30/01/12

Frangenti storici. Il vero problema è culturale


Tutto è in crisi: economia, politica, democrazia, morale. Da ciò le crisi esistenziali dei singoli, delle famiglie (il questionario dell’ultimo censimento Istat pareva il bastone di un rabdomante disperato). E’ crisi perfino per i cani. I quali a forza di sentirsi definire amici dell’uomo se ne sono convinti ma si rendono conto che hanno scelto davvero il momento sbagliato per enfatizzare questo tipo di sodalizio; ora, caduti in depressione, esigono pure loro lo psicoterapeuta. Poi c’è la decadenza della lingua – scritta, parlata, balbettata – così che non sappiamo se la crisi possa essere ancora chiamata con l’abusata parola ‘crisi’. Proviamo, dunque, a partire da qui, da uno sfizio lessicale, da una parola (crisis in greco) nata per indicare un’azione molto concreta (la cernita del grano durante la trebbiatura) e che in progressive semantizzazioni ha raggiunto il significato più astratto e negativo di deterioramento, incrinatura, turbamento dello status quo; ma anche di evoluzione, di ‘passaggio’ da una situazione all’altra, guadagnando in quest’ultima accezione un barlume di ottimismo. E benedetta, allora, sia la crisi se servisse ad approdare a un cambiamento, soprattutto di mentalità. Perché il problema di fondo è culturale prima ancora che economico, è lì che è avvenuto il vero declassamento in mancanza di un rating (di un giudizio) espresso da quanti sarebbero stati nelle condizioni di esprimere valutazioni sul mondo che continuava ad emettere ‘obbligazioni’ pur sapendo di non poter onorare gli impegni presi con i ‘creditori’. Ecco la vera crisi: antropologica, valoriale, etica, di elaborazione di contenuti utili ad affrontare un passaggio epocale.
La stessa Europa – sedicente unita se non nel fesso tintinnio di una moneta – non ha coscienza culturale di sé e senza tale consapevolezza sarà difficile crearne una politica. Tempo fa leggemmo di un progetto che vedeva impegnate università e scuole per “un canone della letteratura europea” finalizzato, appunto, alla cognizione del comune patrimonio culturale. Iniziativa che avrà sollecitato il sarcasmo di qualche agente di borsa. Eppure è nel racconto e nell’interpretazione delle storie, delle emozioni, delle idee; nella critica ai fatti e addirittura nell’ironia sugli accadimenti che si costruisce la coscienza condivisa di una comunità, delle sue crisi e delle sue ragioni di senso (che è poi il senso della vita). Per affrontare passaggi – come quello presente – che evocano imprese bibliche, ancorché prive di miracoli.

16/01/12

Versi controversi. La canzone è poesia?


Il testo di una canzone può essere poesia? Sull’annoso dibattito siamo ormai giunti a una ragionevole conclusione. La canzone rappresenta una forma letteraria ed è, in alcuni casi, splendidamente poetica, ma non può ritenersi poesia. Ne sono convinti gli stessi cantautori (Vecchioni si definisce ‘un poetastro’) e quanto mai i poeti ‘laureati’ che sostengono come nella canzone il testo abbia un “ruolo ancillare” (Maurizio Cucchi) e leggerlo come fosse poesia significa “massacrarlo, mandarlo allo sbaraglio” (Valerio Magrelli). Guai, insomma, a fare certe operazioni che Edoardo Sanguineti definiva “bric-brac dell’industria culturale”, allorché nelle antologie scolastiche La canzone di Marinella conviveva insieme ai Sepolcri del Foscolo.
A prescindere dalla questione (risolta?), è comunque interessante vedere le implicazioni letterarie e culturali che, a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, sono sorte in Italia tra poesia e canzone. E’ infatti sul composito humus della seconda metà del Novecento che poesia musicata e canzone poetica assumono caratteristiche precise e addirittura rappresentative di certi fenomeni socio-politici di quegli anni.
Una sorta di processo di ‘acculturazione’ della canzone aveva mosso i primi passi ufficiali con la richiesta di testi, da parte della Rai, a Franco Fortini, Alfonso Gatto, Giorgio Caproni ed Elio Filippo Accrocca. Poi era stata la volta del Cantacronache (1957-1958) con la collaborazione dello stesso Fortini, di Italo Calvino, Gianni Rodari. Nei suoi recital in teatro, Laura Betti cantava testi degli autori appena citati cui si aggiunsero anche Moravia e Pasolini.
Esperienze artistiche rimaste sconosciute al grande pubblico, ma che senza dubbio influenzarono la canzone d’autore. Ad esempio la cosiddetta ‘scuola genovese’ che trasudava surrealismo d’Oltralpe (come nel caso del primo De André), di crepuscolarismo e montaliano ‘male di vivere’ shakerato alla bisogna con un po’ di Pavese (pensiamo a Tenco e Paoli).
Da allora la canzone sarebbe stata sempre più ‘poetica’ e ‘di significato’. La svolta avvenne con il drammatico suicidio di Tenco, quando Salvatore Quasimodo sentenziò: “chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte”. Gli fece eco Alfonso Gatto dicendo che lo stolido pubblico sanremese aveva guardato Tenco chiedendosi come mai lui si trovasse su quel palcoscenico anziché starsene “con i poeti delle poesie illeggibili”. Tra canzone e poesia era dunque nato reciproco apprezzamento.