29/04/13

Ricordi digitali Vite a misura di gigabyte

C’erano una volta le scatole dei ricordi. Già cofanetti di biscotti e chicche, ex alcove a vini di pregio o più spartani cartoni da scarpe, così riconvertiti a custodie di memorie. In nessuna casa mancavano questi scrigni cui erano state consegnate sparse citazioni di vita: fotografie, lettere, la medaglia similoro conquistata alle mini-olimpiadi, immaginette di prime comunioni, biondi boccoli recisi. Il reliquario, salvo rare ostensioni per giubilei famigliari, stava riposto nel cantuccio di armadi o cassetti, laddove una bolla di naftalina e spigo garantiva la dovuta privacy. Conservare un siffatto archivio rientrava nella manutenzione ordinaria degli affetti. Magari poteva sorgere qualche dubbio di catalogazione in caso di traslochi (solitamente finiva nello scatolone delle ‘varie’). Mentre di maggiore impegno era decidere la destinazione dei reperti, quando il suo conservatore si fosse irrevocabilmente dimesso per raggiunti limiti d’età. Tali tangibili depositi, oggi sono stati pressoché sostituiti da imprendibili contenitori le cui misure vengono calcolate in gigabyte. E’ a queste memorie esatte (e a prova d’amnesia) che affidiamo le proprie biografie e tutto ciò che ne fa corredo. Immagini, parole, suoni. I nostri ricordi e quanto di noi può lasciare ricordo. Al punto che è sorto il problema dell’eredità digitale. Se, cioè, dopo il nostro trapasso, vogliamo che i molteplici dati online, accumulati in vita, restino ‘per sempre’; ed eventualmente a disposizione di chi. Guadagnandoci, in tal modo, un’eternità nella cosiddetta ‘nuvola’ informatica (evocazione anch’essa di celestiali aldilà). Ma in tema di memorie digitali le questioni aperte vanno ben oltre le vite dei singoli. Preoccupa soprattutto quanto in esse si intenda conservare del patrimonio mnemonico dell’umanità. Poiché i supporti su cui si va archiviando di tutto, hanno al momento vita troppo precaria rispetto alle ambizioni di durevolezza. Basti pensare che negli Stati Uniti sono andati perduti tutti i dati del censimento 1960/1980. Anche i più ferventi discepoli dell’informatica sono consapevoli di certi rischi. E quasi irrisi nel sapere che, in Mesopotamia, le tavolette d’argilla che riportano il poema epico Gilgamesh hanno tremila anni o che il volume di carta più antico rinvenuto in una caverna della Cina risale all’868 dopo Cristo. E comunque. Fatta pur salva la conservazione digitale della memoria, resterebbe il dilemma sulla ‘qualità intellettuale’ della sua fruizione e trasmissione. Nel senso che l’apprendimento delle conoscenze attraverso la Rete, a giudizio di alcuni risulterebbe superficiale proprio in ragione del mezzo adoperato. Ecco, allora, riaprirsi anche la querelle tra la futile ‘divagazione’ cui indurrebbe la pagina elettronica e la fruttuosa ‘concentrazione’ assicurata, invece, dalla carta stampata. Insomma, a seconda del mezzo utilizzato, sembrerebbe come esistere un problema di ‘vestibilità’ (e valore) dei saperi, lo stesso che c’è tra il prêt-à-porter e l’abito di sartoria. A noi trovare la giusta misura.

22/04/13

Dire tutto - Poeti interlocutori della storia

La poesia – lo sanno i suoi artefici e fruitori – abita la zona più estrema del linguaggio. In quella zona franca dove si riesce finalmente a dire anche l’indicibile, il non-ancora-detto. O, più semplicemente, a pronunciare il già-detto, però con l’afflato della novità. E’ là che si trovano le parole ‘giuste’ per renderci consapevoli che quanto accade nella nostra vita è molto più di ciò che solitamente riusciamo a dire. Ma questo trovarsi ‘al confine’ non significa – come vuole opinione comune – che la poesia sia fuori dalla realtà. Anzi, costituisce l’attrezzo per scandagliare il profondo (e lo sprofondo) dell’esperienza umana; per rivelarne contraddizioni, tremori, il peggio e il sublime. Di conseguenza il poeta sarà il ‘pubblico ufficiale’ che di sua mano verga il salvacondotto (il guidaticum) con cui ci sia possibile attraversare quella regione, ovvero percorrere la nostra porzione d’esistenza (individuale e storica) e poter giungere a dire (giustappunto con le parole di un poeta) “confesso che ho vissuto”. Da qui nasce anche la dimensione sociale e civile della poesia, il suo impegno a dire tutto, a farsi carico della parola anche per conto terzi. Allorché e laddove le voci di alcuni siano soffocate, condannate all’afasia. In proposito viene da ricordare la testimonianza di Anna Achmatova negli anni della Russia staliniana, quando, a prefazione del suo straziante Requiem, racconta dei diciassette mesi trascorsi a fare la coda fuori dalle carceri di Leningrado per poter vedere suo figlio detenuto politico. “Una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, si ridestò dal torpore e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto”. Tuttavia il poeta – ancorché racconti i fatti – non ha compiti di storico né di cronista. E’ piuttosto un interprete. Non di meno un interlocutore che chiede ascolto, esige risposte, giudica, talvolta condanna. E lo fa in nome di ciò che potremmo definire un’etica dell’universalismo. Soprattutto nelle difficili contingenze, nei momenti in cui – per dirla con Bertolt Brecht – si vivono tempi cupi. Se non altro per lasciare memoria, “a coloro che verranno”, degli orrori ed errori già compiuti, così che “Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate / quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati”. La voce dei poeti si alza, dunque, a criticare, correggere, re-iscrivere gli avvenimenti. Si misura con la storia e pondera la storia stessa. Per tali ragioni possono ascoltarsi parole accorate e consapevoli come quelle di Pier Paolo Pasolini: “… Ma io, con il cuore cosciente // di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare / se so che la nostra storia è finita?”. Ed è ancora la poesia a rivelare ciò che di noi – del segmento di tempo che ci è dato vivere – sia da sempre iscritto nel ‘sentimento del mondo’.

15/04/13

Per un buon raccolto. Terra madre o matrigna?

Terra, fatica, passato, nostalgia, crisi, forse futuro. La poesia e la maledizione, il profitto e la gratuità, il podere e il mondo, il piccolo e il globale, l’economia per l’uomo e l’uomo per l’economia. Questo il repertorio che, tutto insieme, mi affollò i pensieri lo scorso ferragosto mentre stavo attraversando la campagna umbra. Nei campi i fuochi delle stoppie, i falò dell’Assunta, il rendimento di grazie alla munificenza degli dèi. Gli odori devastavano la notte e la felicità d’esistere delle cose. C’era nell’aria qualcosa di maestosamente perfetto. Dopo il raccolto, la spoglia distesa dei campi testimoniava un lavoro umano grandioso, commovente. Ma il flusso dei sentimenti ha talvolta difficoltà a disancorarsi dalla concretezza dei giorni. Allora quel paesaggio che vantava l’aggettivo di ‘agricolo’, andò anche a popolarsi di persone, problemi, numeri. In Italia, delle 845.000 imprese, giustappunto agricole, 50.000 avevano cessato l’attività, un 30 per cento si dibatteva in grosse sofferenze finanziarie. Altre grandi cifre sgranavano un rosario di misteri dolorosi. Ad ogni numero una ragione, un sospiro: calo del potere d’acquisto delle famiglie, riduzione dei consumi, supermercati, frodi e agro-pirateria, produrre a costo 40 ed essere pagati 30, mutui implacabili e soldi che purtroppo non si zappano. Mi chiedevo, e replico ora l’interrogativo: già finito il nuovo tempo (aveva fatto seguito all’esodo dalle campagne di metà Novecento) in cui di agricoltura si poteva vivere? Ciò era stato possibile grazie a una mentalità imprenditoriale, alla tecnologia, all’alternarsi di generazioni, a un mutamento antropologico, culturale dei suoi protagonisti. E quindi: quale altro capitolo sta per scriversi, oggi, della lunga storia dell’agricoltura? Che è in definitiva la storia dell’uomo e della sua sussistenza, la condicio sine qua non…, perché gli umani, alimentando il corpo, possano permettersi pure il lusso dello spirito. Ma non solo. Agricoltura significa un rapporto speciale con la natura, il paesaggio, il tempo (quello delle stagioni, della storia, dell’esistere). Trentacinque anni fa (1978) aveva fatto discutere molto il film di Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli – una rappresentazione troppo idealizzata, si disse – che narrava la vita di fine Ottocento in una cascina della Bassa bergamasca. La miseria e la dignità di quei contadini, il lavoro, la pietas, il fato, la rassegnazione. Diverso racconto dal sanguigno Novecento di Bernardo Bertolucci (1976), che del mondo contadino – in tal caso quello emiliano – aveva esaltato soprattutto il ruolo politico svolto nel riscatto del proletariato dallo sfruttamento padronale. Storia che fu. Memoria, lotte, poi progresso e innovazione. Valori antichi e fresche capacità che dovranno pur reinscriversi in questo nostro mondo dove, da un emisfero all’altro, 800 milioni di persone soffrono la fame, 2 miliardi la malnutrizione, oltre 5 milioni di tonnellate di cibo viene annualmente sprecato. Inevitabile il quesito: terra madre o malvagia matrigna?

08/04/13

Cultura e profitto, quali ricavi producono i saperi

C’è un pregiudizio duro a morire: che l’universo concreto del lavoro e dell’impresa, poco abbia a che fare con quello astratto della cultura. Quando va bene – e di questi tempi sempre meno – l’impresa è l’elemosiniere (oggi nobilitato dalla qualifica di sponsor) che finanzia iniziative culturali. Ma, al di là di questo baratto (intelletto e creatività in cambio di lustro pubblicitario) i due mondi restano separati, reciprocamente sospettosi. In Italia, però, c’è stato un personaggio, che con intelligenza e slancio utopico, aveva intuito come la cultura – portatrice di conoscenze, sensibilità, visioni del mondo – potesse essere intrinseca all’industria. Costui fu Adriano Olivetti. Un imprenditore capace e lungimirante, che, nell’aprile del 1955, durante un discorso ai lavoratori, pone la domanda: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”. E si badi bene. Questo sognatore, che aveva ereditato la fabbrica alla morte del padre, nel giro di poco più di un decennio (1946-1958) porta l’azienda a risultati strepitosi. A base di un parametro 100, i prodotti venduti all’estero balzano a 1.787, il fatturato interno a 600, l’occupazione a 258, i salari reali medi a 386 punti. Olivetti diviene una multinazionale con diciannove consociate estere, cinque stabilimenti in Italia, altrettanti all’estero. Nel 1959, agli azionisti riuniti in assemblea, l’ingegner Adriano spiega loro che non bisogna farsi trovare impreparati quando, in un futuro ormai prossimo, “la tecnica elettronica potrà avere notevoli ripercussioni sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica”. Un industriale, dunque, pragmatico e attento al profitto, che a un certo punto sorprende tutti. Amplia l’organico dell’azienda con ‘strane’ professionalità. Assume intellettuali e scrittori che rispondono ai nomi di Franco Fortini, Giovanni Giudici, Paolo Volponi, Renzo Zorzi, i sociologi Luciano Gallino e Franco Ferrarotti, il designer Ettore Sottsass. Intende perseguire, così, una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Da qui nasce l’esperienza di “Comunità”, un movimento che vede uniti ideali socialisti e liberali, allo scopo di rinnovare la cultura economica, sociale e politica del Paese. Un programma politico basato su un mix di federalismo, autonomie locali e democrazia diretta. Mi è tornata in mente la testimonianza di Adriano Olivetti, leggendo un libro (in Italia pubblicato recentemente da Il Mulino) della filosofa americana Martha Nussbaum. Si intitola Non per profitto e sostiene come le discipline umanistiche siano indispensabili per la democrazia e per la crescita economica. Perché la diffusione di una cultura che educhi a pensare, giudicare, discernere, apprezzare il bello, non è alternativa al profitto. Anzi, sulla lunga misura lo realizza. Perciò l’economia deve necessariamente investire in cultura.