18/10/10

I matti nella letteratura: drammatici, buffi, poetici, comunque giudici della “normalità”


Il primo matto che quasi tutti noi abbiamo incontrato tra le pagine di un libro è stato quell’Orlando non a caso definito furioso. Lui impazzisce per amore quando gli appare evidente che la “sua” Angelica non era per niente sua ma di Medoro. Esce dunque di senno, vaga seminudo nel bosco pronunciando parole prive di senso, usa uomini come bastoni per colpirne altri, distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino. Il poema ariostesco fu ritenuto per molto tempo opera d’evasione finché Hagel non fece notare che vi era contenuta, invece, una sottile critica ai valori della cavalleria e quindi la consapevole analisi che un’epoca era finita. Così il furioso (e per noi divertente) Orlando, fornisce a suo modo una lettura della realtà e introduce l’idea che il comportamento dei matti possa anche rappresentare un giudizio, interrogare su quale sia la visione “giusta” del mondo.
La drammatizzazione della follia prodotta dalla letteratura ha indubbiamente contribuito a insinuare proprio questo dubbio sul ciò che sia “normale” (nel vivere sociale e nei comportamenti degli individui che alla società debbono conformarsi); nonché a cogliere le diverse, drammatiche (talvolta buffe) contraddizioni della natura umana. Verrebbe da citare, al proposito, la tragedia shakespeariana di Re Lear, tanto ricca di risvolti psicologici e ideologici, dove il fatto centrale è la pazzia del Re che va a coincidere con il tempestoso sconvolgimento della natura. Perché è un uragano anche quello che devasta la mente e i sentimenti dei protagonisti, fino a stravolgere, oltre la sfera privata, le gerarchie sociali. Ma attraverso il disordine della pazzia, Lear ritroverà la radice della natura umana. E questo grazie alla figura del Matto che permette al sovrano di comprendere i propri errori e le incapacità di giudizio, gli apre gli occhi.
Se poi intendiamo confrontarci con la pazzia “che ride” sarà inevitabile non pensare al Don Quijote di Cervantes: talmente divertente è il susseguirsi delle circostanze che vorremmo assumere quella pazzia a normalità. Disposti, dunque, ad essere noi gli ammirati scudieri di un animo così grande e sublime. Di follia in follia (di libro in libro) arrivare magari all’Enrico IV di Pirandello, per apprendere come “tutti siano pazzi e che la pazzia sia una scelta quasi obbligata dalla necessità di avere un posto in un mondo che non è fatto per noi”. Enrico IV è talmente convinto di tale verità che svelerà ai suoi servitori di aver finto di essere ancora pazzo perché, rinsavito, aveva scoperto amaramente di essere arrivato “con una fame da lupo ad un banchetto già bell’e sparecchiato”, riferendosi a quei dodici anni mai esistiti per lui e goduti dagli altri. La decisione, dunque, di ritornare nel limbo-prigione della pazzia è dettata dalla constatazione che nel mondo non c’è più posto per lui. Ecco, allora, il dramma dell’emarginazione umana.
Infine vorremmo, in queste sparse (e per essere in tema, un po’ schizofreniche) note, ricordare un autore, Mario Tobino (quest’anno ricorre il centenario della nascita) che da psichiatra e scrittore ha dedicato agli enigmi e ai deliri della follia emozionanti pagine. La sua concezione poetica (estetica) della pazzia e dei manicomi fu motivo di forti critiche. Non era certo in discussione la sua buona fede. Basti leggere le parole che pose in premessa ad una riedizione delle Libere donne di Magliano: “Scrissi questo libro per dimostrare che i matti sono nature degne d’amore…”. Da Tobino si ricava quindi una lezione che va oltre la letteratura: nei matti, dietro il sigillo delle loro fragilità e delle dolorose angosce, c’è comunque un termine di confronto che, in quanto paradossale, misura in noi la capacità di capire (di amare) la realtà, ovvero a quale livello di pazzia sia giunta la nostra normalità.

11/10/10

Parole a sorsi. Il vino nel calamaio


Sulle tavole letterarie il vino più servito è indiscutibilmente quello di Orazio. Autore quanto mai travisato (anzi, travasato) nello stereotipo di un semplificato epicureismo; a fronte, invece, di una personalità tormentata dalla vita e soprattutto dall’idea della morte. E siccome il cuore può arrovellarsi e immalinconire negli irrisolti enigmi dell’esistenza “allora – recitava il poeta – tu laggiù consolerai il male col vino e il canto”.
Si ricorderà, peraltro, come una volta il vino venisse abitualmente usato per disinfettare le ferite, e quindi, verrebbe facile aggiungere che fosse e continui ad essere taumaturgico anche per le escoriazioni dell’anima. Charles Baudelaire si spinse a dire che Dio, preso dal rimorso, aveva creato il sonno per annegare il rancore e cullare l’indolenza di tutti i vecchi che silenziosamente muoiono, e “l’Uomo vi aggiunse il Vino, sacro figlio del Sole”. Il maledetto Charles non mancò pure di enfatizzare il potere visionario che dona quel “sacro figlio del Sole” (lui, magari, lo abbinava a una tiratina di oppio), tanto che “la più sordida stamberga si riveste di un lusso miracoloso e fa sorgere più d’un portico favoloso nell’oro del suo vapore rosso”.
Insomma qualche reiterato bicchiere costituiva una bella terapia contro la depressione. Più lo tiravi giù e più emergeva l’inconscio. Peccato che poi giunse la psicoanalisi, concorrente sleale ed incolore dello “spirito”. Così i disgraziati che si addormentavano sui tavoli delle osterie cominciarono a potersi permettere il divanetto del dottor Freud e in una stupefacente inversione siamo arrivati al punto che una bottiglia di Brunello possa costare molto più di una seduta psicanalitica (giustamente, direte voi: non è certo paragonabile la fatica di pigiare l’uva con la melliflua strizzatina di un altrui cervello).
Ci sono stati comunque scrittori che hanno saputo fare buona sintesi tra vino e scienza freudiana. Si pensi a Svevo e a quel suo Zeno Cosini, il quale, invitato alla cena che preludeva le nozze della donna un tempo amata e mai dimenticata, bevve esageratamente per far uscire da se stesso un altro io arrogante ed astioso: “Per l’effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell’animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta”.
Oggi, nell’epoca del politically correct e della società “liquida”, il bere (quello chic della morigeratezza, l’altro più triste dell’etilismo) è diventato tema da convegni. E poiché la ragione è di natura astemia finisce sempre in una sbornia di parole.

04/10/10

Contromarcia. Etica e poesia della lentezza


Si fa un gran parlare di lentezza, perché improvvisamente ci siamo accorti che per arrivare puntuali agli appuntamenti con se stessi e con la vita è del tutto sconsigliabile correre. Ne va di mezzo la nostra incolumità, uno sconveniente afrore di sudaticcio, la dignità di chi non vuole mostrarsi schiavo del tempo ma artefice del “suo” tempo. E c’è molto di più. Siamo infatti giunti alla conclusione che la lentezza costituisca un atteggiamento etico da opporre alla rapidità che, invece, “consuma” il mondo, ne accelera la fine. Qualsiasi frenesia menoma la percezione delle cose, sottrae risorse, atrofizza sensibilità e sentimenti, rende illeggibile la realtà.
Furono, questi, temi particolarmente sentiti da un inquieto poeta, Paul Valéry, il quale spinse la sua polemica fino al punto di ritenere che progresso (ovvero velocità del cambiamento) e morte (caducità del mondo) fossero inestricabilmente connessi. Un poeta “terrorista”, si dirà, che per opporsi alla velocità, giunge – ironia dei ragionamenti e delle parole – a conclusioni forse troppo… frettolose.
E’ pur vero che i poeti – per dirla ancora con Valéry – vivono “dans un ordre insensé”, persi come sono su strade improbabili, in itinerari insinuati continuamente dal dubbio del bivio; costretti, dunque, a procedere per metafore e similitudini. La poesia, anche quando urga nel nostro intimo, non può essere impaziente, in quanto connaturale alla lentezza e di questa la gustosa primizia. Chi coltiva la lentezza come dimensione della mente e dell’esistere, è naturalmente poeta. Sa che la poesia vive prima indefinita, dispersa, circospetta dentro i giorni, finché non prenda la forma che giusto le orme dei nostri (e altrui) passi le danno. C’è comunque un movimento che la genera, anzi un viaggio. E non è un caso che sia spesso la poesia a ricongiungerci con una lontananza. Essa ha del viaggio proprio la stessa connotazione, che è poi quella della nostalgia rispetto a ciò che si lascia e verso quanto di inconosciuto desideriamo raggiungere. La distanza tra queste due nostalgie è colmata, appunto, da un lento cammino “poetico”.
Al tempo in cui ogni piccolo villaggio poteva vantare almeno uno scemo, il malcapitato era definito necessariamente “lento” e “un po’ poeta”. Oggi che il villaggio è vasto e lui stesso interamente scimunito per la rapidità con cui è cresciuto, si insigniscono di cittadinanza onoraria i lenti e i poeti. Dai manifesti apprendiamo che la cerimonia è fissata un’ora prima della fine del mondo. Non c’è dunque bisogno di correre, ma di pensare.