26/04/11

Esercizi d’ironia. Ridere è cosa seria


Io c’ero, potrebbe dire qualcuno, con malcelata tenerezza, dinanzi a una foto d’epoca che mostra un muro di Parigi con su scritto: “una risata vi seppellirà”. Slogan di grande effetto (anche letterario) che il movimento del maggio francese aveva mutuato dall’anarchico ottocentesco Michail Bakunin. Le cose poi si complicarono quando quella risata divenne un ghigno troppo malevolo, fino a perdere completamente il senso dell’ironia. Diciamo che ebbe ragione Freud, il quale già aveva avvertito che il motto di spirito altro non è che un desiderio frustrato, simile al sogno, tant’è che l’umorista “sogna ad occhi aperti”. E noi smettemmo di stare svegli in un sogno per addormentarci dentro la realtà.
Eppure di ironia e di tutti i suoi complementi (comicità, umorismo, sarcasmo) ci sarebbe un gran bisogno. Dovrebbe essere un farmaco fornito gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, al pari di quelli contro l’ipertensione.
Proviamo, allora, a fare un discorso serio sul ridere. Tiriamo giù dalle nostre librerie l’acume di Henri Bergson racchiuso nelle pagine del suo libro Il riso. Saggio sul significato del comico per argomentare, ad esempio, quella comicità (il filosofo francese la definisce “castigo sociale”) di cui la comunità degli umani non può fare a meno per individuare, respingere o per lo meno correggere i comportamenti che vanno a minare lo “slancio vitale” con il quale si identifica la vita stessa. Perché il riso costituisce un antidoto a ciò che mette in pericolo le nostre esistenze. Da esso può dipendere, dunque, la sopravvivenza della specie.
Ma c’è di più. L’umorismo è anche lo strumento che fa distinguere il falso dal vero, le incongruenze tra quello che siamo e quello che dovremmo essere. In questo è illuminante Luigi Pirandello (grande teorico dell’umorismo) allorché esemplifica così: “Vedo una vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca e tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere”. Ecco quanto benefico sia un certo ridere ai fini della consapevolezza del proprio essere, di una presa di coscienza che avviene grazie al (sorridente) “sentimento del contrario”. Importante, però, è non ridere da soli. La comicità va socializzata e soprattutto giocata con le parole che bene si prestano alla parodia, al paradosso, al doppio senso e al non-senso. In tal caso è consentito, anzi auspicabile, confondere le parole con i fatti.

18/04/11

Ritorni. La letteratura dell’impegno


E’ tornato di attualità George Orwell. Perché a lui verrebbe da ricondurre la diffusa “distopia” (termine opposto a quello di utopia per connotare una società indesiderabile) che, purtroppo, tutti ha contagiato. Ma anche perché potremmo definire orwelliana una letteratura che dello scrittore britannico sembra aver assunto le motivazioni, allorché egli affermava: “Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro… lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione”.
Sta di fatto che certa letteratura è divenuta nuovamente politica nell’intento di raccontare “in che mondo siamo”. D’altra parte se consideriamo le nostre paure, pigrizie, sconforti, fughe…, per conoscere determinate realtà non ci resta che la narrazione. Diversamente, chi di noi si spingerebbe in territori di guerra, dentro i vicoli dove la camorra traffica ed ammazza, nei meandri urbani dell’emarginazione e della povertà, lungo le strade senza sfondo battute dai precari del lavoro? A farci praticare questi luoghi e, quindi, smuovere in noi il sentimento dello sdegno, il sussulto della presa di coscienza, sono allora le pagine in cui il documento, il dato oggettivo, incrocia, magari, il racconto fittizio. Ma il risultato è di forte coinvolgimento e così restiamo presi da ciò che potrebbe definirsi una “poetica della testimonianza”.
Il caso più eclatante è stato Gomorra di Roberto Saviano, che ha fatto riaprire dibattiti sul romanzo-réportage, sul ruolo politico degli scrittori, sul potere di denuncia dell’atto narrativo. Quanto ad esiti letterari ci sono, comunque, autori pure migliori di Saviano. Viene in mente, ad esempio, Davide Enia, che nelle pagine quasi perfette del suo racconto Mio padre non ha mai avuto un cane fa rivivere la terribile stagione degli stragi di mafia e un’atmosfera che “allora era intrisa di rabbia, oggi di rassegnazione”. Oppure pensiamo al libro di Aldo Nove sul sogno perduto di una intera generazione destinata a non diventare adulta, come colei (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) che dà il titolo a quella serie di docudrammi aspri e struggenti. E ancora le stralunate storie di Ascanio Celestini (Io cammino in fila indiana) che tra gli scrittori citati è forse il più raffinato per come sappia esprimere indignazione squadernando fiabe terribilmente vere. Ben tornata, dunque, scrittura di denuncia. Diceva Fortini: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”.

04/04/11

Si fa per dire. Sillabario del Paese unito


Poiché quest’anno dobbiamo parlare di Unità d’Italia, c’è fra tutti un bel concorso a ritrovare le parole che meglio possano evocarla. Le parole, appunto, che “hanno fatto l’Italia” o che, tantomeno, ne abbiano suggerito l’aspirazione. A tale sillabario, come abbiamo avuto modo di scrivere in diverse riprese, dette un deciso contributo la letteratura ottocentesca, e l’onda emotiva di certe pagine giunse a lambire pure i primi decenni del Novecento. Anni e libri da tempo consegnati alla polvere che giusto i soffi del centocinquantesimo hanno rivivificato, così che un nugolo di parole ha preso a disperdersi nel nostro oggi dove è tornata a sventolare “la santa vittrice bandiera” manzoniana, o con Foscolo siamo andati “memorando la libertà e la gloria degli avi”, quegli stessi avi di cui Leopardi vedeva “i simulacri e l’erme torri… ma non la gloria”.
Sprezzanti dell’anacronismo e amanti delle belle lettere, ci è piaciuto innescare il gioco delle citazioni. Però – sarà bene dirlo – le parole che da un certo punto in poi hanno fatto l’Italia sono state ben altre. Provate ad esempio a immaginare quali emozioni avrà smosso il 7 gennaio 1897 il verbo del Carducci che in occasione del centenario della bandiera tricolore rimbombò nell’atrio del Municipio di Reggio Emilia: “L’Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo…”. Chissà che brividi suscitarono gli stentorei accenti del poeta, ma indubbiamente impari a quelli che sarebbero stati provocati l’11 luglio 1982 da un grido che percorse le strade deserte di tutta Italia: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”. Il vate di turno era Nando Martellini e le sue parole contribuirono, eccome, a fare l’Italia. A sdoganare persino lo sbandieramento del Tricolore, fino a quel momento appannaggio (ed a panneggio) di una parte politica che praticava brutte nostalgie. Dobbiamo insomma prendere atto che il Paese si è formato assai di più attorno ai lemmi di una sociologia spicciola che a quelli letterari. Vedasi, dunque, alle voci cambiale, signora Longari, Seicento, tinello, Sisal, terrone, mutuo, cervicale, Drive-in. Ilare quanto tragico discrimine, quest’ultimo, tra una società che guardava la televisione e una società che da allora in avanti sarebbe diventata televisione, tra una pur contraddittoria idea di bene comune e la prevalenza degli egoismi. Del resto – e questa volta le parole sono nuovamente letterarie e ottocentesche – Federico De Roberto nei suoi Viceré aveva già tutto previsto: “L'Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri”.