25/03/13

Forma e sostanza. Sull’arte dello scrivere

Quando, lo scorso novembre, Philip Roth, il più grande e prolifico narratore contemporaneo, annunciò le dimissioni irrevocabili da scrittore di romanzi, la notizia rimbalzò ben oltre gli àmbiti delle cronache letterarie. Chi ancora non l’aveva fatto, si affrettò a cercare in libreria il suo ultimo romanzo, Nemesi, nella consapevolezza (e curiosità), di leggere, appunto, il capitolo finale di un lungo cursus letterario. E così, per l’ultima volta, godersi quel modo di narrare, sempre in perfetto equilibrio tra il flusso della vicenda che si va raccontando e il pensiero, l’introspezione. Roba da farne un manuale nelle scuole di scrittura (ammesso che possa esistere una didattica votata all’insegnamento del saper scrivere). Si veda, ad esempio, come Roth sia insuperabile maestro del racconto autobiografico, con la creazione di sorprendenti alter-ego (pensiamo alla figura di Nathan Zuckerman, che appare in diverse opere) o personaggi chiamati addirittura Philip Roth, ma che non sono lui. Altrettanto geniali appaiono le modalità con cui lo scrittore sa stare contemporaneamente “dentro” e “fuori” i fatti narrati. O come la storia, il dramma, la voce di un singolo, assuma, pagina dopo pagina, la coralità del “noi”. Anche a proposito delle ragioni dello scrivere, quelle di Roth possono essere illuminanti: la narrativa non è chiamata a dare risposte ma a porre domande. Ciò che spinge a raccontare – sostiene l’autore di Pastorale americana – è il desiderio di fare esperienza, il chiedersi “e se?, e se... succede questo o quello, cosa può accadere?”. Da questa domanda scaturisce la scrittura, la prova – in verità “frustrante” – di cercare le parole e le frasi giuste. Se pur esercizio non immune da patimenti, è comunque il minor male, perché, sempre a detta del maestro, “i periodi peggiori di infelicità, depressione, ansia sono stati quando non scrivevo”. Del resto la sofferenza è condizione normale per chi faccia quel mestiere, non c’è bisogno di andarla a cercare, “puoi star tranquillo che sarà lei a trovarti”. Ecco un bel punto di vista a disposizione di scrittori, critici, lettori, che, in questi ultimi tempi, si chiedono, peraltro, se il romanzo non sia morto, e con lui defunta la critica, fors’anche l’intera letteratura. Quanto, invece, al modo di scrivere e di raccogliere l’ispirazione, è stato interessante leggere (Repubblica del 30 gennaio 2013) un testo di Mercè Rodoreta – figura di primo piano della letteratura catalana del Novecento – che muoveva dalla constatazione di come un romanzo nasca dall’imponderabile alchimia di intuizioni, riserve di memoria, “agonie e risurrezioni dell’anima”. Un romanzo – concludeva la Rodoreta – “è uno specchio che l’autore porta a spasso lungo la strada”; e questo specchio, ancorché infranto, “riflette la vita”. Tale è dunque lo scrittore, un portatore di specchi che passa a riverberare storie. Ma anche un prestatore di pensieri, sentimenti, visioni, pezzi di mondo. E può capitare, talvolta, che quanto prestato non gli ritorni mai indietro.

18/03/13

Una storia di dolore. La tragedia mineraria di Ribolla

Tra gli appunti destinati a un libro sulla Maremma ho ritrovato la trascrizione del racconto di uno dei fatti più drammatici accaduti lo scorso secolo in quella terra. La tragedia della miniera di Ribolla, avvenuta il 4 maggio 1954. Ne ascoltai la testimonianza, alcuni decenni fa, da un anziano – Sestilio era il suo nome – originario del paesino maremmano, ma da tempo trasferitosi a Follonica. Tutte le sere, al tramonto, faceva una passeggiata sulla spiaggia. Era il suo modo per ritrovare i pensieri, per “mentovare” i morti, a cui, fin dall’epoca degli etruschi, piaceva che lo sciabordio del mar Tirreno potesse ninnare il loro sonno. Nei ricordi abbrunati di Sestilio vivevano anche “i morti di Ribolla”, quando un’esplosione di grisù nella miniera di lignite provocò la morte di 43 persone, quasi l’intera “gita della mattina”. Una tragedia “che nemmeno la guerra c’aveva riservato … ma tanto si sapeva che prima o poi sarebbe successa”. Niente misure di sicurezza, gallerie male ventilate, fiamme che si accendevano per autocombustione. Così “accadette” il peggio. Erano le 8,40 di una giornata primaverile. L’aria, che tratteneva ancora i suoni festosi del 1 maggio, si gonfiò improvvisamente di un boato. Per un momento, nelle case, i gesti della quotidianità parvero anchilosarsi, gli oggetti posati nel tremore del presentimento. Poi un gran correre verso la miniera, e subito le voci raggiunsero il registro alto della disperazione. Impossibili i primi soccorsi, mancavano le maschere antigas, i cunicoli erano inagibili. Solo verso le cinque del pomeriggio furono portati in superficie i primi morti. Corpi anch’essi fatti carbone. Sembianze devastate, irriconoscibili. A Ribolla c’era un “cinemino”, alla sua costruzione avevano contribuito gli stessi minatori devolvendo la paga di una giornata di lavoro. Quella specie di ‘Nuovo Cinema Paradiso’ abbassò le luci per trasformarsi in camera ardente. Là dentro anche una giovane donna, incinta al terzo mese, piangeva la perdita del suo sposo. Si torceva le mani sul ventre, annientata dal fatto che fosse toccato proprio a lei dover incarnare la lacerante contraddizione che spesso assimila vita e morte. Il giorno dei funerali, a presidiare il dolore (o, piuttosto, una temuta sommossa) giunsero centinaia di celerini. Alle esequie parteciparono personaggi quali Pajetta e Di Vittorio. Ma soprattutto migliaia di persone giunte da ogni parte. “Lo strascichio dei piedi della gente faceva paura, sembrava la marcia d’una rivoluzione”. Prevalse, però, la pena che rende stracchi il cuore, le gambe, la rabbia. Persino le preghiere risultarono inappropriate alla circostanza (le forze degli inferi avevano prevalso sulla celeste misericordia). Nel riorganizzare, oggi, il racconto fattomi da Sestilio, rivedo il suo profilo scolpito contro il tramonto, come un vecchio aedo che mandi a memoria storie di un’epica dolorosa. Lo rivedo col bastone tracciare segni sulla battigia, forse un’epigrafe, perché – mi disse – “morire di lavoro non è cosa…, se lo figura uno che per campare deve morire?”.

11/03/13

Democrazia comunque. Dall’antica agorà alla banda larga

Quanti, in occasione delle recenti elezioni politiche, abbiano eroicamente varcato la porta di un seggio (il 25 per cento degli italiani non ha trovato né cuore né ragione di farlo), si saranno resi conto come in quelle stanze, più di ogni altra volta, incombesse la desolazione. Giustamente ostinati a esercitare un diritto/dovere, i cittadini elettori non avevano mani sufficienti a turarsi naso, occhi, orecchie, altri orifizi. Bieca (per alcuni, ‘sinistra’) era anche la luce che, nella cabina, male illuminava l’angusto spazio di democrazia rappresentativa. Un tempo là dentro potevi portare persino Dio (lui di croci se ne intendeva); oggi, invece, te lo fanno depositare insieme al telefonino, e tu sei nello stabbiolo, solo con le tue incacchiature. Pensi, magari, ai figli, ai nipoti, al domani inesorabilmente ingurgitato dall’oggi, il quale oggi sopravvive solo grazie al fiato risparmiato ieri. Se hai le idee chiare, sai a chi non vuoi dare il voto, ma non certo su chi marcare la tua fiducia. Alla fine tracci un segno, con la stessa sufficienza con cui un’infermiera, prima della notte, potrebbe deporti sul comodino la pasticchina-placebo. Dinanzi a un siffatto sconforto viene in mente un romanzo ormai vecchio di cinquant’anni: La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, sofferta riflessione sull’impegno politico, sulla complessità dei cambiamenti di un’epoca, sulla vita e i sentimenti delle persone. E’ambientato durante le elezioni del 1953 (anche allora era in vigore un “porcellum” chiamato più esplicitamente “legge truffa”). Il protagonista è Amerigo Ormea, scrutatore presso un seggio un po’ particolare, quello allestito al Cottolengo di Torino. Per non lasciarsi prendere dallo squallore dell’ambiente, Amerigo si concentra sullo squallore degli arnesi elettorali (matite, cartelli, le schede piegate come telegrammi), convincendosi che “la democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne”, per essere, al di là di orpelli e fasti esteriori, “lezione d’una morale onesta e austera”. Ma lo scrutatore di Calvino rifletteva pure su una democrazia che, per quanto giovanissima, già era minacciata da “l’ombra grigia dello Stato burocratico”, dalla “vecchia separazione tra amministratori e amministrati”. Mutatis mutandis, c’è un qualcosa del presente che ci accumuna alle consapevolezze e ai tormenti del calviniano Amerigo. Democrazia è, infatti, divenuta parola vuota, rosicata dal tarlo del potere. Non manca, tuttavia, chi ci rassicura ricordando lo sbuffo di sigaro entro cui Winston Churchill racchiuse la sua definizione di democrazia: peggiore forma di governo ad eccezione di tutte le altre forme sperimentate di volta in volta. E, soprattutto, sono in diversi a confidare nella grande ‘adattabilità’ della democrazia, che, dall’agorà dell’antica Grecia, giunge oggi a recriminare i propri diritti sulla concitata piazza della banda larga. Quest’ultima è la novità del momento. Un grumo di istanze, rabbia, utopia. La cosa è indubbiamente seria…, quando non fa sorridere.

04/03/13

L’inverno della Repubblica. Ecco il populismo senza il popolo

La Seconda Repubblica è stata tumulata sotto il gelo dell’inverno, inconsueta stagione per celebrare riti elettorali. Come accade in simili circostanze, il commiato ha risuonato di luoghi comuni. E’ il modo con cui i sopravvissuti si danno conferma di essere tali. Parole, appunto: a tentare di definire ciò che per molti risulta ancora incomprensibile. Del resto, nella storia, capita sempre così. La consapevolezza dei cambiamenti avviene quando essi sono, da tempo, reali e se ne stanno già preparando altri. Figuriamoci, poi, quando a prendere coscienza delle trasformazioni dovrebbe essere una politica totalmente incarognita nell’autoreferenzialità e, quindi, alienata rispetto a quanto succede nella vita vera delle persone. Pertanto abbiamo appreso che gli sconfitti delle recenti elezioni risultano quanti non hanno saputo parlare “alla pancia della gente”, perché è quello il ricettacolo (antropologia e fisiologia divengono interdisciplinari) in cui convivono viscere, risentimenti, egoismi. Si sappia, dunque, che la maggioranza degli italiani soffre di irritazione al colon. Patologia che qualcuno aveva preteso di curare con tristi diete (il professor Monti era un luminare in materia). Ma quanti soffrono di siffatti disturbi hanno imparato a conviverci, salvo, periodicamente, consultare il medico-clown di fiducia. Ecco, allora, che a voler continuare questo gioco che procede per contiguità di luoghi comuni, giungiamo alla parola più adoperata negli ultimi giorni: “populismo”. Qui le discipline chiamate in causa sarebbero, per ovvie ragioni, quelle delle scienze politiche e letterarie. Sono esse, infatti, che fino adesso ci hanno spiegato tale fenomeno storico, che nasce da una idealizzazione del popolo, portatore di valori positivi e integri, in contrapposizione alla classe egemone che, invece, si distingue per negatività e corruzione. E’ il popolo che assurge a ‘modello’ di giustizia universale, come avvenne in Russia tra il 1850 e il 1880 (là nacque il “populismo”). Persino Mussolini, in uno dei suoi farneticanti discorsi, disse che era giunto il momento di “andare verso il popolo”. E vale la pena ricordare quanto, in Italia, un’idea mitizzata e romantica di popolo avesse infervorato prima il Risorgimento, dopo la Resistenza e i primi anni della ripristinata democrazia. Il populismo, quindi, è stato declinato in vario modo: reazionario, nazionalista, borghese, liberale, progressista. Sarebbe interessante andare a rileggersi i romanzi di Elio Vittorini, laddove è il popolo che maggiormente soffre nel mondo e che quindi va liberato. E, ancora, Pavese, Moravia, Pasolini. Proprio Pavese, nel saggio Il comunismo e gli intellettuali, asseriva che “Verso il popolo ci vanno i fascisti. O i signori. […] Non si va ‘verso il popolo’. Si è popolo”. Piacerebbe porre quelle pagine (indubbiamente anacronistiche) in sinossi con il nostro tempo post-ideologico. Riaprirle sugli scenari squinternati dell’oggi dove un populismo senza popolo cresce tra disperazione e l’ultima chiamata per la speranza.