23/04/12

Ieri come oggi. Davanti alla Pace di Ambrogio Lorenzetti

Il rapporto con il passato non è mai semplice. A complicarlo sono i miti fascinosi, le nostalgie, le frustrazioni dell’attualità. Oppure, per liquidarla con la civettuola supponenza di Oscar Wilde, il bello del passato è che è passato. Resta il fatto che ricordarsi di ‘essere stati’ è condizione utile per continuare ad ‘essere’. Ne sanno qualcosa coloro che vivono in contesti dove la storia trascorsa non risulta mai ‘remota’ ma, a suo modo, coniugabile al presente. Chi qui scrive gioca spesso con tale con/fusione di luoghi, tempi, sentimenti. L’ultima volta è accaduto davanti all’allegoria della Pace dipinta da Ambrogio Lorenzetti nel ciclo di affreschi del Buongoverno racchiusi nel Palazzo Pubblico di Siena. Guardatela. Finalmente una Pace vera, dal volto umano, muliebre. Siede serena ma non distratta, meditabonda ma vigile. Tutto intorno brulica una quotidianità di cose e di persone, di fatica e di spensieratezza. Una operosità che lei apprezza sostenendosi garbatamente la nuca (i pensieri) con una mano, mentre l’altra, con gesto sicuro, erge un ramoscello d’olivo. La Pace ha grembo largo e materno. Un corpo saldo i cui piedi poggiano su residui armamentari di guerra, quindi inibiti all’uso, pena il rischio di vedere tanta pacata femminilità trasformarsi in una madre-coraggio fiera e ringhiosa. Di lei, poi, piace lo sguardo per niente pago, anzi spalancato su una sorta di attesa. Occhi allertati sull’orizzonte, che la dicono qui presente, però anche oltre: a prefigurare un futuro, nuovi scenari. Indossa, peraltro, un abito che non la connota più di tanto nel suo tempo, che ne lascia intuire forme e nudità. Quasi a significare che ‘per essere in pace’ occorra svestirsi dai più diversi orpelli. Certo è che quella donna lascia intendere un carattere difficile. Non può che essere amata nel confronto, poiché l’incontro con lei passa necessariamente dal conflitto (che è altra cosa dell’inimicizia). In nome di un amore ancorché tradito, ella chiede sempre di poter ricominciare. Fateci caso. I suoi occhi non sono ripiegati su se stessa e sulle proprie malinconie. Cercano altro-da-sé, rifuggendo dai palliativi delle facili consolazioni, e a tutto vantaggio di sguardi che accendino nuove visioni del mondo. Vuole dunque ‘vedersi’ nel riflesso inatteso di amori rinnovati e condivisi. Ecco, a quali pensieri può portare una figura che ad ogni nostro oggi attraversa quasi 700 anni di storia. Così che dentro le secolari stanze, un tempo della repubblica senese, irrompe il presente. Qualcuno srotola la mappa delle possibilità umane finora inespresse. Già l’iridescenza dell’alba illumina un tempo che procede verso ciò che è ancora latente, possibile. In quel riflesso lei, la Pace
, semisdraiata e insonne, vestita solo della sua trasparenza, diventa pazzamente desiderabile. Ieri come oggi. C’è dunque la suggestione di un passato che sa iscriversi perfettamente nel presente. Poiché – Adorno e Horkheimer docent – la questione non è di conservare il passato, ma di realizzarne le speranze.

16/04/12

Lo specchio della fatica. E’ il lavoro umano a configurare i luoghi


Già verso il II secolo dopo Cristo esisteva in Italia la damnatio ad metalla, la crudele condanna ai lavori forzati in miniere e cave. Come a dire che quel lavoro era da ritenersi punitivo, espiatorio, comunque tremendo. E, se non altro per la fatica che richiede, tale è rimasto fino ai giorni nostri, conservando giustappunto il peso di una pena che dal corpo va a stremare tutto l’essere. Persino i luoghi, paesi, villaggi, case che vicino a miniere e cave sono sorti, paiono, nella loro condivisa umanità, non aver potuto prescindere da quanto una condizione di lavoro rendesse l’esistenza ruvida, scheggiata, essenziale. Quasi che all’azione dello scavo non restasse indenne la vita intera, le sue feriali modalità, i suoi affanni.
Così si presentava anche l’immaginaria ma credibile Sleescale, la cittadina in cui è ambientato il popolare romanzo E le stelle stanno a guardare di Archibald Joseph Cronin, scrittore e medico minerario nel Galles ai primi decenni del Novecento. Tra melodramma (tale è il registro su cui Cronin modella il racconto), realismo, romanticismo e impegno politico, la fittizia Sleescale è geografia di destini, di conflitti morali e sociali, di legittime aspirazioni e sentimenti. La miniera e ciò che ne deriva opera uno scavo pure negli animi, disegna in superficie il reticolo delle relazioni umane, fa esplodere le contraddizioni, brillare le passioni. E’ uno spaccato antropologico.
Non è invece luce di stelle, ma lunare quella della novella pirandelliana (Ciàula scopre la luna) in cui il giovane protagonista, che non ha paura del buio di una zolfara siciliana, ha però terrore dell’esterna oscurità della notte, finché al cospetto della luna il timore volge in lacrime di dolcezza. Lo scrittore siciliano aveva ben presenti le condizioni di sfruttamento e miseria di chi lavorava nelle zolfare (in Ciàula si fa riferimento alla miniera “Taccia Caci” nei pressi di Aragona). Dei minatori vengono colti i caratteri interiori, ed anche nel caso di Pirandello essi divengono come lo specchio del luogo.
Di letteratura militante dobbiamo infine parlare citando il libro I minatori della Maremma (inchiesta, ricerca, empatica vicinanza ai lavoratori delle miniere) scritto da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola nel 1956. Documento socio-politico di un’epoca, di una realtà lavorativa e, ancora una volta, storia di paesi e villaggi, di miserie e casi umani. In quelle pagine troviamo, tra le altre cose, il racconto dettagliato della tragedia di Ribolla (tristemente ricordata come la Marcinelle toscana), quando «fra le 8,35 e le 8,45 del 4 maggio 1954, nella sezione Camorra della miniera di Ribolla, si verificò uno scoppio di grisou». Vi morirono 43 persone («tutte le salme che venivano estratte dal fondo della miniera, venivano portate in un’autorimessa»). Come scrivono Bianciardi e Cassola, Ribolla era, allora, «un villaggio sperduto in una breve pianura ondulata sotto le colline di Montemassi e di Roccastrada», era ed è tutt’oggi «un crocevia di tante storie». Perché a fare i luoghi sono le vicende e il lavoro dell’uomo.

10/04/12

Morti di camorra. Vittime sacrificali dei giorni nostri


E’ pasqua. Per i cristiani il felice epilogo di un ‘paradosso’ (Dio condannato e messo a morte da uomini, poi risorto) su cui ha trovato fondamento una fede millenaria. Festa anche tragica, dunque, poiché nel suo antefatto c’è una vittima sacrificale, l’«agnus Dei qui tollis peccata mundi» che conobbe la solitudine in cui tutte le vittime si trovano, quando diviene incommensurabile lo spazio frapposto tra la nera notte dell’abbandono e il rosso del sangue.
E sappiamo quante pasque (davvero difficile distinguere se religiose o laiche) continuino a consumarsi nel mondo. Ogni dove l’affermazione di un’idea, di una fede, di un diritto negato, di un principio di giustizia, libertà, bene comune venga assurdamente a coagularsi con sangue di vittime.
Nel nostro Paese l’esempio più eclatante e drammatico continua ad essere quello dei martiri per mafia e camorra. Una malattia degenerativa di certe realtà, una saga del male che va raccontata non certo per alimentarne un distorto mito, ma per educare le coscienze di quanti – magari complici inconsapevoli – ritengono sia ‘normalità’ quella crudele anomalia.
Da questo punto di vista è stato provvidenziale (una svolta, in termini mediatici) anche Gomorra (Mondadori, 2006), il best-seller di Roberto Saviano. Prima volta in cui un racconto di camorra diviene un caso letterario, un film di successo, occasione di dibattiti, di approfondimenti e chiacchiericci televisivi. Peraltro, sempre sul tema, c’erano già state testimonianze letterarie di gran pregio. Ricordiamo Sandokan di Nanni Balestrini (Einaudi, 2004) incentrato sulla figura del capo dei Casalesi, Francesco Schiavone (Sandokan per la sua somiglianza con l’attore indiano Kabir Bedi). In una riedizione del romanzo (DeriveApprodi, 2009) proprio Saviano, nella prefazione, ha parlato di quanto quelle pagine, a suo tempo, fossero state espressione di «una letteratura in grado di aprire come grimaldello le grate della storia» di un determinato territorio, testimoniando che «raccontare finalmente era possibile; e sembrava soprattutto necessario per tentare una qualche forma di resistenza». Mentre forse troppo presto, rispetto ad una diffusa sensibilità e cultura anticamorristica, era arrivato Il camorrista di Giuseppe Marrazzo (Pironti Editore, 1984) da cui Giuseppe Tornatore, due anni dopo, avrebbe tratto l’omonimo film. Nel libro di Marrazzo il criminale al centro della vicenda è o’Prufessòre, cioè Raffaele Cutolo (il Don Raffaè della canzone deandreiana) e la cosiddetta Nco (Nuova Camorra Organizzata).
Proprio per mano armata di quella nuova camorra, fu assassinato pure Peppino Diana, un prete schierato contro il clan dei Casalesi, che, in forza della vocazione che gli era propria, andava dicendo: «per amore del mio popolo non tacerò». Venne ammazzato nella sacrestia della sua chiesa, la mattina presto del 19 marzo 1994. Stava indossando i paramenti per celebrare messa. Il dramma della pasqua giunse per lui con due settimane d’anticipo. A Casal di Principe c’è ancora chi spera in una risurrezione, per lo meno delle idee che lo videro martire.

02/04/12

Un genere letterario. Romanzo storico o antistorico?


Con le recenti celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, è stato richiamato più volte il cosiddetto romanzo storico che, giusto nell’Ottocento, svolse una indiscutibile funzione nell’alimentare ideali ed amor patrio, mito romantico dell’eroe, educazione ad una morale e a sentimenti, spinti talvolta fino al patetico. D’altra parte – e compatibilmente con il grado di alfabetizzazione degli italiani – si trattava di una produzione letteraria destinata al ‘largo’ consumo (popolare e populista) che ambiva ad uscire dal ghetto della ‘letteratura di intrattenimento’, collocandosi sulla nobile scia di quei Promessi sposi in cui si era saputo coniugare qualità e popolarità. Sorprese, infatti, quando nel 1845 Manzoni giunse a sconfessare se stesso scrivendo il saggio Del romanzo storico ed in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, e argomentando come il limite di tali libri stesse proprio nella loro inattendibilità storica, nell’alto tasso di falsità in essi contenuta.
Il genere, però, resistette. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento si piegò (forse snaturandosi) ai temi della contemporaneità, divenne sempre più ‘realista’. Basti pensare a romanzi quali Il ventre di Napoli di Matilde Serao o a I Viceré di Federico De Roberto.
Giungemmo così al secolo successivo e il romanzo storico – o tantomeno l’utilizzo del suo contenitore – si trasformerà sempre più in ‘giudizio storico’. E’ il caso de I vecchi e i giovani di Pirandello (1913), severa analisi del processo di riunificazione dell’Italia visto dalla Sicilia. Oppure ebbe intenti retrospettivi, per ricordare e capire la storia che si era attraversato, come intese fare Riccardo Bacchelli con Il mulino del Po. Per approdare, poi, al ‘realismo socialista’ di Vasco Pratolini, esplicitato nella sua trilogia compresa nel titolo Una storia italiana (il primo dei tre romanzi, Metello, fu pubblicato nel 1952) e dove l’autore pone chiaramente i termini ideologici ed economici della ‘questione di classe’.
D’ora innanzi, perciò, il genere potrebbe definirsi quasi ‘antistorico’, come ebbe a scrivere il critico Vittorio Spinazzola in un saggio di qualche anno fa, portando ad esempio I Viceré, I vecchi e i giovani e Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Pagine che testimonierebbero, appunto, una sorta di ‘antistoricità’, ovvero un nuovo atteggiamento (una ‘dolorosa consapevolezza’) verso la storia, distante dai trionfalismi di Manzoni e Nievo e dalla ottimistica fiducia nel progresso umano.
Con gli ultimi decenni il romanzo storico – o, per meglio dire, ‘neostorico’ – ha visto molti titoli di successo che qui non staremo ad enumerare, per citarne, invece, uno soltanto e così fare omaggio ad uno scrittore recentemente scomparso, Antonio Tabucchi, che con Sostiene Pereira (1994) dimostrò la praticabilità di un genere letterario ancora efficace per asserire la giustezza dei sentimenti l’irrinunciabilità di certe verità storiche e morali. E magari riuscire a farlo con una scrittura precisa, nitida, avvolgente.