27/02/12

C’era una volta la classe operaia. Dal paradiso al limbo


Dal paradiso al limbo. Percorso davvero inconsueto quello della classe operaia che, per citare il celebre film di Elio Petri, dalla beatitudine (non certo delle condizioni di lavoro, ma di una coscienza di classe) si è ritrovata in una assoluta vaghezza identitaria. Continuano, infatti, ad esistere gli operai, ma non una classe operaia che fin dai luoghi e dall’organizzazione del lavoro è ormai priva di ‘fisicità’, di un ’inveramento’ (e quindi di una forza) un tempo rappresentati dalle migliaia di persone gomito a gomito sotto i capannoni delle fabbriche. Si è destrutturato (parcellizzato) un sistema produttivo ed un corpo sociale. Così che, nel nuovo secolo del post, chi ancora lavora in fabbrica è un solitario e demodé post-operaio.
Esiste una archeologia industriale fatta non soltanto di edifici abbandonati, ma pure di un dismesso immaginario politico, emozionale, letterario. Per ricordarlo basterebbe andare a rileggere certa narrativa del Novecento, magari partendo a ritroso dal romanzo di Oddone Camerana Il centenario (ovvero i cento anni della Fiat, 1899-1999), una vicenda – annunciava la fascetta del libro – “ambientata tra le macerie del capitalismo”, con il suo giovane protagonista che giunge nella città di Ligonto, vive per qualche giorno all’interno di quella che era la fabbrica più importante dell’intera regione. Là dentro incontra degli anacronistici militanti-funzionari (i Pattumeros) che continuano a comportarsi come se niente fosse cambiato. Una tragicomica che può essere presa ad allegoria della fine del secolo industriale. Quel Novecento che vide la grande trasformazione del nostro Paese, così come ce la raccontarono Paolo Volponi (Memoriale), Lucio Mastronardi nella trilogia di ambientazione vigentina, Giovanni Arpino in Una nuvola d’ira. Storie di boom economico, di esistenze sospese tra alienazione e realtà spesso crudeli e grottesche.
Poi, verso la fine degli anni Settanta, sarà Primo Levi, con La chiave a stella, a riprendere il filone della ‘letteratura industriale’. Lo farà dal punto di vista di un operaio specializzato che lavora in proprio. Un personaggio quasi epico, sempre in giro per il mondo a montare tralicci; sospeso tra terra e cielo ad assicurare bulloni, ma soprattutto un’idea morale e positiva del lavoro.
Per venire ai giorni nostri (i giorni del lavoro ‘flessibile’ e ‘interinale’) forse non c’è ancora una letteratura che sappia interpretarne appieno le contraddizioni. Ci si limita a descriverle, anche efficacemente, come ha fatto Andrea Bajani in Cordiali saluti, che narra di un tizio il cui mestiere consiste nello scrivere lettere di licenziamento guardando i colleghi ‘in esubero’ che ripongono gli oggetti personali dentro piccole scatole e si avviano lentamente verso casa. Un killer che uccide con parole ben costruite facendo un uso estetico e mistificatorio della scrittura messa a servizio del profitto. E la metafora non necessita di spiegazioni, ma di risposte.

20/02/12

Romanzi di formazione. Holden e altri ancora


Quando due anni fa Jerome David Salinger morì nel suo ostinato isolamento di Cornish, una folla di ex giovani indossarono la mestizia del lutto. Qualcuno pianse, soprattutto se stesso. Erano tutti i giovani Holden che, lungo l’arco di mezzo secolo, giusto sulle pagine dell’omonimo romanzo avevano meditato la loro piccola rivoluzione anti-borghese. Di quella vicenda avevano assunto ‘il punto di vista’, l’esagerato sarcasmo, lo struggimento e persino il linguaggio da college slang. D’altra parte era in gioco la loro esistenza: si trattava di ‘non lasciarsi educare’ dai falsi valori di una società conformista e di trovare, invece, una propria identità. Qualcosa che Salinger (e noi con lui) aveva già visto impersonarsi in un ragazzo chiamato Huckleberry Finn, creato da un altro scrittore americano, Mark Twain, per designare colui al quale l’autore per primo avrebbe voluto assomigliare.
Ecco dunque due libri che riconducono subito allo scaffale dei cosiddetti ‘romanzi di formazione’, un genere che i tedeschi chiamano bildungsroman per indicare storie i cui protagonisti crescono verso la maturità; e, attraverso di essi, sia quindi possibile trasmettere un’educazione sociale e sentimentale, utile a entrare nel mondo degli adulti.
A partire dall’Ottocento ogni paese ha avuto, in tal senso, i suoi imprescindibili titoli. La Germania, ad esempio, il goethiano Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister o, per la penna di Novalis, Enrico di Ofterdinger; la Francia Il rosso e il nero di Stendhal e, per ovvie ragioni, L’educazione sentimentale di Flaubert. Così come in Inghilterra fu romanzo di formazione il drammatico Jane Eyre della Brontë. In Italia venne considerato tale Le confessioni di un italiano di Nievo. E ancora in Europa ecco l’autobiografico I turbamenti del giovane Törles di Musil o Ritratto dell’artista da giovane di Joyce.
Giunsero poi per noi gli anni del moraviano Agostino e quelli in cui On the road di Kerouac era breviario da zaino. Dopo di che, con la crisi della pedagogia e soprattutto del romanzo, la narrativa di formazione sarebbe divenuta più semplicemente ‘generazionale’. Allora, in un italico coast to coast dei sentimenti, alcuni ragazzi (già porci, se pur alati) provarono ad andare dove li portava il cuore, altri al Seminario per la gioventù di Aldo Busi, altri ancora sulla frusciante scia di un certo Jack appena uscito dal gruppo. In seguito si sono completamenti persi, addirittura… tre metri sopra il cielo, comunque “belli e fatti di jeans, meglio di una pubblicità dal vivo”. Boh!

13/02/12

Case. Architetture interiori


Non c’è cosa più concreta di una casa, al punto che ‘investire nel mattone’ è ritenuto uno dei modi migliori per impiegare denaro. Quei muri sono tangibili, circoscritti, ‘immobili’. Costituiscono, comunque, anche un’estetica, bella o brutta che sia. Dall’aspetto delle case dipende, in buona misura, l’immagine di una città, di un ordine sociale, di una concezione (addirittura di una ideologia) del vivere individuale e collettivo. Però l’oggetto-casa si arricchisce veramente di elementi immateriali al momento che diviene ‘abitazione’ e, in quanto tale, spazio ove le persone intendono identificarsi, personalizzare ideali, modi di essere (e di apparire). A prescindere da chi le abbia realmente edificate, vogliamo essere noi i costruttori delle mura entro cui viviamo; noi a tracciarne la soglia, ad erigere la porta che regola i flussi tra autoreclusione (una cattività per scelta) e il libero gioco delle relazioni sociali. Se pensiamo alla nostra infanzia ricorderemo senz’altro quando nei giochi con i coetanei poteva accadere di subire gravi torti e allora correvamo a casa, rifugio all’umiliazione subita, luogo per ritrovare fiducia in se stessi e per rielaborare i codici che ‘là fuori’, a prezzo di sfide e paura, ci rapportavano agli altri. C’è insomma una casa che è fatta di architetture interiori. Una dimora – scriveva Borges – è “un caldelabro / dove ardono in appartata fiamma le vite”.
Non fu estraneo al tema nemmeno un grande poeta italiano, Vittorio Sereni, molto attento a restituire ciò che potrebbe dirsi “poesia degli oggetti”. In un volumetto pubblicato postumo a cura di Pier Vincenzo Mengaldo (Edizioni Mup, 2005) sono raccolti, sotto il titolo di “La casa nella poesia”, tre scritti di Sereni che mirano a cogliere la ‘vita lirica’ della casa, esemplificando con citazioni tratte da Montale (magistrale nello svelare doppiezze e rinnovato senso delle cose), Mallarmé (sosteneva che gli oggetti non vanno nominati ma suggeriti), Sinisgalli (forse il più ‘oggettuale’ tra i poeti della sua generazione), Gozzano (con quale grazia e ironia seppe significare la poesia di cose un tempo ritenute eleganti e diventate goffe agli sguardi dell’oggi).
Qualora volessimo ripercorrere idea e mito dell’abitare non mancano certo utili narrazioni: dalla casa di Ulisse (l’eroe vi torna ‘irriconoscibile’) a quella zuccherosa di Hänsel e Gretel, materializzazione estrema della nostra fame (non necessariamente di solo cibo) e dei nostri voraci desideri. Casa dei sogni, appunto.

06/02/12

Barocco: lo stile che vola


Vollero stupire con effetti speciali, e a loro modo ci riuscirono artisti e architetti del Seicento, impegnati a realizzare opere grondanti estro e fantasia. Chissà, ad esempio, nelle cattolicissime Italia e Spagna quanti oooh di meraviglia avranno suscitato certe chiese barocche, tanto scenografiche da far disperdere in quelle volute qualsiasi spiffero di riforma protestante.
Ma il Seicento significò anche progresso, rivoluzione copernicana, consapevolezza che l’uomo è un essere limitato, precario. L’universo apparirà assai meno antropocentrico rispetto a come il Rinascimento se l’era raffigurato. L’artista barocco sarà persona inquieta, percorsa dal dubbio; e di fronte alla complessità della realtà non potrà che rappresentarla attraverso simboli. Così fu nelle diverse manifestazioni artistiche dell’epoca che, infatti, privilegiarono l’allegoria, meglio adatta ad accennare, far intuire quanto, diversamente, sarebbe stato difficile spiegare.
Accadde ciò anche nella letteratura, pur considerando che in Italia la produzione fu piuttosto modesta e non certo all’altezza dei capolavori che si ebbero nelle arti figurative. A fronte di scarsi contenuti fu la forma a sbizzarrirsi in elaborazioni, sottigliezze, metafore ardite. E come ebbe a scrivere Francesco De Sanctis, “il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe de’ poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da’ più chiari uomini di quel tempo”. Sarà proprio a Giovan Battista Marino che si deve lo stile chiamato non a caso ‘marinismo’, tutto sottigliezze formali e stravaganze, poiché per ammissione dello stesso cavalier Giovan Battista “è del poeta il fin la meraviglia… / chi non sa far stupir vada alla striglia”, vada, cioè, a fare l’asino. Andò un po’ meglio per la prosa, maggiormente attenta all’attualità e alle vicende umane. Si diffuse, appunto, il romanzo in prosa che se non altro seppe fare riferimento a luoghi e situazioni riconoscibili nella contemporaneità. Tra queste opere la Historia del cavalier perduto (1634) di Pace Pasini, alla cui trama, a detta del critico Giovanni Getto, avrebbe attinto il Manzoni per i suoi Promessi sposi.
Nei secoli successivi sarebbe stata impresa ardua liberare il termine ‘barocco’ da un significato prevalentemente spregiativo. Del resto fu esso una categoria ideale, una visione della realtà. Fu “lo stile delle forme che volano” – affermò Eugenio d’Ors – a differenza del classicismo dove, invece, le forme “posano” soltanto.