17/06/13

La levatrice degli scrittori - Come ti creo o abortisco un autore

Ci sono almeno tre attività che non avrei mai potuto esercitare: il chirurgo, il restauratore d’arte, l’editor. Tre mestieri che implicano di dover mettere le mani su cose altrui e di fare danni irreparabili. Persino nel lavoro di curatore editoriale, che potrebbe risultare più consono alle mie inclinazioni, vedrei rischi pazzeschi e insostenibili cause per responsabilità civili (forse penali) verso terzi. Troppo arbitrario dover intervenire sul manoscritto di un autore, per suggerire (talvolta imporre) tagli, smontaggi e rimontaggi della trama, scelte lessicali, cadenze narrative. Mi viene sempre da pensare – se all’epoca fosse esistita questa figura professionale – come si sarebbe comportato un editor dinanzi a un testo di Federigo Tozzi. Magari alle prese con la (non)struttura narrativa di Con gli occhi chiusi, con quella scrittura ruvida, nervosa, icastica (eh no, Federigo, qui va cambiato, non funziona…”). Quanti rifacimenti sarebbero stati richiesti, fino, probabilmente, a privarci di un libro che, per molti versi, anticipò il romanzo psicologico novecentesco, oltre che rivelare una originalissima cifra stilistica. Ciò non nega il fatto che esistano bravissimi editor (accorte levatrici) nell’aiutare uno scrittore a sapersi rivelare al meglio. Pero, però…, quanti abbagli clamorosi si contano nella storia letteraria, allorché altre blasonate figure professionali, i cosiddetti ‘lettori’ delle case editrici, bocciavano manoscritti ritenuti non degni di pubblicazione. In tal caso non era un problema di editing, perché il libro non piaceva tout-court. Come quando Gli indifferenti di Moravia fu giudicato “una nebbia di parole” o Se questo è un uomo di Primo Levi venne respinto da Einaudi per ben due volte: nel ´47 il giudizio positivo di Natalia Ginzburg non è condiviso da Pavese, nel ´52 Pavese è morto ma il rifiuto si ripete. Einaudi pubblicherà il capolavoro di Levi solo nel ´58. Chi volesse documentarsi in questa controstoria della letteratura può farlo leggendo il libro Siamo spiacenti di Gian Carlo Ferretti (Bruno Mondadori, 2012), dalle cui pagine si apprende che Italo Calvino (consulente di Einaudi) si oppose alla pubblicazione de I racconti della Ghisolfa di Testori e anche della Scoperta dell’alfabeto di Luigi Malerba (una raccolta di racconti “grezzi e con poca sostanza, … neorealismo paesano stile 1946 ma senza lirismo”). Ripetuti rifiuti e diffidenze ebbe anche Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa e, ancora, autori quali Morselli, Pasolini, Volponi Camilleri. Talora la questione fu di opportunità editoriali e commerciali, altre volte, di scarsa lungimiranza. Oggi, fatta salva una editoria di nicchia che guarda alla qualità e a un pluralismo di proposte, la linea è dettata soprattutto dal marketing; che pompa autori gracilini ma di sicuro impatto pop o più strutturati scrittori invitati a replicare se stessi finché ci sia un riscontro di vendite. Così il successo di un libro è spesso una sorta di disco dell’estate, costruito sul ritmo di un ballabile, retorico quanto un volo di gabbiani.

10/06/13

Tra storia e utopia - Non esiste una pace astratta

Il secolare conflitto arabo-israeliano (le ragioni degli uni e degli altri e, magari, anche le disuguali ragioni che gli uni accampano sugli altri) è purtroppo divenuto il paradigma dell’impossibilità della pace, ovunque essa resti solo un desiderio. Un’aspirazione, appunto, ma impraticabile. Pare quasi esserci, nell’esperienza umana, la ‘naturalezza’ all’odio, al sopruso, a fare dell’altro il nemico, che nulla può anche dinanzi all’orrore del sangue, alla distruzione, all’urlo delle madri, al terrore. Quasi a voler sottoscrivere l’amaro verso della canzone di De Gregori (Generale): “perché la guerra è bella, anche se fa male”. E’ doloroso ammetterlo. Ma troppo distante è l’utopia dalla pratica di una pace costruita nella concretezza (nella fatica) di rapporti interpersonali, tra popoli, etnie, fedi religiose. E d’altra parte non può esistere una pace astratta, così come è difficile raggiungerla quando sia già guerra. La convivenza pacifica dovrebbe essere, infatti, una premessa della condizione umana, legata ai valori della persona, soggetto di diritti e di doveri. Non disgiunta dall’idea del bene comune, della solidarietà tra popoli, del lavoro per un progresso condiviso. Un vecchio amico di ritorno dall’ultima Marcia della Pace Perugia-Assisi, mi confidò un senso di arrendevolezza, di stanchezza – e non alludeva certo a quei 25 chilometri fatti a piedi – che lui avvertiva dinanzi a un mondo distratto, quasi annoiato da discorsi (perché tali restano) che chiedono pace. Quelle tante persone in cammino – un tempo segno vivido di denuncia, di giudizio verso la storia – gli erano improvvisamente apparse come una diaspora di ideali. Un piccolo resto di popolo che, a sera, ripiegando le bandiere arcobaleno, chinava anche la testa all’impotenza e allo sconforto. Eppure, anche ora mentre scrivo, sento la radio riferire di teatri di guerra, di vicende che non sono ‘fatti loro’ e indipendenti dal resto del mondo, di situazioni le cui responsabilità sono planetarie. Sarebbe, perciò, ovvio pensare ad un impegno universale affinché alla competizione potesse subentrare la solidarietà, la giustizia dell’uomo per l’uomo. Misurandosi in questo tipo di sforzo, toglieremmo alla pace la melassa di un generico e inconcludente volersi bene, per comprendere che essa si compie, piuttosto, attraverso ‘necessarie’ conflittualità. Ovvero con il confronto – oggi, una necessità storica – che è cosa diversa dall’inimicizia. Confronto come fatto costruttivo, punto di partenza e di tappe per intraprendere cammini nuovi. Per giungere a conclusioni e sintesi sempre diverse. Per realizzare veri progetti di comunicazione umana. Il filosofo Ivan Illich definiva “società conviviale”, quella in cui si fosse capaci di vivere i rapporti umani all’insegna della comunione, nel rispetto delle diversità, nel non-possesso dell’altro. Quando accadesse tutto questo, significherebbe sottoscrivere davvero un trattato di pace. Non una volta per tutte – sia inteso – perché ogni giorno pone conflitti da risolvere prima che degenerino in guerra.

03/06/13

Post-it finale - Proprio come una terza pagina

Letto, approvato e sottoscritto. Con questa formula notarile con cui si consegnano alla polvere degli archivi chissà quali resoconti, potrei suggellare anche queste pagine. Ma, forse, una noticina dell’autore è richiesta. Non tanto per ‘spiegare’ alcunché, semmai per ‘giustificare’. Innanzitutto. Era poi così necessario affidare a un libro la serie di editorialini che hanno – come primo limite – la corrività e la breve misura imposti da un foglio di giornale? Altri per me (bontà e fatica loro) hanno deciso che poteva valerne la pena. Tantomeno – mi è stato detto – per testimoniare il ‘filo di un discorso’ che da cinque anni, di domenica in domenica e grazie alla redazione di sienalibri, si va sviluppando sul Corriere di Siena in uno spazio che parla di libri o di ciò che ai libri è comunque legato, cioè dell’esistenza umana. Da qui la seconda giustificazione. Ovvero il perché, in tali scritti, si faccia continuamente richiamo alla letteratura, fino a certi eccessi (?) di citazionismo che, credetemi, non sono sfoggio dell’editorialista, ma sua ammirazione (in alcuni casi, vero e proprio culto) verso gli autori menzionati alla bisogna. C’è insomma un insistito ricorso ai libri, perché di questi sono invaghito e perché credo che lì siano racchiusi conoscenza, pensieri, emozioni, memoria e parole dell’universo mondo. Le chiavi di lettura per comprendere la vita. Attorno alla pagina di sienalibri si è così creato anche un pubblico di lettori con i quali esiste uno scambio – sovente esplicito, talvolta indiretto – di idee, di emozioni, di interessi condivisi. È la piccola community del ‘giornale della domenica’ (ecco la ragione del titolo dato al libro). Un’esperienza, dunque, simpatica e quasi riconducibile a una dimensione amicale, che spero riscatti pure la modestia di questi svelti articoli il cui scopo è quello di offrire (condividere) qualche spunto, suggerire, ricordare. Alla maniera di un post-it lasciato su uno specchio di casa in cui riflettono cose, persone, affetti della nostra quotidianità. Esauriti gli argomenti della ‘discolpa’, non ho che da formulare un auspicio: che persino la pochezza di questo libricino trovi sponda nella ragione e nel sentimento di chi, per ventura, l’abbia sfogliato. Magari, costei/costui, saprebbe riscriverlo in maniera assai migliore.