28/09/09

Tozzi da Poggio al Vento. Lassù dove si apprende un’intima cosmografia


Chi si trovasse a percorrere la strada senese dei Cappuccini – su quella defilata altura di Poggio al Vento che, almeno in parte, è riuscita a respingere gli assalti dell’urbanizzazione – non faticherà più di tanto a percepire il genius loci che vi risiede. Stiamo parlando di Federigo Tozzi, la cui memoria trapela non soltanto attraverso i muri della casa rossa che costeggia la strada e dove lo scrittore (nel podere di Castagneto) trascorse alcuni anni della sua vita, ma pure nella campagna che da lassù declina, si interra e si rialza finché non abbia consegnato all’azzurro il profilo della città.
E’ da questi luoghi, infatti, che muovono i primi apprendimenti dell’intima cosmografia tozziana. “Che punto sarebbe quello dove s’è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me?”; così scriveva Tozzi in apertura a Bestie, un capolavoro di prose liriche (“liriche senza canto e senza retorica”, le definì Paolo Orano), dense e inquietanti per i loro reconditi significati, per certi sguardi sulla natura indagatori e stranianti. E’ su questa terra, in cui, per virtù delle pagine tozziane, la volta celeste rattrappisce fino al minuscolo luccichio di uno scarabeo, che lo scrittore senese opera i suoi carotaggi per sondare il “profondo”, sperimenta la sua ossessiva qualità visionaria. Nella convinzione – così disse in una novella – che “la realtà delle cose dipende dai nostri sentimenti”. Eh già: la realtà, al di là della sua apparenza, è difficile a comprendersi. Cose e persone sono sempre altro-da-sé. E non a caso anche i protagonisti dei romanzi tozziani non riescono mai ad accettarsi per come sono. Pur nello sforzo di volersi dare una identità – lo annota efficacemente Romano Luperini – rivelano poi insofferenza ed estraneità rispetto a se stessi. Cosicché il loro essere risulta qualcosa di “altro” rispetto al mondo e alla propria coscienza.
Nella narrativa di Tozzi accade ben poco dal punto di vista della trama. Ma prevale, appunto, questo scavo continuo dentro la psicologia dei personaggi che divengono, quindi, caratteri universali. Si svolge così anche l’aggrovigliato filo di una autobiografia ai limiti del subconscio, tutta giocata su un “io” che perde i propri contorni, non ha consistenza; e si proietta allora in un “doppio”, in un individuo che si vuole diverso e allo stesso tempo identico a sé.
Tale era l’universo interiore che si rivelava a Tozzi dal podere di Castagneto, laddove – scrive in chiusura di Bestie – “ci si sta così bene a piangere con la faccia su l’erba fresca, che arriva fino all’anima!”.

21/09/09

L’ora di italiano. Come (non) spiegare la letteratura del 900



“All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri”, cantavamo agli inizi degli anni 70. Anche perché quei libri, ieri come oggi, se non venivano venduti erano eventualmente destinati ad alimentare le muffe di cantine e soffitte, ma quasi mai a guadagnarsi il dignitoso scaffale di una libreria. Inesorabile destino dei libri scolastici, a torto o a ragione ritenuti dei non-libri. Eppure costano un’esagerazione, e come nel caso dei manuali di letteratura italiana (questo è l’argomento che più ci preme) rappresentano un significativo punto di osservazione riguardo a ciò che gli specialisti chiamano il “canone letterario”, ovvero rispetto alla compilazione di una lista di autori considerati irrinunciabili per comprendere il formarsi di una cultura nazionale. Questione che riguarda principalmente il Novecento, secolo che piace ormai definire “breve” e che in letteratura sembrerebbe esserlo quanto mai, superando a malapena la soglia dei sessant’anni.
Accade così che nelle scuole superiori, la conoscenza della letteratura del secondo Novecento sia pressoché affidata alla sensibilità, agli interessi, alle “stravaganze” di qualche insegnante, poiché in mancanza di un canone anche scolastico si procede zompando tra Svevo, Pavese, Moravia, Calvino e quant’altri. Eppure l’istituzione scolastica, interagendo con la critica maggiormente qualificata, dovrebbe essere il principale soggetto in grado di trasmettere un patrimonio letterario definito e condiviso.
Certo è che la costituzione di un canone non può essere condotta con sbrigativi e contingenti criteri… calcistici, del tipo “esce Pratolini entra Landolfi”. Si tratterà, infatti, di formare una ideale biblioteca del Novecento che testimoni anche la “percezione” che in questo secolo si è avuta del valore di un testo letterario, in rapporto, quindi, a certi mutamenti culturali, antropologici, di immaginario collettivo. La letteratura diviene allora chiave di interpretazione della contemporaneità, costituisce giudizio, testimonianza e trasmissione di una memoria. E nel dinamismo, nella dialettica che tali processi critici suscitano non si addiverrà soltanto a una lettura della contemporaneità, ma addirittura ad una reinterpretazione del “trascorso”, cosicché non possa escludersi pure una riformulazione di ciò che è il canone letterario preso in tutto il suo arco storico, dalle origini ad oggi. Poiché anche in tal caso vale la constatazione che George Orwell fece esprimere a Winston, il protagonista di 1984, il quale ripensando a un decennio appena trascorso prendeva atto di come “il passato non solo cambiava, ma cambiava in continuazione”.

14/09/09

Disegnare la scrittura, scrivere i disegni


Con espressione acculturata viene detta “letteratura per immagini”, però, per farla breve, del “fumetto” si tratta. Definito, appunto, in tal modo perché dentro a certi sbuffi di fumo sono riportati i dialoghi tra i personaggi che animano le diverse storie, più disegnate che scritte.
Si è stabilito che la nascita del fumetto – ma il dibattito sulla sua primogenitura è tutt’ora aperto – sia da attribuirsi all’intuizione narrativa di un maestro di scuola, il ginevrino Rodolphe Töpffer, che tra il 1827 e il 1833 realizza e pubblica “Sette racconti per immagini”. Töpffer ebbe subito un gran successo e quindi anche diversi imitatori, tant’è che il fumetto si diffuse rapidamente in tutta Europa. Insomma nacque un genere (e perfino un business) che nel corso del tempo ha progressivamente scavalcato i recinti in cui lo si credeva confinato (quelli dell’infanzia e dei ceti popolari) per raggiungere anche la cultura dotta.
Non siamo esperti della materia e perciò sarà bene evitare azzardi critici. Ci limiteremo a una semplice testimonianza. Fu su Il Corriere dei Piccoli che esercitammo i primi passi nella lettura, cantilenando le gustose didascalie a piè di ogni vignetta, composte in ottonari a rima baciata (taluni ricorderanno: “Qui comincia l’avventura / del Signor Bonaventura”) e attraverso successive e casuali incursioni tra Il Monello, L’Intrepido e Tex, approdammo, da adulti, al Corto Maltese di Hugo Pratt. E fu una rivelazione per come in quelle pagine si fosse giunti a una delle più sorprendenti sintesi tra fumetto, pittura e letteratura. Folgorati, dunque, da una “narrativa grafica” di notevole livello letterario che lasciava intendere quale mole di letture vi stesse dietro (Kipling, Rimbaud, Salgari, Hesse, Conrad, Borges, tanto per fare qualche nome). Non a caso Pratt diceva che “prima di scrivere ogni storia leggo cinquanta libri” definendosi un autore di “letteratura disegnata”, perché – amava ripetere – “disegno la mia scrittura e scrivo i miei disegni”.
La nostra infatuazione prattiana nacque quando con Una ballata del mare salato realizzammo che il fumetto (quale bellezza le profonde campiture di quei paesaggi!) potesse farsi davvero romanzo di raffinata trama e ritmo narrativo in un movimento sincronico di avventura, amori, eroismi, malinconie. Ci iscrivemmo, così, alla scuola di pensiero di Umberto Eco che non ebbe remore nel dichiarare: “Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese”. E non neghiamo che da allora il termine “fumetto” ci sembrò molto riduttivo.

07/09/09

A proposito di Montaperti - Se la storia si fa mito, anzi letteratura


Aristotele sosteneva che "il racconto è mito poiché sa comporre gli avvenimenti in unità, in cui appare la loro verosimiglianza". Come dire che talvolta il mito appare più reale della realtà stessa, perché va oltre la mera narrazione dell’accaduto, arricchendo i fatti di molteplici suggestioni emotive e psicologiche.
Tutto questo è avvenuto anche nel caso della battaglia di Montaperti (1260), epico e sanguinoso scontro tra senesi e fiorentini, la cui drammaticità fu colta da Dante nella Commedia con quei celebri versi che miravano giusto a sottolineare “… lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”. Il Poeta ritornerà sull’argomento pure quando, nel Cerchio dei Traditori, inciampa sulla testa di Bocca degli Abati, cosicché il nobile fiorentino – che secondo Dante sarebbe stato il traditore della battaglia di Montaperti – lamenta: “… Perché mi peste / se tu non vieni a crescer la vendetta / di Montaperti, perché mi moleste?”.
Passeranno gli anni, ma non il ricordo di quelle vicende. Tant’è che in epoca quattrocentesca, il barbiere-letterato Domenico di Giovanni detto il Burchiello (bizzarro personaggio che da Firenze fu esiliato a Siena per esplicite antipatie verso i Medici) versificò alla sua maniera strampalata: “Quando i Romiti furono sconficti / in val di Biena dalle pastinache / e fo’ sì grande la piena al Bozzone / che l’Arbia se n’empì di ceci in brodo / donde si crucciò l’Ombrone in Serchio”. Sorprenderà, poi, vedere citato Montaperti persino nel foscoliano Jacopo Ortis. Foscolo, infatti, (in cuor suo piagnucolava la doppia delusione per il mancato matrimonio con Isabella Roncioni e per la patria ceduta all'Austria) farà dire a Jacopo: “Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta de' Guelfi. Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio, e in quella oscurità fredda… mi parea che salissero e scendessero dalle vie più dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi; con le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite”. La letteratura sul tema registrerà ancora alcuni versi del giovanissimo Carducci: “Innanzi a te, splendente / pur anche nel fulgor del regno santo / balenò di vermiglia / luce il campo feral di Montaperto, / e pe 'l tristo deserto / de le crete maligne / un fioco suon correa / come sospir di battaglier morenti”.
Ecco dunque servito il mito, quello che, grazie alla sua potenza visionaria, fa sì che la storia possa diventare letteratura.