25/11/13

Oggi per domani. La necessaria “metànoia”

Siena capitale europea della cultura. Un progetto, un auspicio, una competizione. Una sfida che la città ha avviato soprattutto con se stessa, non più – o, almeno, non solo – per compiacersi (è il vezzo che da sempre le viene facile) ma per mettersi finalmente in discussione. Sembrerebbe finito il tempo della manutenzione ordinaria del passato, a tutto vantaggio di una prospettiva, lungo la quale si intenderebbe re-intrerpretare la città, le peculiarità che le sono proprie. Rifornendola, perciò, di idee, motivazioni, risorse economiche e intellettuali, di fiato lungo e non dopato. Se la comunità senese ambisce a proporsi come capitale della cultura, il primo atto che le viene richiesto è proprio quello di attuare un’operazione culturale su se stessa. Ovvero di cambiamento di mentalità, di metànoia dicevano gli antichi greci per definire una radicale trasformazione nel modo di pensare e di vedere le cose. La parola piacque a tal punto al cristianesimo da farne sinonimo di “conversione”. Ebbene, sono auspicabili certe conversioni anche nella “città degli uomini”, nella res publica. Non esiste, però, mutamento che possa prescindere da un processo culturale. Allorché le menti vanno a (in)formarsi – si mettono in rete, per usare un termine consueto – con quanto sia loro diverso e affine, noto e sconosciuto, logoro e immutabile, particolare e universale. Tale è l’auspicabile conversione a fronte di un patrimonio condiviso (materiale e immateriale) da porre, oggi per domani, nella disponibilità delle generazioni future. D’altra parte, come ebbe a dire Franco Fortini in una lezione magistrale tenuta all’Università per Stranieri quasi 25 anni fa, “il discorso sulla immagine convenzionale di Siena si è mutato in quello, assai temibile, della eredità”. A questo proposito il grande intellettuale si chiedeva in quale modo i più giovani vedessero (e vivessero) la città, in considerazione del fatto che una sua rappresentazione possa – debba, ci mancherebbe! – conservarsi, “ma come un documento o un cimelio; non crederla vera”. Analisi acuta e, volendo, trasformabile in programma di governo. Evitando, magari, la solita solfa di quel “buon governo” che è, certo, un capolavoro dell’arte, ma anche uno sfacciato manifesto di demagogia. Un governo, dunque, senza aggettivi. Di soli sostantivi, anzi di sostanza. Nel frattempo si avvertano i diretti interessati che i cadreghini del potere (o presunto tale) sono tarlati, i forzieri svuotati, gli dèi adirati. E si dica alle scolte che ogni notte montano guardia alle antiche mura che oggi le disfide si vincono lasciando le porte aperte.

18/11/13

Corsaro e luterano. Il poeta che oppose l’arte al degrado

“La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Lo affermò Pier Paolo Pasolini. Lui che incompreso risultò ai molti, frainteso da diversi, e, quando compreso, a maggior ragione ignorato. Poiché il suo pensiero rifiutava le semplificazioni, il suo modo di confrontarsi (e scontrarsi) era diretto, frontale. Fu troppo comunista per essere poeta e troppo poeta per essere comunista. Mistico blasfemo, asceta lussurioso, veggente snobbato. Un reazionario di sinistra (così lo definì Enzo Siciliano), angosciato dall’omologazione, dal “genocidio” culturale in atto nella società e perpetrato da un potere che andava espropriando i comportamenti e le esistenze di tutti. Il poeta venuto dalla friulana Casarsa della Delizia (un vecchio borgo “intronato dal suono senza tempo della campana”), provò, così, a contrapporre l’arte al degrado, a conficcare il punteruolo della poesia nella scorza della realtà. Invano, ovviamente. Il degrado sarebbe stato trasfigurato (ottimizzato) in modello sociale. Il popolo – termine, già allora, un po’ fané per significato e significante – sarebbe diventato “la gente” o, per meglio dire, “il pubblico”, quello della televisione naturalmente. La mutazione antropologica avrebbe ammorbato ogni espressione della vita individuale e sociale: famiglie, scuola, politica. Ora che quel degrado è a sua volta degradato in qualcosa di più sfuggente, si torna ancora a farci la domanda retorica: cosa direbbe Pasolini se fosse sempre vivo. Ma forse avrebbe maggiore senso interrogarsi per quali ragioni lo scrittore “corsaro” potrebbe avere da ri-dire. A fronte delle nuove volgarità, ipocrisie, corruzioni, ingiustizie, povertà. Dinanzi a tutti gli Alì dagli occhi azzurri che approdano (quando approdano) a Lampedusa dalle “barche varate nei Regni della Fame” (pure in questo fu profeta). E chissà come concepirebbe, oggi, l’episodio de La ricotta, a quale tipo di “poraccio” assegnerebbe il ruolo del ladrone buono, morto in croce, vittima sacrificale del mondo all’epoca detto borghese, che paga il prezzo della vita perché “morire era l’unico modo che aveva per fare la rivoluzione”. Giudicherebbe, dunque, questo nostro tempo al vaglio della sua speranza, disperazione, ironia. O forse si limiterebbe a guardare con lo stesso sguardo tragico, sconvolto e beffardo che Anna Magnani, sul finale di Mamma Roma, rivolge ai palazzi in costruzione della nuova città in cui aveva sognato di abitare. Un sogno ormai riposto e negato. Alberto Moravia disse che di artisti come Pasolini ne nascono uno ogni cento anni. Non mancherebbe molto. Speriamo.

11/11/13

Scritti… a macchina. Con il rombo delle parole

In questi appuntamenti domenicali è capitato di ricordarlo altre volte: è sempre il racconto (e la sua reiterazione) a creare il mito. Ancorché si tratti di miti sorti in àmbiti che sembrerebbero oltremodo distanti dalla supponenza della letteratura. Pensiamo, ad esempio, ad una officina dove si riparano automobili. Luogo apparentemente agli antipodi della letterarietà. E invece risulterà meno innaturale di quanto si creda assimilare quelle chiazze di morchia al nero degli inchiostri che, guarda caso, di macchine e dei loro piloti hanno scritto leggende. Nella vasta aneddotica riferita a Gabriele D’Annunzio – a cui, notoriamente, piaceva il rombo dei motori – si dà pure notizia di un incontro tra il Vate e Tazio Nuvolari, avvenuto nel 1932 a Gardone Riviera. Sette ore di conversazione, un pranzo insieme, una tartarughina d’oro che D’Annunzio regalò a Tazio accompagnandola con queste parole: “All’uomo più veloce del mondo, l’animale più lento”. Perché Nuvolari – “il mantovano volante”, colui al quale Enzo Ferrari attribuì l’invenzione della “sbandata controllata”, l’uomo provato dalle vicende della vita e, in ragione di ciò, pronto a sfidare la vita stessa – aveva affascinato tutti. Orio Vergani, che ne fu amico, tracciò di lui un vero affresco poetico, ricordando una scarrozzata notturna che parve come “salire verso la luna”, a testimonianza che Tazio avesse con gli astri un intimo legame. La letteratura non ha dimenticato nemmeno un altro mito dell’automobilismo: Juan Manuel Fangio. Bello ed essenziale il ritratto che ne fa Osvaldo Soriano nel libro Pirati, fantasmi e dinosauri. Parla di un “idolo tranquillo”, consapevole della propria grandezza, ma che non andava in giro a proclamarla. Insomma – dice Soriano – non certo paragonabile a un esaltato come Maradona. Fangio “era un uomo di campagna, un meccanico di Balcarce che avrebbe voluto diventar giocatore di pallone ed era stato il campione di tutti i circuiti”. Incredibile. Il fascino delle Mille miglia coinvolge persino un poeta appartato come Vittorio Sereni, che in un testo datato Brescia 1955, così comincia: “Per fare il bacio che oggi era nell’aria / quelli non bastano di tutta una vita. / Voci del dopocorsa, di furore / sul danno e sulla sorte”. Inoltre, agli amanti dei sentimenti che corrono su quattro ruote, rammentiamo almeno altri tre titoli. Il racconto di Giuseppe Berto dall’inequivocabile titolo di Pistone (due ragazzi si imbucano avventurosamente nella corsa delle Mille miglia), il romanzo Il cielo non ha preferenze (drammatica storia di macchine e d’amore) di Erich Maria Remarque e Dopo corsa, che si trova in Gente di Dublino di Joyce (“Le automobili filavano veloci verso Dublino, parevano proiettili nel solco della Naas Road”). Tutto ciò per dire come l’automobilismo raccontato abbia decisamente… una marcia in più.

04/11/13

In tema di Shoah - Meditate che questo è stato

Nel romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, c’è una pagina indimenticabile. Siamo nel 1938, l’anno dell’emanazione delle leggi razziali. Tutta la famiglia è festosamente riunita a tavola per la celebrazione della pasqua ebraica. Si sta cantando uno di quei canti che il rito, scandito da una sorta di pedagogia dottrinale, dedica ai bambini; e che in cuore agli adulti risuona come lo struggimento di una nostalgia atavica. Improvvisamente squilla il telefono, qualcuno va a rispondere, ma nessuna voce è all’altro capo. Una, due volte. Non c’è interlocutore. Solo un mutismo minaccioso, vigliacco. Da quel subdolo avvertimento che oltraggia la festa, i sentimenti, l’intimità della casa si giungerà fino all’orribile epilogo: cinque anni dopo i Finzi-Contini saranno deportati nei campi di concentramento nazisti, a morire dentro il più inenarrabile paradosso della storia. La scena descritta da Bassani colpisce per come l’enormità (ma anche l’astrattezza) di un numero (6 milioni saranno gli ebrei sterminati) vada a rimpicciolirsi – e di nuovo a ingigantirsi – nei giorni, nelle stanze, negli affetti di una famiglia. Proprio questa rappresentazione ‘minima’ risulta sconvolgente, poiché induce il pensiero verso ciascuna di quelle persone che andarono a costituire l’atroce somma. Immaginiamo, così, storie famigliari che, al pari delle nostre, intrecciavano amore, vincoli, memorie, progetti. E che – non per fatalità, ma per malvagio disegno – vennero infranti. Tale è la riflessione e il turbamento che ogni volta attanaglia passando dinanzi alla Sinagoga di Siena, sulla cui facciata è posta una pietra. Lo scalpello, temprato a sdegno e pietà, vi ha scalfito queste parole: “Furono pur veri i campi di spietato annientamento, incredibili strumenti di disumana prepotenza. Con sei milioni di ebrei vi scomparvero i deportati da Siena, figli di una dottrina di giustizia e di amore. Con carità e benedizione siano i loro nomi ricordati”. Seguono 14 nomi e la loro età. Inevitabile non notare che Marcella Nissim aveva 20 anni, Gabriella Nissim 14, Morosina Valech 24, suo fratello Ferruccio 13. Di Ferruccio esiste una foto che lo mostra serio, con due occhioni tristi. Lo sguardo che sembra penetrare la cortina del presagio. Il 14 novembre 1943, giorno del suo tredicesimo compleanno, fu fatto entrare nella camera a gas di Auschwitz. Lo tenevano per mano il babbo e lo zio. La sua giovane vita fu spintonata nell’abisso dove tutt’oggi gorgoglia una domanda: “Ma perché?”. A scemenze, malafede, ignoranza, provocazioni che supportano il cosiddetto negazionismo, non si replica con una legge (che, per assurdo, potrebbe addirittura alimentarlo) ma con un impegno civile e culturale. Anche in tal caso valga il binomio di conoscenza e coscienza. Da qui la perentoria ammonizione di Primo Levi in apertura al libro Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”.