22/02/10

Aneliti unitari. Tutti poeti in… patria


Se in letteratura esistesse la categoria della “esagerazione” è lì che andrebbero ricondotte molte delle pagine prodotte in epoca risorgimentale, nelle quali sono riversate, appunto, enfasi, passioni, idee, i motivi umani e politici che alimentarono l’anelito ad una nazione unita “di un volgo disperso che nome non ha” (così scriveva Manzoni negli Adelchi). Si dice, a ragione, che non sarebbe potuto esistere un Risorgimento politico senza un Risorgimento letterario. Fu infatti quest’ultimo a rimodellare e veicolare emotivamente ciò che si andava elaborando sul piano politico-istituzionale: libertà, uguaglianza, fratellanza, lotta contro l’oppressore. E spesso le due sfere (politica e letteraria) andavano a coincidere negli stessi personaggi, “intellettuali militanti” quali Guerrazzi, D’Azeglio, Berchet, Nievo, Mercantini. D’altra parte l’appello rivolto agli artisti da Mazzini era stato chiaro: “Manca alle arti… chi le concentri tutte a un intento e le affratelli in un pensiero di civiltà”. Si trattava dunque di un progetto morale che necessitava anche dei suoi cantori e pedagoghi. E tali furono, negli scritti patriottici, Foscolo, Manzoni, Pellico. De Amicis, Carducci. Autori che di riflesso nobilitarono anche chi, quanto ad esiti letterari, a loro fu decisamente “minore”.
In considerazione del fatto che quasi l’80 per cento della popolazione era analfabeta, a rendere davvero popolare la causa nazionale non fu, però, la letteratura,. La vera traslazione dei sentimenti patriottici verso i ceti più bassi avvenne, di fatto, con il melodramma. L’opera lirica assimilò così bene l’aura del tempo tanto da diventare il luogo in cui le sensibilità risorgimentali si alimentavano e amplificavano. Al punto che qualsiasi cosa si cantasse sulla scena, veniva interpretata (a prescindere dalle intenzioni degli autori) in chiave patriottica. E’ il caso del notissimo Va’ pensiero, oppure del coro di Ernani dove l’allusione politica vibra nei versi di Francesco Maria Piave: “… siamo tutti una sola famiglia / pugnerem con le braccia e co’ petti; / schiavi inutil più a lungo e negletti / non sarem finché vita abbia il cor”. Il melodramma, insomma, semplifica e divulga i temi che in letteratura sarebbero rimasti per i “pochi” e – per dirla con De Sanctis – consente l’incontro tra la “gente istrutta” e il popolo incolto. Oggi, se una memoria popolare del Risorgimento sussiste è ancora quella trasfigurata dalla poesia, dalla narrativa, dalla musica. Reminiscenze non trattenute in testa, ma – per indelebili traumi deamicisiani – più che altro in… cuore.

15/02/10

Discorso amoroso. Per dirlo a giuste parole


Non esisteva ancora internet e per chattare (comunque in tempo “irreale”) occorreva una columba livia (piccione viaggiatore). Ma l’amore virtuale – quello in cui i corpi sono costretti a mettersi in fila dietro ai pensieri – già mieteva vittime logorate dal tormento. Eravamo ai primi secoli del Mille, l’epoca dei trovatori. Cantori, giustappunto, di un amore astratto, impalpabile. Tra costoro Jaufré Rudel, principe di Blaia, che con il suo amor de lonh (amore di lontano) fu precursore di un genere letterario imperniato sui paradossi del sentimento amoroso. Perché paradossale era il suo amore per la contessa di Tripoli (di cui aveva sentito parlare senza averla mai vista) e della quale non desiderava tanto il possesso, quanto il godimento di non poterla possedere. Scriverà infatti: “Dice il vero chi mi chiama ghiotto e desideroso dell'amor lontano, che null'altra gioia tanto mi piace come il godere dell'amor lontano” (la traduzione letterale è di Roberto Gagliardi).
Proprio qualche settimana fa, parlando di letteratura medievale, ricordammo come la poesia trobadorica avesse rappresentato una sorta di educazione intellettuale e sentimentale, caratterizzata dalla tensione dell’innamorato verso una perfetta (e quindi irrealizzabile) condizione che potesse renderlo degno di raggiungere (e congiungersi) con madonna, lei sempre così distante, bella e impossibile.
Dal medioevo ad oggi la passione d’amore ha albergato in molteplici pagine letterarie. Partecipe e intelligente fu il modo con cui Roland Barthes ne dette trasversalmente conto nei Frammenti di un discorso amoroso (1977). Il grande semiologo partì dalla considerazione di come il “discorso amoroso” soffrisse ormai una solitudine estrema, avesse perduto la propria identità. Tutti ne parlano (inadeguatamente) e nessuno che sappia definirne essenza e forma. Davvero colta e appassionata fu allora l’operazione di Barthes che con criteri filologici ebbe a organizzare un glossario (da "abbraccio" a “voler-prendere”, passando per voci quali “assenza”, “inconoscibile”, “sprofondare”) entro cui ricondurre e ri-ragionare, appunto, un “discorso” che, lungo il tempo, si era avvalso, tra le tante, delle parole di Platone, Goethe, Balzac, Musil, Flaubert, Nietzsche, Proust, Gide, Stendhal, dei mistici e degli psicanalisti. Tutto ciò per recuperare una “sentimentalità” relegata a stato di emarginazione. Troppe parole, infatti, si sprecano sull’amore, al punto che gli innamorati non ne trovano più una che della loro condizione possa dire compiutamente il senso.

08/02/10

Cinema. Si fa presto a dire critico


Problema: può una persona che piange al cinema aspirare a divenire critico cinematografico? O, se vogliamo dirla più seriamente, quali caratteristiche sono necessarie per esercitare questo mestiere che deve saper dosare, appunto, i raffinati strumenti dell’analisi critica senza rinunciare – si presume – agli aspetti emotivi, di godimento estetico, di identificazione rispetto alla storie che sullo schermo si vanno raccontando. Da questo punto di vista il lavoro del critico “militante” deve essere davvero improbo. Guai, infatti, se il suo ciglio inumidito (il suo coinvolgimento) annebbiasse troppo il giudizio sulla tecnica, sulla poetica, sulla valenza culturale e sociologica di un determinato film.
Nella storia della critica cinematografica chi forse è riuscito a dribblare gli ostacoli del caso sono stati i letterati che – come scrive Gian Piero Brunetta nel libro Gli intellettuali italiani e il cinema – possono essere considerati “un esercito di complemento che i direttori dei giornali chiamavano spesso in servizio per un atto di sfiducia culturale nei confronti dei critici di professione, ultimi arrivati sulla scena giornalistica, pensando così di nobilitare sia la rubrica sia l’oggetto”.
In effetti il letterato aveva il vantaggio di agire in nome di una sorta di immunità autoriale, rinunciare anche a intenti eccessivamente pedagogici. Divertirsi a cogliere (per lui la cosa più naturale) echi e debiti letterari di cui, magari, la pellicola risentiva. Oppure – è ancora Brunetta a farcelo notare – “sovrapporre o contrapporre alla poetica del film osservato una propria poetica cinematografica”. E’ il caso di Ennio Flaiano quando, nel 1945, recensendo Roma città aperta dice che “Rossellini si vieta di proposito ogni indagine lirica. Per lui due e due fa quattro in ogni caso, mentre per noi qualche volta fa cinque e persino tre”.
Così, nell’arco di un secolo, davvero ricco e talvolta imprevedibile è l’elenco di scrittori e intellettuali “prestati” alla critica cinematografica. Da ciò è anche spiegabile come nel cinema italiano si sia sviluppata una vera e propria interazione con la letteratura. E’ pur vero (lo evidenzia anche Vincenzo Cerami nei Consigli a un giovane scrittore) che la letteratura possiede una autonomia di linguaggio, comprensivo di tutte le convenzioni per renderlo autosufficiente ed evocante. Ma talvolta, chissà, il linguaggio della vista (che è poi quello del cinema) aiuta così tanto a raccontare il vero da renderlo splendidamente falso. E, perciò, oltremodo evocante anch’esso.

01/02/10

Medioevo. Alle origini della letteratura


Che fascino i libri medievali! Stiamo parlando, sia chiaro, non della paccottiglia libraria ad argomento medioevo, ma proprio delle opere prodotte in quel lungo arco temporale convenzionalmente compreso tra il 476 e il 1492. Una letteratura, a ben pensarci, che fonda le origini dei generi letterari moderni e che dalla lingua latina genera un volgare sempre più elegante e ricco di forza espressiva. Tempi in cui il “bestseller” poteva anche non avere un autore unico, perché magari qualche amanuense, ad ogni trascrizione, ci metteva del suo o perché la trasmissione orale ne aveva fatto, si direbbe oggi, un’opera in progress. Ma ci furono anche scrittori ben identificati e particolarmente amati dal pubblico come, ad esempio, Jacopo da Varazze che con la Legenda aurea (ampia raccolta dedicata alle vite di santi) ebbe a… vendere più copie della Bibbia.
Per ovvie ragioni tirava molto la letteratura religiosa. Il cristianesimo costituiva la cultura di riferimento e poteva contare su intellettuali organici del calibro di Tommaso d’Aquino, Pietro Abelardo, Anselmo di Canterbury; colti pensatori, teologi spesso impegnati nello sforzo di inculturare di dottrina ecclesiastica ciò che era stato il sapere pagano.
Per venire, invece, ad una letteratura più emotiva, si pensi al vigore lirico del francescano Cantico delle creature o al ritmo crescente e drammatico del Dies irae o ancora allo Stabat Mater, intenso inno di meditazione e invocazione rivolto alla Vergine.
Certo che non mancò nemmeno una “fronda”, quella dei clerici vagantes, autori di impertinenti quartine contro chiunque fosse associabile al potere ecclesiastico e nobile o comunque ostaggio di grettezze esistenziali e intellettuali. Sempre laiche furono poi le canzoni di gesta (fra le più belle la Chanson de Roland), così come quelle a tema di “amor cortese”, proposte in tour da fascinosi cantautori (i troubadours), attraverso cui andava costituendosi una sorta di etica e poetica del sentimento amoroso.
Alla faccia della diffusa misoginia guadagnarono la ribalta letteraria persino alcune donne: Caterina da Siena, Brigitta di Svezia, Chiara di Assisi; mentre sul versante profano piacquero molto Maria di Francia (chi si celava veramente dietro quel nom de plume?) che compose malinconici lais ispirati a leggende bretoni e Christine de Pizan, donna autonoma ed emancipata al punto da azzardare questa metafora: “allora diventai un vero uomo, non è una storia, / capace di condurre le navi”. E voi continuereste a chiamarli secoli bui?