu intitolato il Palio del 2 luglio 1982. Nel drappellone dipinto da Cesare Olmastroni campeggia la riproduzione del monumento garibaldino della Lizza. La Carriera vide la vittoria del Valdimontone con il fantino Il Pesse che montava una cavallina di nome Cuana. E sempre in tema di Palio merita segnalare una curiosità: nei repertorî della Festa senese si fa menzione anche di un fantino chiamato Garibaldi (tale era il nome proprio e pure il suo nomignolo) che, tra il 1925 e il 1933, corse 11 Palî vincendone uno nella Giraffa il 16 agosto del 1929.
In epoca di globalizzazione – e Garibaldi fu indubbiamente un “globale” ante litteram, non a caso definito “eroe dei due mondi” – il monumento della Lizza “scalpita” ancora dentro gli incerti giorni del nuovo millennio. Quasi metafora di un Risorgimento che ne richiamerebbe altri commisurati alle criticità del tempo presente.

Da oltre un secolo il valoroso Nizzardo non è mai sceso da cavallo. Per i Senesi è uno di famiglia. I bambini continuano a giocarci intorno e, chissà, se qualche nonno – memore a sua volta del proprio nonno – indicherà al nipotino di turno: “Vedi…, Garibaldi è rivolto verso Roma”; perché, in effetti, il Nostro, con occhi e cuore, sappiamo come e quanto guardasse in quella direzione.
Ecco dunque l’Eroe sempre in confidenza con la gente, al punto che uno stornello cantato nelle Contrade di Siena può dirgli senza ritegno: “E Garibaldi a Siena si lamenta, / perché alla Lizza non ci vuol più stare, / ci vanno le ragazze a far l’amore / e da ruffiano non vuol più passare”.

29/10/08

La rappresentazione dell'Aldilà nella civiltà etrusca e nel nostro tempo


L’alternarsi del tempo e delle sue ricorrenze ci riconduce in questi giorni nei cimiteri, laddove proviamo a instaurare una illusoria continuità materiale fra vita e morte; e di questo malinconico binomio, declinare una parvenza di normalità corredata da simboli, gesti, oggetti, parole. Il tentativo, insomma, è di far assomigliare il più possibile l’al-di-là all’al-di-qua, così da suturare ogni strappo, distanza, nostalgia. Un modo, se non altro, per convincere se stessi che anche qualcosa di noi rimarrà comunque.

Del resto, da sempre, il culto dei morti è cosa che, fino a prova contraria, riguarda i vivi. Gli Etruschi, ad esempio, lo praticavano in grande stile, convinti come erano che i defunti continuassero ad avere una qualche forma di sopravvivenza terrena. Ecco, allora, che la tomba doveva assomigliare a una casa e di essa avere la parvenza della quotidianità con suppellettili, vestiti, oggetti preziosi. Sulle pareti del sepolcro venivano dipinte scene di forte vitalità: banchetti, danze, giochi atletici. Poi, dal V secolo a.C., sotto l’influenza della civiltà greca, il mondo dei defunti si incupisce, cominciò ad essere immaginato pure dalle popolazioni etrusche in un luogo sotterraneo (l’Averno greco, appunto), nel quale le anime trasmigravano scortate da spiriti infernali quali la dea Vanth (dalle grandi ali e reggente una torcia), il demone Charun (con viso deforme e che impugna un grande martello), il demone Tuchulcha (volto di avvoltoio e orecchie d’asino, armato di serpenti).

Se volete vedere una splendida rappresentazione di queste credenze vi suggeriamo di visitare la tomba della “quadriga infernale” recentemente scoperta a Sarteano. Straordinario è lo stato di conservazione degli affreschi e – dicono gli esperti – unica è anche la scena rappresentata. E’ la prima volta, infatti, che si ha un tale “ritratto” di Charun, raffigurato mentre guida una quadriga formata da due leoni e due grifi, rivolto verso l’esterno della tomba dopo aver lasciato il defunto sulla soglia dell’Ade. Il limite dell’Ade è simboleggiato da una porta dipinta oltre la quale è inscenato un banchetto, che allude all’Aldilà, con due personaggi maschili sopra una kline (un letto conviviale): forse una coppia gay o (versione meno pruriginosa) di semplici parenti. Nella camera di fondo è invece dipinto un grande serpente a tre teste, uno di quei mostri che “sicuramente” abitavano l’Ade. Quindi sotto il frontone è collocato il sarcofago di alabastro con l’immagine del defunto disteso sul coperchio.

Per gli etruschi – mutatis mutandis, anche per noi – il culto dei morti era, non di meno, una maniera per ostentare il prestigio e la potenza di una famiglia; così che si costruivano grandi tombe ad imitazione delle proprie case. Tant’è che le necropoli seguono in qualche modo le tipologie abitative delle diverse epoche, come, ad esempio, quelle organizzate in due o tre ambienti affiancati e preceduti da una specie di vestibolo o di corte centrale. A partire dal VI secolo, e per tutto il V, si assiste ad un nuovo impianto planimetrico delle necropoli. Le tombe vengono definite “a dado” e, allineate l’una vicino all’altra, vanno a costituire delle vere e proprie città dei morti con tanto di strade e piazze (ma sono poi così tanto diversi i nostri cimiteri?). All’interno delle tombe vi erano solo due ambienti, all’esterno scalette laterali che portavano alla sommità del dado dove si trovavano altari per il culto. Un cambiamento, questo, che riflette i mutamenti della struttura sociale in cui andava affermandosi un ceto non aristocratico che optava per soluzioni abitative decisamente più modeste.

Le difficoltà che permangono nel comprendere il linguaggio degli Etruschi, non consentono, purtroppo, di poter ricostruire appieno i loro riti funebri. Si deduce dai reperti che la morte di un personaggio importante vedesse la partecipazione di tutta la città. Il giorno della sepoltura un lungo corteo seguiva il defunto dalla sua casa alla tomba di famiglia. Su un carro funebre a quattro ruote la salma procedeva lentamente, accompagnata da sacerdoti, suonatori di flauto, parenti e conoscenti con offerte votive. Litanie, musiche, danze e pianto scandivano il rito fino al momento della sepoltura.

Ecco, nei giorni mesti in cui siamo soliti commemorare i nostri defunti, si è voluto richiamare l’antica progenie etrusca, da cui ad alcuni piace pensare di discendere, per dirci come la morte – in quanto fenomeno estraneo all’originaria natura dell’uomo – abbia incessantemente trovato, attraverso il tempo, figurazioni e miti nello sforzo di volerla spiegare come “passaggio”, talvolta come “prova”, attraverso cui accedere a una condizione diversa ma in continuazione con la vita. La stessa tradizione cristiana opta per questa rappresentazione, se pur proiettata in una dimensione totalmente differente da quella terrena, libera dalla corruttibilità della carne, con l’assunzione di un nuovo corpo “glorioso”. E’ dunque così che si intende risolvere l’angoscia e la crisi connesse con la morte, ribaltandola in una prospettiva “oltre” e “altra”, in un Aldilà individuale e collettivo, in un tempo eterno e spiritualmente immortale.

In epoche più recenti, dinanzi alle balbuzie filosofiche, magari suggestive ma insufficienti a dare risposte compiute al “problema” morte (nonché cloroformizzati dal fatuo vitalismo della società consumistica in cui tutto sembrerebbe acquistabile), si è preferito una rimozione del problema. Non a caso viene delegato l’evento agli ospedali e alle agenzie funebri. E perciò anche il vitalismo cui prima facevamo cenno, risulta, nella sostanza, solamente una nevrosi di morte della vita.
Ebbene, poiché in proposito le risposte saranno sempre parziali e inadeguate, ci sembra di poter concludere che a certe nevrosi sia preferibile, forse, l’immaginifica rappresentazione della morte elaborata dagli Etruschi, con le loro silenziose necropoli a modo e misura di vita. Oppure il conforto triste ma sereno che siamo soliti confinare nei nostri cimiteri – affollati archivi di vita che fu – dove è possibile ascoltare il ronzio di quel perenne interrogativo: avrà davvero un fine la fine? E, chini su questo dubbio, deporre un fiore che ha tutto il tremore del finito e di un sentimento – almeno quello – che vorremmo teneramente infinito.

06/10/08

Dina Ferri: un incompiuto canto


La testimonianza letteraria di Dina Ferri (per ciò che nel suo piccolo comunque rappresenta), ai fini della critica è rimasta in una sorta di limbo.
Un po’ per la sua frammentarietà e incompiutezza (in definitiva la sua opera tramandata non è che la parte di un diario su cui, peraltro, non sappiamo quanto la curatela abbia inciso – e se ciò è accaduto, a mio avviso, ha influito negativamente); un po’ perché, dopo gli esordi, non ha più trovato l’interesse della cultura ufficiale, né è stato possibile ascrivere l’esperienza letteraria di Dina a quella di una poetessa a carattere popolare, come ad esempio nel caso di Beatrice degli Ontani cui, talvolta ed erroneamente, la Ferri viene assimilata (ambedue vennero definite poetesse-pastore).

In ragione di ciò e per capire i motivi di questo limbo, bisognerebbe, prima di tutto, introdurre categorie più di tipo socio-antropologico che letterario. Lo fece molto bene (forse alcuni di voi lo ricorderanno) Fabio Mugnaini nel convegno svoltosi qui a Chiusdino nell’ottobre del 1998, quando egli evidenziò come il percorso di Dina sia stato interessante innanzitutto dal punto di vista sociologico, poiché si assisté alla nascita di una scrittrice per cooptazione. Lo status di poetessa le fu infatti riconosciuto dall’ambiente culturale e aristocratico senese (Lusini e Misciattelli) in un’aura di illuminato paternalismo che – intendiamoci, in tutta buona fede – voleva anche ribadire come l’intellettuale avesse la capacità maieutica di scoprire il diamante in mezzo alla ghiaia.
E’ così, dunque, che una contadina (una donna contadina!; non passi inosservato questo aspetto di “genere”) diviene letterata, compiendo uno smisurato salto sociale. E ad un certo punto Dina stessa ha paura di questa emancipazione, arrivando quasi a colpevolizzarsi per aver tradito un destino che, invece, sembrava inequivocabilmente segnato dalla sua condizione di origine.
Del resto già l’azione dello scrivere era un distinguersi dalle proprie origini (quelle contadine) dove non si era soliti scriveva, ma, eventualmente, narrare oralmente.
Dina – osservava ancora Mugnaini – è una esponente del ceto subalterno, però sono altri a identificarne il talento e a legittimarne la produzione poetica. Perciò ella si esprime in un lessico che non è quello di provenienza, ma quello che l’accoglie e al quale piace ri-conoscerla come “poetessa pastora” (e perché – mi chiedo – non riconoscerla semplicemente come “poetessa”?).

A proposito di queste scarto che si avverte fra mondo contadino e universo colto in cui si vede ribaltata Dina, c’è subito da dire che negli scritti di Dina non si ravvisano grandi contaminazioni fra letteratura “alta” e tradizione popolare. Nella cifra stilistica che la ragazza di Ciciano va costruendosi, prevale decisamente la prima, si adottano, infatti, gli schemi della poesia “culta”.

Dunque la giovane Dina – concludeva Mugnaini – sa impadronirsi bene dello schema generativo della poesia che le è contemporanea e che le offre la scuola, ricavandone una sua competenza poetica capace di produrre “in proprio” poesia secondo i canoni vigenti. Perciò viene “riconosciuta” come poetessa.

Ma vediamo di richiamare, senza alcuna pretesa di completezza, perlomeno alcune annotazioni sull’opera della Ferri che potrebbero costituire delle piste di ricerca per un lavoro critico più approfondito, che noi da anni andiamo sollecitando a chi a pieno titolo possegga, appunto, gli strumenti della critica.
Ciò che fin da subito colpì degli scritti di Dina, fu, innanzitutto, la "padronanza del mezzo", ovvero ci si chiese come fosse stato possibile che una ragazza di campagna poco più che alfabetizzata, di limitate letture, possedesse quella sorprendente capacità di scrittura, di rimario, di vocabolario. E anche oggi permane questo interrogativo. I suoi scopritori (Piero Misciattelli e Aldo Lusini) ci dicono, ad esempio, che tutte le poesie di Dina sono antecedenti alla sua lettura del Pascoli (limitata comunque a Myricae); che non aveva letto niente di Leopardi, Carducci, D'Annunzio...

Eppure se ignorassimo la storia di Dina Ferri e le diffide del Misciattelli e del Lusini a cercare inutilmente nella Ferri certe ascendenze letterarie e certi prestiti, la prima cosa che si avverte, pur con i dovuti filtri, sono, invece, proprio certe coincidenze di temi, di vocaboli, di rime e di assonanze che, privilegiando, giustappunto, il Pascoli, rievocano certa letteratura italiana; quella, peraltro, più probabilmente antologizzata anche nei libri di scuola del tempo della Ferri.

Ma se sono pur vere queste coincidenze, è altrettanto vero che nei migliori versi di Dina Ferri (e chissà quanti sono stati tralasciati da Misciattelli, poiché, magari, non corrispondenti a un suo gusto estetico e a una sua visione del mondo) si ha una cifra espressiva di spiccata originalità, che in alcuni casi accenna ad andare ben oltre lo stile smorzato e crepuscolare del suo tempo, tipico di un filone espressivo del primo trentennio del Novecento. Esemplare, in tal senso, potrebbe essere la poesia intitolata Vorrei che esprime una modernissima inquietudine, un ansioso interrogarsi dinanzi all'ignoto e anche una coraggiosa ricerca di percorsi inconsueti:

Vorrei fuggire nella notte nera,
vorrei fuggire per ignota via,
per ascoltare il vento e la bufera,
per ricantare la canzone mia.

Vorrei mirare nella cupa volta
fise le stelle nella notte scura;
vorrei tremare ancor come una volta,
tremar vorrei, di freddo e di paura.


Vorrei passar l'incognito sentiero,
fuggir per valli, riposarmi a sera,
mentre ritorni, o giovinetto fiero,
chiamando i greggi, e piange la bufera.

Tuttavia, a mio modesto parere, il principale valore letterario di Dina – se pur si parli sempre di un valore in nuce – non risiede nelle poesie (che, salvo qualche eccezione, come nel caso di quella citata) risultano, è vero, un po’ di maniera, edulcorate secondo il mito romantico…, ma nei testi in prosa, soprattutto quelli che adottano una cifra stilistica forte, prosciugata. E’ lì che va ricercato il suo potenziale artistico purtroppo rimasto inespresso.

Se analizziamo le prose della Ferri, constatiamo tre diversi registri espressivi che crescono in drammaticità ed elaborazione letteraria parallelamente alla maturazione e alle dolorose vicende esistenziali dell’autrice.
Si comincia, nelle prime pagine, con dei quadretti di maniera, scene bucoliche, un generico sentimento religioso, che tanto risuonano di Alfredo Panzini (ad esempio quello di “Viaggio di un povero letterato”, libro peraltro presente nella bibliotechina della Ferri) dove l’autore insiste nella descrizione di piccoli universi, come quelli campagnoli, fatti di cose semplici, schiette, godute e respirate nella loro freschezza e purità (a una certa cultura cittadina piaceva immaginarli così).
Ma, ad onore di Dina, a me pare che i quadretti impaniati nella “bella lingua” del professor Panzini, allievo di Carducci e prolifico retore, risultino alquanto vacui (in contenuto e, oserei dire, anche in forma) rispetto a quelli della diciassettenne ragazza di Ciciano, appena alfabetizzata, che, con prosa nitida e sicura, conclude in questo modo la pagina sulla visita alla tomba del nonno: “Perché quell’esistenza si era spezzata? Perché non avrei più potuto obliare la tristezza del mio cuore nel sorriso di quell’anima che conosceva le aridità e le tempeste della vita e sapeva parlarmi con soavità delle cose eterne. Perché?”. O come quando, nella poesia “Due novembre”, con versi di notevole modernità, scrive di una campana che è come “un’eco di pianto”, “un confuso di preci e di lutto / uno schianto nel pallido flutto / genuflesso alle urne dei morti”.
Per non dire di quando le vicende della sua malattia si fanno sempre più gravi, ed ella scrive parole di forte tensione stilistica e ancora più prosciugate: “Ma io non vedrò ingiallire le foglie della vite, come quelle del granturco. Quando l’ultimo raggio della canicola sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato”.

Uno dei punti più alti e toccanti della prosa di Dina è racchiuso poi nel testo di quella preghiera scritta in Ospedale, dove – e non si capisce come sia possibile – si leggono in filigrana brani di sacra scrittura, di mistici quali Caterina da Siena, Teresa di Lisieux, Giovanni della Croce, di classici della spiritualità cristiana quali “L’imitazione di Cristo”.
A margine di queste note resta ancora da sottolineare come negli scritti della Ferri ci sia la totale assenza del sentimento amoroso…, perlomeno di un qualsiasi turbamento riconducibile, magari, a una generica vaghezza d’amore. E chissà se anche in tal caso il curatore del “Quaderno del nulla” sa qualcosa…

Per altri aspetti sarebbe inoltre interessante approfondire l'universo lirico di Dina Ferri che già il Misciattelli ebbe a definire pervaso di un "vasto senso di umanità sofferta". In effetti, ciò che impressiona di questa ragazza (anche prima che le si manifestasse la malattia) è sì una tenerezza accorata verso gli uomini e verso le cose, ma, soprattutto, un cupo, affranto sguardo sulla vita che, per quanto tipico di un certo mondo contadino, nella Ferri diventa ancora più inquietante, perché, a un certo punto, dietro l'apparente velo della rassegnazione, ella sembra, invece, ribellarsi; e non a caso scriverà: "ci ribelliamo alle leggi della nostra natura, e tentanto sollevarci nel vuoto, senza appoggio, ricadiamo più in basso".
Sul filo di questa analisi potremmo anche adottare la chiave interpretativa assunta da Claudio Borgianni nel suo recente lavoro teatrale dedicato a Dina, allorché il regista fa uscire la Ferri dal suo dramma tutto vissuto in maniera intima, per darle invece una voce fortemente estroversa, gridata, disperata, veramente ribelle nei confronti di un destino avverso.
Continuando a riflettere sull’universo lirico della poetessa, notiamo poi come anche i riferimenti religiosi abbiano, inizialmente, sempre il velo della tristezza. Basti vedere che campana fa spesso rima con lontana, con strana e una volta addirittura con vana, per arrivare a dire che "solo una cosa Ciciano conserva d'immutato: il pianto dele sue campane". L'universo lirico di Dina Ferri è, quindi, prevalentemente drammatico, tutto preso a riflettere sugli eterni contrari (non certo nuovi alla poesia) di vita/morte, gioia/dolore, bene/male. In Dina Ferri i sentimenti si fanno essenziali, precipitano verso l'aggrovigliato nodo dell'esistenza. Dirà, infatti: "al termine di questa via si legge il gran segreto che ci trascina; là c'è la chiave dell'incomprensibile enigma, del grande mistero".
Le ho solo accennate; ma ecco delle possibili tracce che potrebbero essere percorse per rivisitare con strumenti adeguati e pertinenti le pagine di Dina Ferri.
Insomma, troverei giusto che oggi si riproponesse all'attenzione della critica questa personalità così singolare (ebbene sì… rimasta incompiuta), sistematicamente ignorata dalla storiografia letteraria, anche della cosiddetta letteratura minore.
Sarebbe forse opportuno rimuovere il “Quaderno del nulla” da quel… nulla di limbo in cui è stato relegato. Possibile – mi chiedo – che non ci sia una misura di mezzo per collocarlo fra le mirabilia (probabilmente esagerate, proclamate da Misciattelli e Lusini) e il misconoscimento più totale? Forse dovremmo attivarci per interpellare nuovamente la cultura ufficiale, accademica, affinché essa confermi o no, a distanza di un secolo, lo status di poetessa di Dina Ferri.

Quanto al documentario che andremo a vedere, esso non ha alcuna pretesa di approccio critico all’opera della Ferri. Ben altro è lo scopo di questo video. Ovvero quello, estremamente divulgativo, di riproporre e far conoscere la vicenda umana di Dina, ancorché fortemente compenetrata a certi esiti letterari. Mai come in questo caso, infatti, biografia e bibliografia sono intrecciate fra loro, e l’una dipendente dall’altra. Non a caso, nel documentario, il racconto procede cadenzato dalla cronologia dei fatti e dal compulsare delle pagine del “Quaderno del nulla”, laddove Dina stessa racconta l’anima di quei medesimi accadimenti. E quel racconto è, appunto, vita. E quel racconto – a me pare – costituisce comunque un’apprezzabile pagina letteraria, degna ancora oggi di attenzione, pur nella consapevolezza della sua frammentarietà, della sua acerbità, del suo essere rimasta un “incompiuto canto”.

("Poetesse e scrrittrici toscane fra Ottocento e Novecento" - Chiusdino 2 e 3 ottobre - Convegno organizzato in occasione del centenario della nascita di Dina Ferri la poetessa pastora)

24/09/08

"Questa terra grigia lisciata dal vento"- La Valdarbia nelle pagine di scrittori e viaggiatori

La parola "paesaggio" è ormai un termine dai molti significati. Nel paesaggio, infatti, "vediamo" (ricerchiamo) natura, cultura, lavoro dell'uomo, istanza artistica, i riflessi delle aspirazioni e dei sentimenti umani. Ogni visione paesaggistica, dunque, diventa, in qualche modo, lo sguardo con cui le nostre emozioni intendono fissare la realtà. Ed avviene, di fatto, che nessun ambiente trovi, poi, una descrizione del suo "vero", quanto, piuttosto, un racconto di ciò che esso evoca. Persino la descrizione geografica – ritenuta, ingenuamente, oggettiva – non resta immune da visioni ideali ed anche ideologiche, a seconda che si adottino categorie di scienza naturale o di scienza umana.

Dunque il paesaggio, al di là della sua valenza estetica, è uno stratificato insieme in cui, lungo il tempo, natura e uomo e, quindi storia e civiltà particolari, hanno interagito e continuano ad agire. Tutto ciò a significare che nessuna realtà paesaggistica può essere ritenuta immutabile. E forse è proprio dentro questo stratificato divenire che risiede il mistero di ciascun paesaggio, la sua connotazione "interiore" ed estetica. Cioè, quell'essere specchio, nell'oggi, di una civiltà, di una cultura, di una memoria collettiva, di una esteriorità, che, in vario modo, si sono formate generando morfologie di terra e di anima. Così il paesaggio acquista anche una valenza immateriale. I luoghi, pertanto, non restano immutabili, dati una volta per tutte, ma "diventano", si trasformano lungo il tempo, per ciò che l'uomo vi costruisce e vi "vede". Essi, allora, non sono soltanto quello che mostrano, ma anche quello che sanno suscitare in chi li abita, in chi li visita. Ciascuno di noi, infatti, dinanzi ad un paesaggio, dentro uno spazio naturale, urbano, architettonico..., porta e riflette là il proprio mondo culturale ed interiore, le aspirazioni, i sentimenti; innesta, in quel luogo, la propria visione della vita, la sintesi della sua vicenda personale.

Proprio da tale processo di simbiosi e dal bisogno di raccontarlo nasce il "paesaggio letterario", ovvero il paesaggio che "sembra". E più quel racconto viene detto e scritto, maggiormente cresce e si consolida il suo mito letterario. Così è accaduto per le terre senesi, che, giusto per il fortissimo potere evocante in esse racchiuso, con/fondono al nostro sguardo il loro “essere” e il loro plurinarrato “apparire”. Descrizioni delle terre senesi le troviamo già sui medievali libri indulgentiarum (i libri dei pellegrini che andavano a Roma, i cosiddetti romei), sui taccuini (quasi sempre noiosi e pedanti) dei viaggiatori del Grand Tour europeo, su numerose e variegate pagine di letteratura ottocentesca e novecentesca... Insomma, le terre di Siena, dall'alto Medioevo in poi, saranno testo e pre-testo in molteplici scritti d'autore. Possiamo comunque dire che il vero "scritto letterario" lo si ha a partire dalla fine del Settecento (con l'inizio del romanticismo) quando, cioè, al manuale di viaggio semplicemente descrittivo si aggiunge la proiezione psicologica di stati d'animo e di riflessioni che scaturiscono dalla seduzione pittoresca dei luoghi: è allora che subentra anche il racconto emotivo dei luoghi, pur attraverso i filtri e i parametri culturali di chi quei medesimi luoghi osserva. Nasce allora il cosidetto "viaggiatore sentimentale" (testimonianza significativa è costituita proprio dal Sentimental Journey di Laurence Sterne, 1768, reso celebre in Italia dalla versione di Ugo Foscolo, 1813). Avviene così una sorta di scambio fra sentimento e scena paesaggistica. Dalla "vista" di un paesaggio si passa alla sua "visione". Il paesaggio non trova più e soltanto una sua descrizione estetica ma anche estatica. E' così che si inaugura la categoria del "pittoresco", la degustazione estetizzante e nostalgica di un luogo. E tutto ciò avviene anche nel caso delle terre senesi e – poiché stasera ci interessa una porzione particolare di queste terre – diremo che tutto ciò avviene anche nel caso della Val d’Arbia.

Chi giungeva a Siena da sud restava indubbiamente colpito dalla distesa delle Crete. E proprio le impressioni sulle Crete ci dimostrano ciò che prima andavamo dicendo: che, cioè, il paesaggio si modifica anche grazie alla sua percezione e descrizione. Le Crete – noi lo sappiamo – rappresentano un paesaggio scarno, in alcuni scorci persino inquietante; e, forse, proprio per questo fu “rifiutato” e liquidato in poche righe da scrittori come Stendhal e Dickens (tanto per fare solo due esempi). Stendhal attraversò le Crete in una fredda giornata del febbraio 1817 e annotò nel suo diario: «Scrivo in carrozza; procediamo lentamente, in mezzo a un seguito di collinette vulcaniche, coperte di vigne e di bassi ulivi: niente di più brutto. Per rifarci, di tanto in tanto attraversiamo una breve pianura impaludata da qualche fonte malsana». Pure Charles Dickens non andrà troppo più in là di qualche considerazione geologico-agricola: «[...] percorrendo una campagna alquanto desolata (sino ad allora non c'erano state altro che viti, nient'altro che miseri stecchi in quella stagione dell'anno) ci fermammo come sempre, a mezzo della giornata, per un'ora o due, al fine di far riprendere fiato ai cavalli; ciò infatti rientra in tutti i contratti dei vetturini. Allorché riprendemmo il cammino, passammo per luoghi sempre più desolati e selvaggi, sicché il paesaggio assunse i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi».

In verità saranno soprattutto gli scrittori novecenteschi a svelare l'anima delle Crete, di questa terra "difficile" che, da lontano, accende il miraggio gotico di Siena. A tale proposito merita subito richiamare ciò che Albert Camus annotò nel suo taccuino di viaggio: «[…] vorrei rifare a piedi, sacco in spalla […] quella campagna d'uve e d'olive, di cui risento l'odore, attraverso quelle colline di tufo azzurrognolo che si estendono fino all'orizzonte, veder allora sorgere Siena nel tramonto con i suoi minareti, come una Costantinopoli di perfezione [...]».
Commossa ed entusiastica è pure l'impressione di André Suarès: «Prima di varcare la soglia di Siena [...] si percorre una valle lunare; i lunghi ceri dei cipressi vegliano spenti sulle ceneri, taluni in fila a guisa di funerale, altri in circolo, a formare un concilio pensieroso; e le sabbie grigie ondeggiano sotto il cielo come groppe di elefanti che camminano sotto terra, lasciando affiorare soltanto la schiena». Intorno alla metà del Novecento, si incontreranno, poi, pagine, come quelle di Romano Bilenchi, dove il panorama delle Crete diviene persino scena di scavo psicologico. Ad esempio nel romanzo Conservatorio di Santa Teresa, Bilenchi pone il piccolo e introverso protagonista di fronte a una campagna i cui limiti orografici sembrano segnare l'interiore linea di confine fra costrizione e libertà: «Le crete chiudevano a sud la pianura. Nei pomeriggi di bel tempo, quando prati e alberi soggiacevano all'immobilità dell'aria e occorreva sforzarsi a raccogliere da una direzione qualsiasi della campagna o dell'orizzonte uno stimolo per fantasticare perché la mente non si assopisse nella calma immensa, gli unici soccorsi venivano dalle crete. Era una liberazione scrutarne il pallido grigiore dall'alto delle colline. A distanza di alcuni chilometri, le crete sembravano il margine di un deserto, promettevano visioni esotiche, avventure singolari simili a quelle degli uomini vestiti nelle fogge più strane dei quali parlava un vecchio libro riccamente illustrato. [...] Ricevuto dalle crete l'imperioso stimolo ad abbandonare la fantasia a una corsa sulla campagna dormiente si chiudeva in sé: il filo delle immaginarie avventure non doveva interrompersi per intromissioni di nuove attrattive che, lungo il cammino, la campagna poteva suscitare da un momento all'altro». Già Federigo Tozzi, comunque, aveva interiorizzato quel paesaggio e percepito tutta la sorpresa e lo sconforto che i colori, le sinuosità, le ombre delle Crete evocavano. Ripetuti scorci delle prime terre della Val d'Arbia – quelle che subito si intravedono appena usciti dalla parte sud di Siena – Tozzi li intaglia lungo le pagine del Podere: la disperata inettitudine del protagonista Remigio, troverà spesso riparo e consolazione guardando là «[...] dove non c'erano monti e l'orizzonte pareva scavato nell'argilla [...]; la notte, il fontone pareva uno specchio disteso sotto la luna. Attorno le crete rilucevano; anche perché rendevano la luce assorbita durante il giorno». Questa campagna che si vede da Siena e in cui si incuneano le strade che da porta Tufi e porta Romana vanno a confluire verso la Val d'Arbia, fu, per Anatole France, durante un suo soggiorno senese, meta preferita di ripetute passeggiate serali: «La sera, dopo cena, andavo a passeggiare sulla strada selvatica di Monte Oliveto dove, nel crepuscolo, imponenti buoi bianchi aggiogati tiravano, come ai tempi del vecchio Evandro, un carro rustico dalle ruote piene. Le campane della città annunciavano la tranquilla morte del giorno; e il rosso della sera calava con melanconica maestosità sulla bassa catena delle colline».

Tralascio alcune descrizioni di Mario Pratesi, Camillo Sbarbaro, Carlo Betocchi, per sfogliare, invece, pagine che stasera ci interessano maggiormente, come talune di Henry James (e torniamo agli ultimi decenni dell’Ottocento), che dinanzi alle Crete (quelle su cui si snoda la strada che da Buonconvento conduce a Monte Oliveto) riferisce di un'atmosfera rarefatta, sospesa: «[...] non incontrammo assolutamente nulla e nessuno, mentre trottavamo dolcemente, in quelle splendide ore d'estate, attraverso quell'arida desolazione che pure in qualche modo ci sorrideva di continuo [...]». Lo stesso paesaggio trova una puntuale e partecipata descrizione di John Addington Symonds: «Abbandoniamo qui la strada maestra e ci immettiamo in un viottolo attraverso un letto d'arenaria, avendo davanti il delicato profilo vulcanico del Monte Amiata e sulla destra l'aereo cucuzzolo di Montalcino. […] Ecco Monte Oliveto, una massa di rosso laterizio con i cipressi per sfondo fra arruffati calanchi, o balze come le chiamano qui, sulla collina che si trova sotto il villaggio di Chiusure. [...] Le balze si fanno più arcigne, più aride, spaventose. Ci si accorge come gli scrosci d'acqua rovesciati dai temporali trascinano verso il basso viscosi rigagnoli d'argilla distruggendo in un'ora i terrazzamenti che hanno richiesto un anno di lavoro e spargendo sui miseri campicelli di grano una melma devastatrice. La gente dà il nome di crete a questi terreni, ma più che terra gessosa la loro sembrerebbe essere marna. Essa tende di continuo a smottare in gole e calanchi, mettendo a nudo le radici degli alberi e facendo della coltivazione del terreno un lavoro ingrato. Ci si chiede come le poche piante possano attecchire in questa tetra desolazione, o dove trovino la pazienza quei contadini che, una generazione dopo l'altra, rinnovano il lavoro, sempre all'inizio e mai alla fine, richiesto da un simile deserto». Virginia Woolf restò così folgorata dall’Abbazia olivetana, da scrivere alla sorella: «[…] ieri siamo andati in un posto dove mi farei seppellire, se le ossa potessero andare a spasso – cioè Monte Oliveto; oh oh oh – cipressi, vasche quadrate, buoi, e non grandi colline spigolose, ma piccole colline vellutate – e il monastero […]». Un secolo dopo rispetto alla Woolf, la visione di Monte Oliveto occuperà anche la penna di Guido Piovene: «Il paesaggio dietro il convento, a monticelli, costole, spacchi bianchi, già appartenente all'arte. Sembra lo scenario approntato dalla natura stessa per recitarvi il dramma sacro della lotta tra Dio ed il demonio tentatore. Il pensiero ritorna ad un affresco del Signorelli, nel chiostro, in cui il diavolo appare sotto le spoglie di un innocuo viandante incontrato per caso, col volto del primo che passa».

Sempre le Crete che sprofondano fra Monte Oliveto e Chiusure, suggeriranno a Mario Luzi una grande allegoria ascetico-filosofica: «Penso a luoghi come Monte Oliveto: numerose persone vi salgono per poi stringere la focale dello sguardo nei sottostanti e profondi cretti di argilla; ma non credo che ne ritornino “colme”, quanto, piuttosto, prosciugate. Quella natura non regala cose da portare via, ma purifica, rende aperti ad altro. Si spalanca ai nostri occhi la terra-pagina di un libro difficile, smarginato, da decifrare, dove ci viene pur spiegato che l’assenza è intrinseca alle cose, alle forme, non di rado qualificate proprio dal loro “vuoto”. Libro che, d’altro canto, consola perché rivela la pienezza che le lacune hanno tratto a sé. Dunque, libro che aiuta a riformulare la perdita in speranza, l’assenza in ricongiungimento. A guisa di inserto giocoso (e per scrupolosità di repertorio) si ricorderà un'altra celebre citazione letteraria di Buonconvento, nel Decameron (IX Giornata, Novella IV), laddove si racconta che «Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa pigliare a' villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia». Epilogo della burla fu che l’Angiolieri, per la vergogna, non «ardì di tornare a Siena», ma con dei vestiti prestatigli se ne andò da certi «suoi parenti a Corsignano, co’ quali si stette tanto che da capo dal padre fu sovvenuto». Proseguendo nel nostro excursus – e spostandoci a Montalcino – merita inoltre citare Carlo Betocchi, che, affacciato dagli spalti della fortezza ilcinese, guarda «la veridica tristezza dell'affilato, irreale crinale dei calanchi». La visione che Mario Luzi ha dalla fortezza di Montalcino è invece quella di un paesaggio aperto "nella sua galoppata verso il mare"; ed ecco la poesia il cui primo verso ha dato titolo al nostro incontro:

Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi
nella sua galoppata verso il mare,
nella sua ressa d'armento sotto i gioghi
e i contrafforti dell'interno, vista
nel capogiro dagli spalti, fila
luce, fila anni luce misteriosi,
fila un solo destino in molte guise,
dice: “guardami, sono la tua stella”
e in quell'attimo punge più profonda
il cuore la spina della vita.
Questa terra toscana brulla e tersa
dove corre il pensiero di chi resta
o cresciuto da lei se ne allontana.
Tutti i miei più che quarant'anni sciamano
fuori del loro nido d'ape. Cercano
qui più che altrove il loro cibo, chiedono
di noi, di voi murati nella crosta
di questo corpo luminoso. E seguita,
seguita a pullulare morte e vita
tenera e ostile, chiara e inconoscibile.

Tanto afferra l'occhio da questa torre di vedetta.

Mentre Romano Bilenchi così racconta le impressioni di Ottone Rosai su Montalcino e sulla immensa distesa di crete che lo circondano: «Si mise a parlare del mio paese, di Siena, della campagna, di Montalcino e della immensa distesa di crete che lo circondavano, come se non fossi stato con lui in quella gita e, a volte, i giudizi contrastavano con quelli già espressi durante la strada. Lo aveva colpito la varietà della campagna, ora geometrica e parca, ora ricca di verde e di alberi, disordinata, ora resa deserta dalle crete. Mentre da Buonconvento correvamo a Montalcino e a Radicofani, mi disse, era stato così oppresso dalla malinconia da non potere isolare e percepire distintamente un solo tratto di quella terra spoglia e angosciosa che tanto gli sarebbe piaciuto dipingere, mentre gli era facile con le strade di Firenze e con quelle che attorniavano Firenze da ogni lato e alle quali sapeva legare ogni attimo della propria tristezza e della propria felicità».
Solo la poesia di Mario Luzi, però, saprà accendere lo scenario delle Crete di una luce abbagliante, astrale, profondamente metaforica. E' là che Luzi vede una perennità di vita continuamente generata dal naturale riassorbirsi della morte nel ciclo naturale della terra. Come evidenzia Stefano Verdino introducendo l'opera poetica luziana: "Non esiste nella poesia italiana del nostro secolo una poesia così intrisa della campagna intesa non come paesaggio ma come vita".
Sentite l’intensità di questi versi:

La strada tortuosa che da Siena conduce all'Orcia
traverso il mare mosso
di crete dilavate
che mettono di marzo una peluria verde
è una strada fuori del tempo, una strada aperta
e punta con le sue giravolte al cuore dell'enigma.

Reale o irreale, solare o notturna –
assorti ne seguivano
il lungo saliscendi
di padre in figlio i miei vecchi con un presagio di tormento.

Reale o irreale, solare o notturna –
interroga negli anni
la mente – e l'idea di vita le si screzia
d'un volto doppio imprendibile –
interroga il pianeta duro della landa,
i poggi bruciati, le sparse rocche.
E il vento, non so se dal tempo o dallo spazio, che frusta il sangue.

Pensieri tirati sulla corda
d'un'interrogazione senza fine
non lasciano vivere, non hanno risposta.
Lo intende bene lei passata da quelle dune.


Ecco, quindi, presentarsi continuamente il dilemma, poiché – dice Luzi – «questa terra eccita ed alimenta la condizione enigmatica dell'uomo: la rappresenta e la asseconda. Ciascuno di noi ha dentro di sé perplessità dense di mistero e qui trovano un "luogo"», come quando, ricordando la sua adolescenza senese sui banchi del ginnasio Guicciardini (oggi Piccolomini) ripensa al paesaggio della Val d’Arbia guardato, insieme ai suoi compagni di scuola, dai finestroni di piazza Sant’Agostino:

La terra senza dolcezza d'alberi, la terra arida
che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto
e incresta in lontananza
(inganno o verità,
miraggio o evidenza –
insidia a lungo la mente
una tortura di dilemma) sperdute torri, sperdute rocche
è un luogo non posseduto dal senso, una plaga diversa
che lascia transitare i pensieri
però non li trattiene, non opera come ricordo, ma come ansia.

Inganno o verità, miraggio o evidenza –
Smarriti ne seguivano i lineamenti
con la testa rialzata sopra i quaderni
trasmettendosi oscura una domanda
e un indecifrato avvertimento i miei compagni di banco.
Inganno o verità, miraggio o evidenza –
sarebbe poi negli anni
tornata spesso la mente al suo non sciolto enigma.
E nel sangue la febbre,
nella febbre la fiamma
d'un'aspettazione incolmabile – ne sai niente?

Pensate che a un certo punto Luzi definisce l’attraversamento della Val d’Arbia come «viaggio della mia preghiera», ovvero viaggio di ritorno, di fine-esodo e, perciò, di ricongiungimento fra l'Essere e la nostra esiliata umanità. Avverte il poeta: «E' dolce e consolante che le orme del nostro passaggio, se pur effimero, lascino segno su questa terra tanto particolare da pensare, a momenti, che sia "terra promessa"»:

Passata Siena, passato il ponte d'Arbia,
è lei, terra di luce
che sempre, anche lontano,
inseparabilmente mi accompagna.
– Grazie, matria,
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo,
d'un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno,
sbattuti continuamente
eppure aguzzi
come freccia verso il bersaglio,
non negarmi mai il mio ritorno,
da dove che sia aprigli il tuo regno,
fosse pure il trascorrere di un'ombra
dal nulla al nulla, fluisca sopra il tuo schermo.
Questo era il mio viaggio
o il viaggio della mia preghiera.
Mio? di lei?
Era, comunque. Era.

Paesaggio d'anima, dunque. Scenario essenziale, allusivo, onirico. Così, peraltro, ebbero a percepirlo, secoli fa, anche i pittori della Scuola senese che, nella loro purezza formale prossima all'astrazione, ne fecero ripetute citazioni raffigurandolo nei suoi rilievi inceneriti, desertici, a volte appena striati dal verde di una stenta vegetazione o prolungati, verso il cielo, da esili alberelli in balìa di chissà quale venticello. Fin da allora, dunque, si colse quel mistero interrato dentro una natura dalle forme bizzarre e imprevedibili; che trasuda a pelo di una vastità ove – giustappunto come sostiene Luzi – pare replicarsi, all'infinito, la lotta cosmica fra luce e tenebra. Insomma, una plaga in cui sembrano aver trovato davvero rifugio tutti gli enigmi della condizione umana.
Considerate, dunque, voi che l’abitate, in quale ricchezza di terra e d’anima avete e conservate le vostre radici.


("Questa terra grigia lisciata dal vento"- La Valdarbia nelle pagine di scrittori e viaggiatori, appuntamento organizzato da sienalibri.it a Buonconvento in occasione della 40esima edizione della Sagra della Valdarbia)

29/08/08

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