26/03/12

Fantascienza. Se l’incredibile è possibile


In principio era la fiaba, la narrazione epica e mitologica, i resoconti di viaggi in terre esotiche e ‘fuori dal mondo’. Quindi il racconto gotico, il fantasy, il fantastico. Finché, con il progresso scientifico riferito soprattutto alla fisica e all’astrologia, nasce la fantascienza (la science fiction, per dirla all’inglese). Così che i paradigmi scientifici ormai acclarati potessero essere spinti anche ‘oltre’, grazie a quella infrazione praticabile quando si alleano razionalità e fantasia. Pertanto, a costo di ‘farsi paura’, ecco storie dove l’assurdo diviene reale, il prodigio (quasi) credibile. E’ a questo punto – e non certo ignorando precursori quali Poe, Shelley, Verne, Wells – che sorge la fantascienza moderna, un vero e proprio genere letterario che successivamente troverà ulteriori espressioni nel cinema, nel fumetto, nella televisione.
D’ora innanzi la fantascienza vorrà dire ‘meraviglia’, momentanea sospensione dell’incredibile; significherà, a suo modo, la trasposizione di una incondizionata fiducia nel progresso, un atteggiamento mentale aperto al futuro (e al futuribile). Poi l’inquietante fungo della bomba atomica ottenebrerà improvvisamente gli entusiasmi nell’angoscia e nel lutto. Tragedia immane, nonché monito a come la scienza non fosse certo estranea all’opzione tra bene e male. Non a caso, allora, a partire dagli Anni ‘60 e prevalentemente in America, la fantascienza si presterà ad essere anche critica sociologica, interpretazione del presente, giudizio morale, ironia su miti, tabù, certezze. Pensiamo, ad esempio, a racconti quali Villaggio incantato di Alfred Elton van Vogt (parabola satirica sul relativismo), Miraggio di Clifford Simak (a dimostrare che l’incontro tra culture diverse è possibile), Servocittà di Walter M. Miller Jr. (in uno scenario post-atomico le macchine abbandonate ai loro automatismi rendono impossibile la vita ai pochi superstiti), Il costo della vita (grottesca rappresentazione del consumismo). Fino ad affrontare le tematiche dell’emarginazione come ne L’esame di Richard Matheson, dove si descrive una società che mette a morte gli anziani o nel toccante Fiori per Algernon di Daniel Keyes in cui si narra di un ritardato mentale che a seguito di un esperimento scientifico diviene iperdotato, ma solo per breve tempo.
Così – nata popolare – la letteratura fantascientifica si farà sempre più colta. E non a caso i racconti che abbiamo ora richiamato saranno pubblicati la prima volta in Italia nel 1959 in una antologia diventata celebre (Le meraviglie del possibile) nel blasonato catalogo di Einaudi Editore per la cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero. Fu, quella, una vera svolta. Dopo di che – sempre per restare in Italia – non stupirà vedere sulle librerie di letterati e intellettuali l’intera raccolta dei romanzi di Urania (iniziati da Mondadori nel 1952 e ancora in edicola). D’altra parte come ebbe ad avvertire proprio Carlo Fruttero, la fantascienza “non è profezia, ma una proiezione appassionata dell’oggi su di un avvenire mitico: e per questo aspetto partecipa della letteratura e della poesia”.

19/03/12

Ad Est dei pensieri. Un solo mare molte sponde


I luoghi mostrano molto più che paesaggi di cose, perché sono anche pensieri, ‘punti di vista’. Viene in mente, ad esempio, Otranto: la Bisanzio del Salento, estrema terra ad Est che si aggetta come ponte verso Oriente; protesa frontiera dove i millenni hanno incrociato civiltà, religioni, lingue; luccicante attracco di speranze. Ecco, da quella postazione di confine che l’acqua rende indefinibile, nasce spontaneo pensare al Mediterraneo. Nome di un mare, ma soprattutto di sponde, su ciascuna delle quali troviamo storie, pluralità, modi di concepire lo stesso Mediterraneo. Per Hegel, esso era “il centro della storia del mondo, il suo animatore, la sua condizione di vita…”. Era ed è, questa, la rappresentazione del Mediterraneo in un ‘unicum’ geografico-culturale di concezione molto europea e moderna. Vera solo in parte, in quanto non tiene conto delle divisioni, delle frammentazioni, delle differenze che appaiono quando le risacche di quell’unico mare restituiscono alla sabbia le più diverse rive. Basta del resto l’attualità con le sue guerre, conflitti, fondamentalismi, le esasperate rimostranze di identità, a mettere in crisi la visione idealizzata di un immenso territorio i cui confini piacerebbe ancora immaginare segnati dagli ulivi, le menti forgiate al crogiolo delle antiche filosofie, gli animi disposti alla Sapienza delle religioni del Libro. Ma non è così. Il Mediterraneo è ‘liquido’ anche quando si fa terra. E’ arcipelago complesso e molteplice. Costituisce, oggi, una sfida ai nuovi assetti geo-politici, mettendo in discussione il paradigma sul quale si è inteso fondare l’Occidente che alcuni ritengono ormai giunto al declino. E dunque non meraviglia se dinanzi a un tramonto si ripensi all’alba, al nascere dell’Occidente, e quindi ad una ‘mediterraneità’ difficilmente riconducibile ad unità storica e antropologica. Lo scrittore palestinese Edward Said parlava del Mediterraneo come di una complessità “di territori sovrapposti e storie intrecciate” e non disgiungeva la sua riflessione da una critica del concetto di ‘Orientalismo’ che – a suo dire – gli studiosi occidentali avrebbero relegato in stereotipi funzionali ad una visione eurocentrica del mondo. Da ciò – sempre a detta di Said – discendono le opposizioni radicali, le ossessive insistenze di ‘diversità’ rispetto a tutto ciò che è ‘altro’ dall’Occidente.
E’ comunque chiaro come vada ridisegnandosi una geografia che risponda a più aggiornate raffigurazioni di un Mediterraneo plurimo e meticcio. Vaste terre di frontiere che, giustappunto, pongono a-fronte i popoli. Lingue che si apprendono per trasporre parole, ma, anzitutto, per tra-durre esperienze umane. Così che su quel mare possa navigare la fluidità del dialogo, la certezza delle rotte, la pedagogia degli incontri. Forse già nella mitologia biblica è racchiuso il desiderio di tale prodigio, allorché “Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto”. Anche in tal caso si trattò di un passaggio da una storia all’altra.

12/03/12

Ecco i ‘millennials’. Ragazzi mettetevi in fila


Chiunque, oggi, vada verso la vecchiaia senza acrimonia, ma con la generosità d’animo che auspica per le nuove generazioni una vita congrua a dirsi felice (pur con tutti i balzelli che l’esistenza pone su questo difficile aggettivo), non può che provare scoramento nel vedere, invece, l’assoluta mancanza di tale prospettiva. Mentre la ‘generazione X’ (gli attuali trentenni con laurea, master, affetti e sogni in standby) di lavoro cercano ancora lavoro, sta entrando sulla scena sociale la ‘generazione Y’, i cosiddetti ‘millennials’. Antropologicamente diversi dai loro predecessori, credono che il mondo sia stato sempre così: perennemente connesso in rete, in vendita nei centri commerciali, ovunque raggiungibile low cost. Convinti, dunque, che il mondo sia nato con loro, ritengono di poterlo un giorno gestire con lo stesso piglio smagato con cui dominano la tecnologia. Dio voglia che anch’essi non restino delusi. Ma ad essere realisti sono arrivati troppo presto pure loro, rispetto al tempo che sarà necessario affinché il nostro Paese riequilibri in termini economici e demografici certi rapporti tra generazioni.
Già qualche anno fa, con un libro molto esplicito, Tito Boeri e Vincenzo Galasso avevano tracciato il quadro di una nazione Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni (Mondadori, 2007) descrivendo in quale modo egoismi e scarsa lungimiranza avessero portato ad una situazione che, tradotta in soldoni, faceva sì che su ogni giovane italiano gravassero 80.000 euro di debito pubblico e 250.000 di debito pensionistico. Suona come un giudizio morale anche il titolo dato da Carlo dell’Aringa e Tiziano Treu ad un corposo saggio dedicato a Giovani senza futuro. Proposte per una nuova politica (Il Mulino, 2011). Qui, dopo un’analisi tanto documentata quanto allarmante (in Italia circa 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni restano fuori sia dall’occupazione che da processi di istruzione e formazione) gli autori individuano percorsi possibili per disinnescare un meccanismo decisamente perverso.
I giovani sono stati quindi traditi non privandoli di futuro, ma costringendoli a questo futuro. Si è così tolto loro Il diritto di sognare – per citare un altro libro di Riccardo Petrella (Sperling & Kupfer, 2005) – laddove il sogno costituisce il rifiuto del presente e il desiderio di un futuro che io decido e non quello che altri hanno disposto per me.
Certo è che il futuro non può progettarsi nel precariato (lavorativo, ma, conseguentemente, anche psicologico, esistenziale). Alcuni ricorderanno il racconto (Il mondo deve sapere, ISBN Edizioni, 2006) che Michela Murgia – oggi scrittrice affermata – fece della sua esperienza di operatrice telemarketing nel call center di una multinazionale. Giunse ironicamente a questa conclusione: “Mi daranno il Premio Nobel per il precariato. E me lo leveranno dopo due mesi”. Amaro sarcasmo su una condizione ingiusta ed offensiva. La vita – perché di questo si tratta – non può essere rinnovata con contratti di sei mesi in sei mesi.

05/03/12

“Ricorditi di me”. Leggenda medievale anzi romantica


Le fiction che sfarfallano dentro le nostre serate televisive hanno discendenze antiche e di gran lignaggio. Una storia su tutte, quella di Pia de’ Tolomei. Leggenda medievale dai drammatici accenti che intreccia sapientemente giallo e mélo, costruita sui pochi (anche se intensi) versi con cui Dante chiude il canto quinto del Purgatorio: “Ricorditi di me che son la Pia. / Siena mi fe’, disfecemi Maremma: / salsi colui ch’inanellata pria, / disposando, m’avea con la sua gemma”.
Racconto che, dall’Evo di mezzo, sedimentò fino a riaffiorare, vibrante, nell’Ottocento. Quella storia romantica di vita, d’amore e di morte era, infatti, perfetta per lo spirito dell’epoca. Vi erano tutti gli ingredienti: il tormento, l’ineluttabilità del destino, la sensualità, lo strazio della lontananza e dell’assenza.
Ma non solo. La vicenda di Pia andava a sovrapporsi ad un’altra narrazione mitica: la Maremma, pelago malsano e destino di morte per chi vi abitava o vi andava a lavorare. Non sarà un caso se il ventenne granduca di Toscana, Leopoldo II, farà dipingere nelle sue stanze del palazzo senese situato in piazza del Duomo, proprio un ciclo di affreschi raffiguranti la Istoria della Pia. Omaggio alla leggenda di Pia de’ Tolomei, ma anche dichiarata premura verso la Maremma che con lui vedrà veramente una rinascita. E’ persino commovente leggere, in proposito, quanto ebbe a scrivere lo stesso Leopoldo alla morte della sua giovane moglie: “raccolto l’ultimo respiro della buona sposa, corsi in Maremma, lei piangendo che mi aveva lasciato, e Maremma desolata e piena di lutto come il cuor mio”.
Gli affreschi dell’anticamera granducale raccontano la storia di Pia seguendo il filo narrativo della “novella in versi” (1822) di Benedetto Sestini, fondamentale testo per comprendere il mito ottocentesco della Pia. Seguirà poi la tragedia di Carlo Marenco (1837), mentre in quello stesso anno Gaetano Donizetti, su libretto di Michele Cammarano (sempre desunto dal poemetto del Sestini), compone un’opera musicale. Fu ghiotta trama anche per un romanzo pubblicato nel 1879 da Carolina Invernizio, popolare autrice di romanzi d’appendice. E nemmeno il cinema del Novecento si lasciò sfuggire il drammone di Pia con i film di Gerolamo Lo Savio (1910), Esodo Pratelli (1941), Sergio Grieco (1958). Negli anni Trenta sarà Marguerite Yourcenar a rappresentarne la storia nell’atto unico Il dialogo della palude. Vi si immagina l’ultimo incontro tra Nello e Pia, ormai resa demente dalla prolungata reclusione. Un Nello pentito e introspettivo che giunge a chiedere perdono fuori tempo massimo. Le vicissitudini della nobildonna senese saliranno inaspettatamente anche sul proscenio del nuovo millennio con il musical che a lei dedicò nel 2010 Gianna Nannini. La rockstar già nel 2007 aveva anticipato il suo racconto musicale nel disco Pia come la canto io, graffiando con la voce parole che dicevano “dolente Pia innocente è prigioniera”.
E provatevi a dire che Pia non è mai esistita.