27/09/10

La collina dei dormienti. Dove le pietre sono parole


Ugo Foscolo lo aveva lasciato intendere chiaramente. Dei sepolcri i morti non sanno che farsene; servono, piuttosto, all’illusione dei vivi, se non altro per dare un “luogo” alla memoria e agli affetti (“amorosi sensi”) dei propri scomparsi. Ma a confutare l’asserzione foscoliana c’è un celebre caso letterario: quell’immaginario cimitero di Spoon River, dove invece i trapassati, proprio in virtù delle loro tombe – e ancor più che in vita – si ergono a mostrare pochezza, genialità, anarchia, fragilità, affetti, inadeguatezze (e quindi, se se pur da morti, ad esprimere una rivalsa) verso la vita stessa. La sintesi (im)pietosa degli epitaffi fa redivivi i corpi e tutti i sentimenti che vi si agitarono. E le domande a cui essi (quando era il loro tempo) non seppero rispondere, ora sbalzano, nette, a interpellare altri viventi.
Secondo Cesare Pavese (fu lui a far scoprire il libro di Lee Masters ad una giovanissima Fernanda Pivano, poi diventatane la traduttrice italiana) in Spoon River si trova la “consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti”. E aggiungerà ancora: “Ciascuno di questi morti porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua… Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima”.
Almeno fino agli anni Settanta dello scorso secolo, Spoon River fu letto anche in una chiave morale, se non addirittura politica. Emergeva infatti da quelle pagine una “piccola America”, una società chiusa e ipocrita che, secondo il già citato Pavese, viene giudicata e rappresentata da Lee Masters “in una formicolante commedia umana dove i vizi e il valore di ciascuno germogliano sul terreno assetato e corrotto di una società, la cui involuzione è soltanto il caso più clamoroso e tragico di una generale involuzione di tutto l’Occidente”. Non sappiamo quanto questo giudizio possa essere spinto fin dentro il disordinato teatro dei giorni nostri. Sta di fatto che gli spettri di Spoon River non hanno ancora finito di raccontarsi. Dimesse ma tenaci, quelle voci insinuano anche il tempo presente; non più come sperdute vicende personali, ma stavolta universali. Ogni epigrafe è dunque una sentenza rivolta all’umano vivere. Sulla collina di Spoon River dormono tutti dentro l’ossimoro di una inquieta pace. Chiedono un supplemento di vita o per lo meno di compassione, non solo per se stessi, ma per il mondo intero.

20/09/10

Amorosi sensi. Il più sublime dei cantici


Nella letteratura antica esiste un testo il cui titolo, Cantico dei cantici, già allude ad una implicita assolutezza. Non a caso in ebraico – questa la lingua originaria della sua redazione datata tra il V e il III secolo a.C. ad opera di autore ignoto – è detto shìr hasshirìm, cioè “il più sublime tra i cantici”. Tale, infatti, è ritenuta la sommità di quella poesia, che il rabbino Akiba non ebbe dubbi nell’affermare che “Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico fu donato a Israele”.
Il breve poemetto è un dialogo d’amore tra un uomo e una donna. Un canto teso, appassionato, percorso da un sottile ma spasmodico erotismo. E poiché esso è entrato a far parte dei libri della Bibbia ebraica e cristiana, la sua interpretazione religiosa (non senza qualche problema) è ricondotta ad una allegoria dell’amore tra Dio e Israele, tra Cristo e la Chiesa.
Chi ha frequentazioni di letteratura teologica sa bene che la fortuna del Cantico in ambito cristiano si deve in buona misura a Origene che, intorno al 240, gli dedicò un corposo commentario e, successivamente, due omelie. Fu lui a fondarne un’esegesi spirituale dove il vino, i baci, gli slanci sensuali del testo biblico vanno intesi come moti dell’anima protesa verso il Logos. Da allora in poi tutta la letteratura mistica ha ripercorso questa rappresentazione simbolica.
Ma per le nostre esigenze di pura poesia, è più che sufficiente coglierne l’interpretazione naturalistica. Ovvero la vicenda di un’attrazione appassionata e sofferta quale è l’esperienza dell’amore umano.
Tra le molteplici citazioni del Cantico dei cantici (scrittori di ogni tempo vi hanno attinto in vari modi) vorremmo richiamarne una cinematografica. Quella che si ha nel capolavoro di Sergio Leone C’era una volta in America. In due momenti della storia, Noodles e Deborah parlano del Cantico: da adolescenti e quando, ormai in età matura, si rincontrano e lui le confida: “gli anni passavano… ma due cose non riuscivo a togliermi dalla mente: la prima era Dominic, quando prima di morire mi disse ‘Sono inciampato’… e l’altra eri tu che mi leggevi il Cantico dei Cantici. Ricordi? ‘Oh, figlia di principe quanto son belli i tuoi piedi nei sandali… Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino, il tuo ventre è un mucchio di grano circondato da gigli, le tue mammelle sono grappoli d’uva, il tuo respiro ha il dolce sapore delle mele”.
Ecco l’umanissimo idillio del Cantico, la sua universalità nel raccontare l’ebbrezza dell’innamoramento. Il dramma dell’amore, quando resti incompiuto o disatteso.

13/09/10

Sui tetti di Siena volò via il barone rampante guardando dall’alto una città invisibile


Venticinque anni fa, nella memoria di dolore dell’antico spedale senese di Santa Maria della Scala si iscrisse anche la fine della vicenda umana di Italo Calvino, scrittore che tutt’oggi non ha eguali per la particolarità del suo stile, per la padronanza degli artifici narrativi uniti ad una scrittura tra le più nitide ed eleganti della prosa del Novecento.
Chissà per quali “destini incrociati”, Calvino (nato a Santiago de Las Vegas, Cuba, nel 1923) doveva morire a Siena tra la notte del 18 e 19 settembre 1985. Forse perché Siena poteva somigliare a qualcuna delle sue immaginarie Città invisibili. Opera che oscilla tra il racconto filosofico e quello fantastico-allegorico e che, non a caso, Pietro Citati ebbe a definire “parabola morale e allegoria metafisica”. Città ‘invisibili’ e di ‘sogno’ in cui la complessità del mondo e dei suoi accadimenti si trasfigura in rarefatti luoghi mentali, svincolati da tempo e da spazio.
Non neghiamo che quando proprio in quel libro si va a leggere il capitolo dedicato alla città di Zaira, a tratti sorge spontanea l'immagine di Siena: “Inutilmente magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati…; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato... Di quest'onda che rifluisce dai ricordi la città s'imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, virgole”.
Suscita emozione rileggere questa pagina e immaginare Calvino, dietro gli “alti bastioni” del Santa Maria della Scala, perso in un sonno che non conobbe risveglio. Le suggestioni letterarie vanno a soprammettersi al ricordo di quando si diffuse la notizia che l’autore del Barone rampante era deceduto in un letto del Santa Maria della Scala. Sui tetti di Siena volava una coloratissima mongolfiera. E fu davvero inevitabile non pensare a quel Cosimo di Rondò che per sfuggire a una punizione si rifugia su un albero e si costruisce, per conto suo, un mondo aereo. Sceglie una modalità ostinata e bizzarra per osservare dall'alto quanto accadesse sulla terra. Così trascorrerà tutta la sua vita, finché in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare attraversando il mare: “L'agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell'ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s'aggrappò alla corda, coi piedi sull'ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato nel vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare...”. Qualcosa di molto simile accadde a Siena il 19 settembre del 1985.

06/09/10

Mondo e dintorni. Perduta la festa gabbato il tempo


In un mondo tutto schiacciato sul presente (dove il passato è uno stipato retrobottega di robivecchi; il futuro un’ipotesi per la quale non vale la pena investire risorse nemmeno mentali) anche l’idea di “festa” (e di ciò che essa sottendeva) va ormai scomparendo. Così che la festa, persino da un punto di vista lessicale, è detta più sbrigativamente “vacanza”. Ed il rito collettivo di maggior impatto è la lunga processione di incarognite individualità che, a date fisse, si incolonnano lungo le autostrade. Ciò, del resto, risulta meglio funzionale alla produttività, al consumismo, alla “necessaria” fuga (non a caso occorre partire) dai problemi reali.
Perduto il senso del tempo e della storia, del feriale e dello straordinario, dell’utile e del disutile, dell’ordine e della trasgressione, la festa, dunque, non trova motivo di esistere. Perché essa rappresentava, appunto, una sospensione del tempo (una momentanea fuoriuscita) per ricollocarsi nel tempo stesso, per rinnovarlo e rigenerarlo. Era in questo modo che le comunità – attraverso riti e rappresentazioni – rifondavano la loro ragion d’essere, riproponevano le proprie origini, trasmettevano una memoria e un sentimento condiviso.
Laddove, oggi, tali usanze perdurano (o si reinventano) ci si dibatte tra l’ottusità di chi rivendica in termini discriminatori (se non addirittura razzisti) le proprie tradizioni e la sufficienza di coloro che quelle manifestazioni ritengono anacronistiche rispetto alla dimensione universale del nostro vivere. Eppure esisterebbe il giusto approccio per essere “glocal”, cioè per vivere (e condividere) intelligentemente il proprio specifico all’interno di una contemporaneità che fornisce “d’ufficio” una doppia cittadinanza: quella registrata all’anagrafe delle nostre origini e quella del mondo. La seconda non costituisce minaccia per la prima, ma, anzi, le offre una sua compiutezza.
Valga al proposito l’acuta considerazione di Andrea Camilleri, il quale a chi gli chiedeva se potesse aver senso oggi un evento come il Palio di Siena che spezzetta una già piccola città in tante piccole contrade, lui rispose: “Non è anacronistico, perché in fondo io sono felice che sia un sarto europeo a confezionarmi il vestito che indosserò. Però se la mia biancheria intima è del mio paese, io mi ci trovo più a mio agio dentro quel vestito, e quel vestito mi cade sicuramente meglio”. Ben venga dunque la sartoria internazionale e quanto di intimo-intimo possa starle sotto. Ridicoli, però, saremmo se volessimo girare il mondo con indosso solo quelle mutande.